Siamo nel
1925.
Il giovane antifascista piemontese Piero Gobetti,
improvvisatosi editore per combattere il malcostume dilagante
con opere libere, pubblica a Torino il primo libro di Eugenio
Montale (Genova, 1896-Milano,1981) con il titolo di Ossi di
seppia, una raccolta di liriche che, pur restando fedele ai
canoni della metrica tradizionale, presenta un uso più
svincolato del verso e della rima, eliminando ogni risonanza
verbale e restringendo la parola a una pura essenzialità per
assurgere ed esprimere il senso tragico della vita, escludendo
ogni retorica sentimentalista.
Cardine
primario degli Ossi di seppia è il territorio ligure, e, in
particolare quello vibrante di memorie giovanili delle Cinque
Terre, rappresentato nelle ore più silenti e luminose del
giorno, su uno sfondo di aridità condensata che, inglobando un
disegno esistenziale, enuncia quasi un messaggio metafisico.
Lo stesso titolo guida l'immaginazione del lettore lungo un
sentiero di cose spente, estinte, come le conchiglie calcaree
custodite all'interno delle seppie evocate, che, dopo essere
state levigate dal mare, vengono deposte dalla maretta sulla
riva insieme ad altri detriti, i quali compaiono spesso nella
poesia montaliana come simboli di una vita colta nei suoi
aspetti più umili, ma non marginali.
Ed è proprio nello sfondo inaridito del territorio ligure che
avviene il muto dialogo del poeta con una natura indecifrabile
che gli nega ogni possibile verità, e conforto, fornendogli
uno spunto di riflessione sul senso della vita, e che si
carica di profondi significati, divenendo lo specchio del
disagio esistenziale che gravita sull'intera umanità.
Camminando, il
poeta scorge spazi e s'imbatte in oggetti naturali che
assumono i valori di una dolorosa condizione umana universale,
legata a note di desolazioni assolute e sfociano nel paludoso
mito, deiparo e infecondo, del "male di vivere".
Traspare, così, una solitudine individuale infetta e
contagiosa: il singolo uomo, tra tanti suoi simili, è
obbligato a perdersi nel labirinto della propria storia,
confuso da una sequenza di avvenimenti di cui non conosce il
senso.
Rimane, soltanto, la ricerca instancabile di un "anello che
non tiene" o di una minima "verità" (I limoni) intesa
anche come evento misterioso, che potrebbe temporaneamente
suggerire un'occasione per sottrarsi al giogo delle
"necessità".
La poesia degli Ossi si anima, così, di fugaci apparizioni che
caparbiamente si aggrappano alla vita, ostinandosi a resistere
allo sgretolarsi della realtà e recando con sé segnali di
speranza, come il martin pescatore (Gloria del disteso
mezzogiorno), portatore di una felicità semplice che verrà
come "la buona pioggia" per cancellare lo squallore e l'attesa
dell' "ora più bella", o come l'upupa (Upupa, ilare uccello
calunniato), emblema involontario di un momento di
riflessione sottratto inconsapevolmente al divenire del tempo.
Fra le
apparizioni si concretizzano nascendo anche i ricordi, che
sfuggono velocemente ad ogni consapevolezza annientando il
"miracolo" (Crisalide), cui il poeta tende e che non
accade mai: scoprire, cioè, la verità della vita e il senso
dell'esistere (Forse un mattino andando in un'aria di vetro).
Lo stilema della natura montaliana diviene, pertanto,
l'imperativo negativo (Non chiederci la parola), la
negazione di ogni certezza, il tracollo e il ripudio di ogni
logica.
Al poeta non rimane altro che la disperata presa di coscienza
dell'effimera fiducia che circonda un universo d'illusioni e
l'amaro riscontro di una vita metaforicamente figurata in una
"muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia" (Meriggiare
pallido e assorto), preda di una "divina indifferenza",
effetto di una stoica demotivazione (Spesso il male di
vivere ho incontrato), e, inevitabilmente, seguita dalla
dolorosa visione di un'irrimediabile rottura con il passato (Cigola
la carrucola del pozzo).
Resta solo l'augurio nei confronti di qualche eletto perché
possa salvarsi dalla prigione di un mondo ostile (Casa sul
mare), cercando "una maglia rotta nella rete" della propria
vita (Godi se il vento ch'entra nel pomario) o "uno
sbaglio di Natura" per scoprire finalmente la verità che la
stessa continua a negargli (I limoni).
Cosa spera,
invece, Montale per se stesso?
Solo un "altro cammino" che lo guidi verso un crollo "senza
viltà" in compagnia della sua tristezza (Incontro).
L'esistenza del poeta non è dissimile da quella dell'intera
umanità che ha, ormai, perso la via della salvezza (Arsenio),
illusa e schiacciata da una realtà dominata dal "non senso" e
che non può contrastare nemmeno con degli ideali precisi (Vento
e bandiere).
Svariati ambienti acquisiscono una particolare importanza:
"strade che riescono agli erbosi fossi", "viuzze che seguono i
ciglioni", "pendici di basse vigne", e, poi, ancora, orti,
esilio-esistenza dell'uomo, chiusi da muri, barriera-limite
delle facoltà conoscitive, e scogli, crepe del suolo, immagini
di squallore o vita reale; rive che si sfaldano vicino al
mare, entità eterna e infinita, elemento suggestivo e ricco di
fini intenti patetici, che simboleggia il passaggio di
un'indefinita energia positiva nel meccanico ripetersi del
quotidiano (In limìne), mare anche maestro di purezza
(Antico, sono ubriacato dalla voce) e rettitudine (Avrei
voluto sentirmi scabro ed essenziale), padre (Giunge a
volte, repente) e nemico di ambizioni fallite (Potessi
almeno costringere).
La natura
montaliana, che mai ha assunto un carattere puramente
suggestivo e pittoresco, riesce un paesaggio mentale, quasi un
oracolo da interrogare per avere svelati ambiguamente i perché
di una sterile e dolorosa esistenza, i perché ancora privi
persino di distorte verità, che assillano e consumano il cuore
del poeta, e con lui quello della restante umanità.
Scaturisce da questi intenti una poesia in sé conclusa, non
retorica né solenne, ma quasi prosaica, che decreta uno stato
d'incomunicabilità, corrispondente storicamente con la
regressione del Paese sotto il regime fascista.
Un lirismo assoluto quello degli Ossi, che vedono la luce in
un momento di stanchezza generale, fra il tracollo del
futurismo, l'oblio dell'esteta D'annunzio e l'attenzione dei
più rivolta ad una letteratura meno impegnativa e povera dal
punto di vista formale, riscattata saltuariamente dal
sentimentalismo di Pascoli e Gozzano; una poesia, quella degli
Ossi di Seppia vibrante, forse non facile, ma certamente
capace di scandagliare l'animo del lettore più esigente con la
forza della vera poesia, che sfugge alla valanga cartacea
delle liriche psico-neo-d'avanguardia cui siamo dolorosamente
assuefatti ai giorni nostri.
Ben oltre il
2000.
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