Il
"Monarchia" di Dante di
G. VINAY
Il trattato dantesco, nato dopo la disfatta dell'ultima concreta speranza politica rappresentata da Arrigo VII, non sorge da un sentimento di delusione personale, ma dalla liberazione dalle preoccupazioni contingenti che è venuta a Dante proprio dai recenti avvenimenti. Cosí egli può giungere a quella meditazione severa e serena e a quella visione universale dei problemi politici e morali, da cui era rimasto lontano sia nel Convivio sia nelle Epistole.
L'idea della Monarchia matura nella pacatezza pensosa che succede all'angoscia profetica delle Epistole quando l'avventura italica di Arrigo volge alla fine e non c'è più dubbio che i principi, e i popoli ribelli d'Italia avranno il sopravvento. La più alta difesa ed esaltazione dantesca dell'istituto imperiale viene cosí a coincidere con la disfatta del solo imperatore che abbia dato per un giorno almeno a Dante la certezza d'un prossimo rinnovamento. La constatazione ha indotto più d'una volta a vedere nel trattato il frutto di una fede immelanconita come se la sua epigrafe dovesse essere un «eppur si muove» tra caparbio e deluso. La verità è un'altra e cioè la sconfitta provoca in Dante proprio la reazione opposta. La delusione poteva nascere, se ci pensiamo bene, solo dal successo delle armi imperiali cioè dalla realtà che ne sarebbe seguita, la quale a Dante, dopo anni di ansiosa attesa, non sarebbe apparsa sostanzialmente diversa da quella che lo aveva rigettato da sé cacciandolo da Firenze. La sconfitta lo salva veramente staccandolo dal campo della lotta italiana e fiorentina, gli toglie, diremmo, la possibilità stessa di un rimpiangere deluso, di una sosta melanconica su posizioni passate e lo proietta oltre Firenze, oltre l'Italia, oltre la persona stessa di Arrigo, sul piano dell'umanità e ancora oltre sul piano metafisico dell'ordine e dell'armonia universale.
Mediocre la meditazione politica del Convivio perché la tesi del principato unico affonda le sue radici in una personalità che di universale ha poco più che l'abito della scienza; mediocre il tono delle Epistole perché il sentimento dell'universale cozza contro le mura delle città guelfe. La disfatta cancella l'un atteggiamento e l'altro, cancella persino il ricordo d'Italia. In lontananza rumoreggiano i popoli pazzi e i principi accecati che si buttano contro il loro signore, ma Dante è solo con se stesso, anzi con l'umanità del passato del presente e dell'avvenire senza torri in mezzo, senza eserciti combattenti, nel grande e solo vincolo dello spirito. Nel tramonto delle più care illusioni dell'esule, egli vive per la prima volta nella piena luce della consapevolezza il suo sogno di un mondo senza frontiere. Per questo e non solo per abito scolastico manca nella Monarchia qualsiasi accenno preciso ai vari Roberti, Filippi e Clementi e in loro vece figurano gli uomini intossicati dall'odio, i mercenari della scienza, i mestatori in mala fede. Del resto anche questi accenni sono sporadici e più che altro servono a Dante, come la terra ad Anteo, a riprendere lena.
Tutto questo ci spiega il tono della Monarchia così severo eppure spesso cosí commosso come di chi in fondo alla sua anima ha scoperto una fede che gli fa finalmente guardare al mondo e agli anni futuri con serena fiducia.
L'impostazione del trattato vuol essere nella mente di Dante strettamente scientifico-filosofica, come per il Convivio, come per il De vulgari eloquentia: l'immensa distanza sta nel fatto che punto di partenza o d'arrivo non è più spezzare il pane della scienza a dame e cavalieri e disquisire coi dotti, ma affermare la comunione del singolo col proprio tutto e di questo con un tutto infinitamente più grande: uomo, umanità,
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