PRENDIAMO LA PAROLA...
Far risorgere due nazioni,
liberare la creatività dei popoli del Sud italiano
di Pietro Ferro
Il Sud italiano fu o non fu una nazione autonamente definita nel
senso pieno del termine? La domanda appare pienamente legittima di fronte alla
constatazione che le differenze culturali con il Nord, a 142 anni
dall'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, sono rimaste
sostanzialmente intatte e, sotto diversi aspetti, si sono anche rafforzate.
Tanto per cominciare, bisogna dire che non di una, ma di due nazioni
bisognerebbe parlare: quella napoletana (o, meglio, "napolitana", come
si diceva un tempo per distinguere il termine che identificava i cittadini del
Regno di Napoli da quello che si riferiva agli abitanti dell'antica capitale) e
quella siciliana.
Benedetto Croce, che troppo spesso adattò le sue analisi storico-culturali alle contingenti convenienze di quel partito liberale di cui
fu il filosofo, nega che si possa parlare dell'esistenza di una naziona
napolitana, nonostante che questa si fosse formata e consolidata nel corso di
una esperienza statale unitaria sviluppatasi per un arco di ben otto secoli. La
stessa negazione - espressa con la rudezza e la brutalità tipica dei regimi
totalitari - venne da parte del fascismo, che si limitò a cancellare ipso iure
la stessa "questione meridionale" e, servendosi anche in modo
improprio e scorretto del mito imperiale romano, pose in essere ogni iniziativa
per cancellare le tracce della tradizione e della cultura che si erano
sedimentate dalla fondazione del Regno meridionale (Palermo, 1130) in poi.
Sta
di fatto che nè le argomentazioni di Croce, nè, tanto meno, quelle di
Mussolini sembrano avere il benchè minimo fondamento: l'uno e l'altro, liberali
filo-piemontesi e fascisti, infatti, hanno parlato non in funzione della ricerca
obiettiva di una verità, ma semplicemente in difesa dello stato di fatto su cui
erano modellate le rispettive strategie politiche.
Lo stato di fatto era quel
Regno d'Italia nato a metà Ottocento sulla base del connubio fra i ceti
industriali del Nord e i grandi proprietari terrieri del Sud, sotto l'impulso
degli interessi imperialistici di cui erano allora espressione l'Inghilterra e
la Francia. A negare legittimità all'esistenza di una nazione napolitana e di
una nazione siciliana, quindi, furono le destre e si capisce bene il perchè.
Quello che è più difficile comprendere è il motivo per cui una eguale
negazione c'è stata anche da parte delle sinistre, che pure avrebbero dovuto
essere più sensibili ai temi dell'autonomia, dell'autogoverno e dell'identità
culturale. Evidentemente, dietro la scorza contestatrice che socialisti e
comunisti "italiani" mostrarono fin dalle prime fasi della loro
comparsa sulla scena politica c'era (e c'è tuttora) una ben più profonda
subalternità agli interessi economici del Nord: la classe operaia, dopo la
spoliazione selvaggia del Mezzogiorno iniziata con la conquista piemontese del
1860, si concentrava nelle regioni settentrionali e in quel contesto, secondo
una logica barbara e inaccettabile, andava difesa anche se ciò andava (e va) a
discapito dei contadini sfruttati, dei disoccupati e dei diseredati del
Mezzogiorno.
Il mito fasullo di Garibaldi, zimbello di destra e sinistra, fu
portato dal Regno d'Italia naufragato con il fascismo alla nuova Repubblica
proprio dalle sinistre che, nel 1948, ne scelsero l'emblema quale simbolo
elettorale. Di fronte a questo coacervo convergente di interessi ostili, la
realtà palpitante della nazione napolitana e della nazione siciliana è stata
offuscata, coperta, calpestata e negata con tutte le forze da quanti hanno
trovato, fino a oggi, conveniente difendere e proclamare eterna e intangibile
quell'impalcatura istituzionale ideata e costruita da chi voleva creare nel Nord
un apparato industriale a spese del Sud.
Il massimo del cinismo si raggiunse nel
1946, quando tutto il Sud - mai educato al senso della propria autogoverno, ma
sempre spinto a delegare ad altri la tutela dei propri diritti - votò per
quella monarchia sabauda che, espulsa dal Nord di cui era stato lo scudo e lo
strumento di potere per quasi un secolo, trovò proprio nelle masse meridionali
il proprio punto di sostegno.
Molto efficacemente, però, Andrea Finocchiaro
Aprile, leader del Movimento Indipendentista Siciliano, osservò che il voto
monarchico del Sud, contrapposto a quello repubblicano del Nord, lungi
dall'essere un segno unitario era espressione di una netta divisione dell'Italia
e della mai sopita aspirazione alla riconquista della propria multisecolare
autonomia.
Dopo la caduta del muro di Berlino, con la fine della
contrapposizione fra USA e URSS, molte cose sono state rimesse in gioco. Sono
rinati paesi che erano stati sommersi e cancellati dalla storia: la carta
geografica dell'Europa ha dovuto essere rapidamente aggiornata, dall'ex
Cecoslovacchia all'ex Yugoslavia, dalla Russia a tutti gli stati indipendenti
nati dalla dissoluzione del blocco sovietico. Sotto le macerie di quello che fu
per settant'anni l'impero comunista sono riemerse le memorie, la cultura, le
tradizioni e persino la bandiera di quella che era stata, in precedenza, la
Russia.
In Italia, dove le nazioni napolitana e siciliana vivevano
nel XIX secolo la loro transizione dalla civiltà contadina a quella industriale
e furono schiacciate nel bel mezzo di quell'indispensabile passaggio, è giunto
il momento di far riemergere le identità che si è cercato di dissolvere: mentre
si parla confusamente di un federalismo che, se mai ci sarà, arriverà con un
secolo e mezzo di ritardo, è necessario ricostruire la duplice unità del
Mezzogiorno continentale e insulare. Nell'Italia federale di domani - che
il Sud dovrà contribuire a modellare secondo le sue esigenze - le regioni
meridionali dovranno giocare unite le loro carte. Senza unità, con le forze
disperse, non ci potrà essere rinascita.