Struttura e poesia
nella "Commedia" di
B. CROCE
Il Croce contrappone, nella Commedia, la struttura dottrinale (il «romanzo teologico») alla poesia in quanto concepisce la prima come l'ossatura che ha il solo compito di far da sostegno alla seconda che, a sua volta, è vista esclusivamente come libera e ricchissima fioritura lirica, come limpida e gagliarda espressione del sentimento. Sono pagine che risalgono a un ben preciso momento della critica e della polemica dantesca, in quanto segnarono la decisiva rivendicazione di un'analisi estetica della Commedia nei confronti dell'imperante critica erudita e che suscitarono il problema del rapporto fra struttura e poesia, tuttora vivo anche se impostato e risolto in modi ormai
diversi da quelli del Croce.
Che cosa è, dunque, questo spirito dantesco, l'ethos e il pathos della Commedia, la «tonalità» che le è propria? È - si può dire in brevi e semplici parole - un sentimento del mondo, fondato sopra una ferma fede e un sicuro giudizio, e animato da una robusta volontà. Quale sia la realtà, Dante conosce, e nessuna perplessità impedisce o divide e indebolisce il suo conoscere, nel quale di mistero è solo quel tanto a cui bisogna piegarsi reverente e che è intrinseco alla concezione stessa, il mistero della creazione, provvidenza e volontà divina, che si svela solo nella visione di Dio, nella beatitudine celeste. A Dante parve forse talora che anche questo mistero gli si diradasse, negli attimi in cui provò o immaginò mistici rapimenti; senonché questa mistica cognizione nella sua poesia si traduceva, e doveva tradursi, in modo negativo, come racconto di un'èsperienza che si sia fatta di cose ineffabili. E parimente egli sa come convenga giudicare i vari affetti umani e come verso di essi comportarsi, e quali azioni approvare e compiere, e quali biasimare e reprimere, per rivolgere a verace e degno fine la vita; e la sua volontà non tentenna e oscilla tra ideali discordanti e non è straziata da desideri che la tirino in parti opposte. I dissidi e contrasti, che noi possiamo scoprire nei suoi concetti e nei suoi atteggiamenti, sono nel profondo delle cose stesse, si svolgeranno nella storia ulteriore, ma in lui rimangono in germe, non sviluppati, e non appartengono alla sua coscienza, che è coscienza compatta e unitaria: fede salda e abito costante, sicurezza del pensare e dell'operare. Ma in questa robusta inquadratura intellettiva e morale si agita, come si è detto, il sentimento del mondo, il più vario e complesso sentimento, di uno spirito che ha tutto osservato e sperimentato e meditato, è a pieno esperto dei vizi umani e del valore, ed esperto non in modo sommario e generico e di seconda mano, ma per aver vissuto quegli affetti in sé medesimo, nella vita pratica e nel vivo simpatizzare e immaginare. L'inquadratura intellettiva ed etica chiude e domina questa materia tumultuante, che ne è interamente soggiogata, ma come si soggioga e incatena un avversario poderoso, il quale, anche sotto il piede del dominatore, anche tra le catene che lo stringono, tende i suoi muscoli forti e si compone in linee grandiose.
Non altro che l'atteggiamento spirituale che si è cosí definito hanno presente e si sforzano di cogliere e determinare le varie altre definizioni, che s'incontrano sparsamente presso critici e interpreti, circa il carattere della poesia dantesca. E come non vedere in niun modo ciò che è cosí reale ed effettuale e patente? La verità si fa valere sempre, o, per lo meno, traluce con molti bagliori. Senonché quelle formule si sforzano all'intento e mal vi riescono, perché o adoperano concetti inadeguati, o fatino ricorso a metafore, o si perdono in astrattezze e in cataloghi di astrattezze. Si suol osservare, per esempio, che Dante ritrae non il divenire ma il divenuto, non il presente ma il passato; e che cos'altro si vùol dire con questa astrusa distinzione, o che cos'altro è in fondo alle osservazioni che l'hanno mossa, se non per l'appunto che, in Dante, tutti gli affetti sono contenuti e assoggettati a un generale pensiero e a una costante volontà, che ne supera la particolarità? Ma questa energica rappresentazione di una forza che supera e domina una forza è pure, come ogni poesia, rappresentazione di un divenire e non di un divenuto, di un moto e non di una stasi. Si suol dire che Dante è sommamente oggettivo; ma nessuna poesia è mai oggettiva, e Dante, come si sa, è sommamente soggettivo, sempre lui, sempre dantesco; sicché, evidentemente, «oggettività» è, in questo caso, una vaga metafora per designare l'assenza di turbamento e di dissidio nella sua concezione del mondo, il suo pensare con nitidezza e il suo volere con determinatezza e perciò il suo rappresentare con netti contorni. Si suol osservare che è proprio di Dante l'abolire ogni distanza di tempi e diversità di costumi, e uomini e avvenimenti di ogni tempo collocare sullo stesso piano: la qual cosa torna a dire che egli misurava le cose mondane di ogni tempo e di ogni sorta con unica e ferma misura, con un definito modello di verità e di bene, e proiettava il transeunte sullo schermo dell'eterno. Si enumerano i caratteri della forma dantesca, l'intensità, la precisione, la concisione e simili; e certo chi domina con la forza del volere le forti passioni esprime qualcosa di vigoroso e d'intenso, e, poiché le affisa e conosce, è preciso, e, poiché non si perde nelle loro minuzie, è conciso; ma contentarsi di tali enumerazioní di caratteri varrebbe attenersi all'estrinseco. Si suol chiamarlo «poeta scultore», e non già «pittore»; e, certo, quando per l'atto dello scolpire e per lo strumento dello scalpello s'intende il gesto virile, vigoroso, robusto, risoluto, a differenza del dipingere a grand'agio col «lievissimo pennello» (come Leonardo ritraeva la sua arte), Dante sarà bene scultore e non pittore; delle immagini, che piace adoperare, non si disputa, se anche logicamente e criticamente siano prive di senso, com'è privo di senso il famoso parallelo tra Dante e Michelangelo. È noto un luogo dell'Ottimo Comento: «Io, scrittore, sentii dire a Dante che mai rima nol trasse a dir altro da quello ch'aveva in suo proponimento, ma ch'elli molte e spesse volte facea da vocaboli dire nelle sue rime altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere». Anche quando si afferma che il carattere e l'unità della poesia dantesca stanno per intero nel metro, su cui il poema è cantato, nella terzina, incatenata, serrata, disciplinata, veemente e pur calma, si dice e non si dice il vero; come sempre, del resto, in simili tentativi di cogliere l'essenza dell'arte nelle forme astrattamente concepite, tentativi che son ora in molta voga, specialmente nella critica delle arti figurative. Senza dubbio, con la terzina solamente naso il Dante della Commedia, e solo in essa e per essa egli vive il dramma della sua anima; e la terzina non poté essere (com'è stato talora congetturato) da lui intellettualisticamente e volontariamente scelta in quanto allegorica della Trinità, perché, se anche egli pensò a codesta allegoria, il suo pensiero dové questa volta sovrapporsi o allearsi alla necessità della sua anima, alla spontanea mossa della sua fantasia espressiva, con la quale la terzina fa tutt'uno. Ma duale terzina? Non certamente la terzina in genere, ma quella propriamente dantesca, impastata col materiale linguistico, sintattico e stilistico proprio di Dante, battuta con l'inflessione e l'accento che egli le dà, diversa dalla terzina adoperata da altri poeti; con la quale ovvia considerazione si fa altresí chiaro che la terzina viene ricordata in questo caso non come determinatrice per sé stessa di quella particolare poesia, ma in quanto richiama tutto l'ethos e il pathos della Commedia, la sua intonazione o tonalità, lo spirito di
Dante. |