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La “Rivoluzione meridionale” sequestrata di Guido Dorso

Vittorio Emanuele II, primo "Re d'Italia"

Mentre il Mezzogiorno italiano si lascia trascinare frastornato  verso modelli federalisti costruiti da altri e per altri, così come da altri e per altri, fu realizzata l’unificazione politica dell’Italia nel XIX secolo che lo privò della sua secolare autonomia, Patto per il Sud ritiene utile riproporre alcuni brani del libro “Rivoluzione meridionale” scritto dall’avvocato irpino Guido Dorso nel 1924 e ripubblicato con aggiornamenti nel 1947, poco prima della morte dell’autore. 

Dorso, dopo aver riletto criticamente la storia del Mezzogiorno italiano, traccia la strada  di una  “rivoluzione” che ancora non c’è stata. Quella che, come scrisse, servirà a “svegliare un popolo di morti”. Dorso sottopose a una serrata critica l’intera classe politica meridionale del suo tempo, accusata di un cronico “trasformismo” che la portava costantemente a svendere gli interessi e i diritti del Mezzogiorno. 

Militò nel partito d’azione e, insoddisfatto, lo abbandonò.  Non ebbe il tempo di far arrivare alla gente del Sud, che amava appassionatamente, il suo messaggio di libertà: dopo la sua prematura morte il suo pensiero è stato tenuto sotto sequestro dai club laico-borghesi che se ne sono appropriati. Oggi , dopo oltre mezzo secolo dalla sua scomparsa, la sua analisi della storia meridionale e il suo sogno autonomista devono essere riconsegnati a un Mezzogiorno alla ricerca della sua strada verso il futuro.

L

o  Stato, da organo supremo del diritto, da fonte precipua e unica di eticità, si trasforma in Italia in organo del privilegio, in fonte continua e perseverante dell’ingiustizia. Lo Stato non solo non fa niente per rimuovere quelle ragioni di ordine naturale che costituiscono causa di inferiorità delle nostre terre, ma contribuisce ad aggravarle, addossando al Mezzogiorno, costituito in mercato di arredamento della plutocrazia industriale del settentrione, tutte le conseguenze di un protezionismo ingiusto e antinazionale; adottando un sistema tributario assolutamente sperequato a danno della ricchezza immobiliare prevalente nel Sud e consentendo, anzi incoraggiando, il continuo drenaggio di capitali meridionali nelle banche del Nord e nel debito pubblico, per finalità che con il risorgimento del Mezzogiorno non soltanto non hanno che vedere, ma, addirittura, antitetiche.

Deviazioni statali, derivanti dall’adesione del massimo organo di azione collettiva a interessi particolari e al dominio di classi parassitarie, spiega l’affermarsi dell’accentramento statale e l’invadenza della pubblica amministrazione che distruggono ogni germe di progresso degli enti autarchici e pervertono ogni tentativo di privata iniziativa. Di qui l’odio per lo Stato e per il concetto di autorità. Il contadino meridionale conobbe lo Stato solo per le multe e per il carcere che gli commina attraverso regolamenti ritenuti infami e scritti soltanto per proteggere i signori dediti all’ozio e allo sfruttamento dei lavoratori, ma non per le cure e gli aiuti che presti al suo sforzo tenace.

Uno Stato che nacque dalla conquista regia e si organizzò per tutelare e sviluppare interessi particolaristici non poteva intendere certi imperativi etici che richiedono, invece, una più ampia giustificazione ideale e la cui difesa non può, in nessun caso, essere affidata a gruppi egoistici interessati a crearsi una legalità dittatoriale.

 

Bisogna risvegliare le coscienze del Sud  

La questione meridionale svela intera la sua squisita natura politica, dinanzi alla quale gli aspetti tecnici scompaiono per la loro evidente unilateralità.  Essa si palesa risolubile, prima ancora che in campo legislativo, nelle coscienze individuali, cioè in quell’azione più strettamente e spiritualmente politica, destinata a preparare l’humus su cui uno Stato di diritto dovrà, finalmente, sorgere. E in ciò sta, appunto, la sua rivoluzionarietà.  Fin quando i conati rinnovatori si aggireranno soltanto nel cielo imponderabile delle astrazioni filosofiche, lo Stato burocratico-accentratore non temerà sconfitte perché risorgerà dalla polvere fin dopo l’estrema umiliazione. La questione italiana è, dunque, la questione meridionale e la rivoluzione italiana sarà la rivoluzione meridionale.

Lo sviluppo di questo piano non può essere opera che delle forze che attualmente sono danneggiate dallo Stato storico e che, in conseguenza dell’immaturità generale, ancora non gli si contrappongono. Occorre, quindi, svegliare queste forze, impedire che precipitino nel trasformismo, inquadrarle pazientemente e, senza fretta di arrivare subito, sottrarle alle terribili insidie dell’isolamento e delle lusinghe.

 

I "produttori" alla conquista dello Stato…

E’ affiorata una classe di coltivatori, di commercianti, di esportatori che soffrono terribilmente per la massacrante pressione tributaria, per il protezionismo doganale e per l’assurdo sistema giuridico in cui è imprigionata la produzione meridionale. Bisogna non lasciar perdere queste importanti manifestazioni politico-sociali e convogliarne il disagio sul terreno della critica antistatale. L’obiettivo da perseguire è quello della conquista ordinata e cosciente dello Stato da parte dei produttori.

Solo dove gli uomini hanno molto sofferto e si sono continuamente domandati se vivevano  in uno Stato o in una colonia è possibile concepire concretamente una rivoluzione statale e arrivare a possedere quella decisione che la storia ci insegna essere anche frutto di grande esasperazione.

Solo nelle regioni più danneggiate dall’unitarismo storico la critica alla conquista piemontese è mordente, intrisa di sangue e di miseria e la tradizione del risorgimento è ricatto di ceti resi opulenti dal sacrificio universale. Impostando l’azione contro lo Stato, noi imposteremo finalmente la lotta contro le classi trasformistiche del Sud, che non potranno non essere travolte nella rovina delle loro infinite colpe.

 

Autogoverno: questa è l'unica alternativa

Noi affermiamo la necessità da parte del popolo meridionale di conquistarsi l’autogoverno. L’autogoverno, prima che nelle istituzioni e nelle leggi, deve nascere nello spirito dei cittadini. Esso è funzione critica di distacco da ogni forma di autorità che non sia l’autorità della libertà, è composizione di tutte le forme di violenza, è insomma armonia di libere coscienze che tutelano i propri interessi legittimamente conquistati. E la stessa parola autonomismo, siqnificando questo distacco spirituale, si palesa forma sufficiente e comprendere tutte le necessità etiche del governo diretto.

Il popolo meridionale deve essere finalmente compreso della necessità di fabbricarsi da se stesso il proprio destino e di abbandonare la triste abitudine di attendere dalla provvidenza divina o dal governo la carità.

Il nostro sogno segreto: la libertà del Sud

I migliori figli del Mezzogiorno, che vivono ogni giorno in se stessi questa terribile tragedia politica che è la questione meridionale, aspettano con ansia i segni augurali per iniziare questa colossale impresa di civiltà e temono nel più riposto angolo del cuore che i loro ragionamenti non siano frutto di fantasia.  Ma, questa segreta passione di sogno, sposata al più arido razionalismo, io penso che sia il primo segno di maturazione che, in ogni caso, richiederà sforzi molteplici e lungo decorso di tempo. Contro la violenza secolare di cui è vittima, il Mezzogiorno invoca dalla storia la sua autonomia.

L’autonomismo è una dottrina politica diretta a raggiungere una più intima e profonda unità. Nessuno deve poter concepire l’unità nazionale come mezzo per continuare lo sgoverno attuale e il progressivo impoverimento del Mezzogiorno. La soluzione del problema meridionale, quindi, non potrà avvenire se non sul terreno dell’autonomismo.

L’autonomismo è un sistema e un metodo di lotta esclusivamente politico. L’autonomismo dovrà rappresentare il più profondo e serio tentativo di capovolgere in tutti i campi le basi storiche dello Stato.

Occorre che i giovani escano dallo stato di fatalismo che incombe sulle anime meridionali, per dimostrare che le élites del Sud non sono costituite soltanto da pensatori geniali capaci di anticipare di secoli le grandi scoperte del pensiero umano, ma sono costituite anche da uomini d’azione, capaci anche di compiere il miracolo di svegliare un popolo di morti.

Le difficoltà saranno sovrumane, la lotta contro il trasformismo non dovrà avere quartiere e coloro che vi si dedicheranno dovranno avere gli occhi aperti per scrutare sul nascere le inevitabili deviazioni dei partiti storici  verso la creazione di nuove fonti di squilibrio a danno del Mezzogiorno.

La dilagante sfiducia verso lo Stato rafforzerà lo spirito di iniziativa individuale e arresterà il costante drenaggio verso il Nord di risorse umane ed economiche di cui l’Italia meridionale e insulare ha sofferto durante la sua esperienza unitaria. La lotta contro lo Stato burocratico-accentratore si impone. Lungi dall’essere un danno, il fallimento dello Stato finirà con l’essere un vantaggio.

 

Una élite per guidare la “rivoluzione" meridionale

Occorre una élite  anche poco numerosa, ma che abbia idee chiare  e sia spietata nella sua funzione critica. Se il Mezzogiorno, in un supremo sforzo creativo,  organizzerà questa minuscola élite  senza paura e senza pietà, la lotta potrà essere lunga, ma l’esito non sarà dubbio, perché tutta la storia italiana non è altro che il capolavoro di piccoli nuclei che hanno sempre pensato e agito per le folle assenti.

Anzitutto, è necessaria l’intransigenza più assoluta. Il trasformismo è una malattia dell’intera classe dirigente meridionale, è un vizio del sistema politico italiano e, per combatterlo, occorre eliminare la radice del male. Per farlo bisogna  dare coscienza agli umili e trasformarli da oggetto inconsapevole del vecchio baratto trasformista in soggetto della nuova politica autonomista.

 

Non chiediamo carità, ma soltanto giustizia...

Il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia. Non chiede aiuto, ma libertà. Il Mezzogiorno distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa.

Il nuovo Stato deve smobilitare il suo apparato di prefetti, di questori e di aguzzini che non fa altro che scoraggiare e distruggere sul nascere le libere iniziative del popolo meridionale. Bisogna capovolgere interamente la tradizionale politica interna dello Stato italiano nei confronti del Mezzogiorno e creare le nuove strutture economico-politiche e politico-istituzionali entro le quali il Mezzogiorno potrà liberamente articolare le sue forze e tentare di accrescerle.

Se l’intero processo trasformistico consiste in un continuo lavorio di adesione al governo delle rappresentanze del Mezzogiorno, sicchè queste appaiono governative a vita, e possano così giovarsi di tutto l’apparato statale  per contrastare vittoriosamente gli sforzi che si fanno per liberare il paese dalla schiavitù in cui è tenuto, è chiaro che bisogna tagliare questo rapporto istituzionale alla base e alla sommità perché, in poco volgere di tempo, il personalismo sia superato e la vita politica meridionale possa avviarsi sulle rotaie della modernità.

I veri meridionalisti che hanno aderito ai partiti unitari debbono attentamente vigilare e non perdere il controllo della situazione.  Soprattutto, debbono tenersi pronti per il “secondo tempo” meridionalista, la cui ineluttabilità si presenterà quando gli attuali gruppi unitari, nell’immancabile sforzo di divenire partiti di governo, si accingeranno a tradire le speranze del Mezzogiorno.

Il nostro paese è contornato da troppi nemici ed esposto a infiniti pericoli: dalla rinascita del trasformismo alle deviazioni dei partiti unitari, corre tutta una gamma di situazioni intermedie attraverso le quali un nuovo compromesso antimeridionale può facilmente sbocciare.

Occorre, dunque, che i gruppi meridionalisti esistenti nei partiti unitari si tengano in contatto per non restare sorpresi dagli avvenimenti. Forse, la spinta per la costituzione del partito meridionale d’azione verrà dall’esterno, ma gli animi vi debbono essere preparati.  


"La città indifferente" e l'indifferenza della sinistra verso il destino del Sud


di Girolamo De Simone

«Il Sud è stato fuori da ogni serio interessamento politico e culturale, anche a sinistra»: Carlo Donolo parte da questa denuncia nelle sue Questioni meridionali, primo volume pubblicato dall’editore napoletano l’Ancora.  E’ il lavoro di un settentrionale che si dichiara «meridionale per vocazione», e che dal pulpito dell’amicizia, benché il testo solleciti poi alla diffidenza verso gli amici dichiarati, propone analisi e diagnosi delle ferite che affliggono le città meridionali. Il libro ha già prodotto alcuni interventi, tra i quali quello di Enrico Pugliese sulle pagine de “il manifesto”, e certo se ne continuerà a parlare, anche perché sembra richiamare idealmente il Pensiero meridiano di Franco Cassano e le denunce di Francesco Barbagallo in Napoli fine Novecento.

Qui, più modestamente, mi offre uno spunto per alludere ad Il resto della Memoria, l’azione musicale per voce recitante e pianoforte che ho tenuto a Napoli nello storico Palazzo Marigliano (simbolicamente sede dell’Archivio di Stato) per i duecento anni della Rivoluzione del 1799. A quell’evento hanno presenziato la vedova Striano, gli amici di Luciano Cilio e di Valeria Saporito, varie personalità del mondo della cultura napoletana. Ma si è trattato di un’operazione celebrativa o di una denuncia?

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La musica e la cultura appaiono solo sullo sfondo delle Questioni meridionali di Donolo, ma non vengono sottovalutate, perché «chi canta, chi racconta, chi studia, chi percorre il Sud traendone suoni lamenti proteste e ragioni alimenta la speranza di tante generazioni».  I falsi amici del Sud, invece, si sono sempre dichiarati conciliati, ovvero attratti dal folklore locale, dall’aura di ‘alternativa’ emanata da luoghi che, spesso deliberatamente, si pongono «ai margini della crescita e dello sviluppo», e per i quali il postmoderno è accettato solo in virtù delle merci che lo rappresentano (dai cellulari ai tre ‘quartini’ di proprietà). Ciò naturalmente non significa rinnegare i prodotti più specificamente etnici: «che si possa avere sviluppo pur mantenendo caratteri locali marcati lo si è visto nel caso di regioni come la Catalogna e l’Andalusia. L’identità è cultura e la cultura è movimento, come mostrano proprio i prodotti culturali più significativi del meridione oggi, per esempio la musica». Sarebbero molti, quindi, i motivi di riflessione per critici, musicisti ed intellettuali del Sud, soprattutto per una luminosa intuizione, che conferma quanto ho cercato di mostrare ne Il resto della Memoria, attraverso un collage di citazioni significative: la vera fonte di forza, per il meridione -la visione della ‘polvere di dio’-, sta nella cura della memoria, la quale potrebbe scardinare la propensione alla tragedia, e fornire «argomenti per la critica del presente, avendo cura e affetto per quei contesti anche fisici in cui il passato si è cristallizzato». Infatti alla perdita di memoria nel meridione, allo smarrimento quotidiano delle presenze di quanti vi operano, alla rimozione di chi nel passato ne è stato «vittima», corrisponde il peggior nemico del Sud, una irriducibile «ansia di distruzione». 

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Un altro editore napoletano, Pironti, ha invece pubblicato un instant book interamente dedicato al fenomeno dei ‘neomelodici’, ovvero dei cantanti ‘di quartiere’ specializzati in feste nuziali nell’ hinterland partenopeo, assunti a recentissima notorietà nazionale grazie ad alcune trasmissioni su Rai Due e a diverse puntate del “Maurizio Costanzo Show”. Quindi già la televisione aveva ripreso il luogo comune della Napoli iconografica, dei ‘quartieri’, degli ‘scugnizzi’,  insistendo sul Leitmotiv  mare/sole/tarallucci. Il libro mi dà un pretesto per delineare le due contrapposte visioni della napoletanità. La prima, assimilata ad artisti d’avanguardia ed intellettuali militanti, è sempre perdente, benché possegga uno ‘sguardo lungo’, e riceva riconoscimenti postumi, per l’indiscusso ed «assoluto valore» di opere, azioni, impegno civile: è quella a cui è volto l’omaggio ne Il resto della Memoria.  La seconda, invece, è autoreferenziale, cinta dentro le mura, veteroiconografica, reazionaria. Non può ricordare, perché è priva di memoria, non può produrre, perché non possiede gli strumenti tecnici e specifici; però è sempre vincente perché capace di adattarsi al vento che tira, di sfruttare l’enorme potenziale economico delle forze che la sostengono, ed in grado di strumentalizzare desideri ed aspettative del ‘popolo’ facendosene apparentemente interlocutore, ma calpestando poi un suo diritto fondamentale: quello di poter essere differente, avere desideri che vadano oltre il vicolo. Ho cercato di combattere questa visione sia come musicista che come operatore, implicitamente quando ho effettuato concerti o programmato performances e stagioni musicali, esplicitamente quando ne ho scritto (come di recente su “Alias”, settimanale de “il manifesto”)

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La panoramica offerta dalla televisione mi è parsa decisamente parziale. Tutte le realtà di ricerca e produzione, uniche nel panorama nazionale, o addirittura all’avanguardia nella ricerca internazionale (si pensi al lavoro del gruppo AC.EL.) sono risultate oscurate oppure ‘messe tra parentesi’ e dimenticate. Di queste realtà e memorie inconciliate, rimosse, ha taciuto anche l’ instant book  in questione. Il suo autore, che lavora al “Mattino” di Napoli, già in alcuni articoli aveva offerto una visione acquartierata dei fenomeni musicali che attraversano la ‘città porosa’. Ora scrive che la parte di Napoli rappresentata dai neomelodici non fa opinione e che la musica neomelodica può dirsi perfettamente ‘contaminata’. Poi, allo stesso tempo, le attribuisce tutte le caratteristiche della conservazione: pop etnicamente marcato, testi e stile che esaltano acriticamente valori reazionari. A me, che pure tratto di queste cose da vent’anni, francamente sfugge dove possa stare la contaminazione in un contesto così etnocentrico.

Tra le incongruenze di questo approccio, la principale sta nel celare fra le righe l’atteggiamento pregiudiziale che si vorrebbe combattere. E il pregiudizio peggiore è che  la ‘massa’ (qui identificata con il popolino dei quartieri, di Afragola, delle 167) possa e debba amare i neomelodici solo perché se li ritrova nella bottega adiacente. E’ improprio richiamarsi al raï o al rap, perché queste musiche nascono da  emergenze e proteste di portata rivoluzionaria. Riescono ad esserne la voce  anche in senso tecnico-musicale, finendo con il rivitalizzare l’intera comunità. La musica neomelodica, invece, così come viene descritta nell’ instant book, sembrerebbe oscillare tra la continuità/contiguità con i peggiori fenomeni metropolitani ed il racconto conciliato, e quindi conservativo, di ciò che circonda i falsi scugnizzi, quelli che possono permettersi auto da corsa, servizi d’ordine, cellulari a profusione, produzioni video e discografiche. Certo, questi ‘scugnizzi’ vendono poi i loro dischi sottocosto, come ha scritto Flaviano De Luca in un altro intervento pubblicato su “il manifesto”, facendomi trasecolare per la sua disinvoltura: questi dischi verrebbero distribuiti sottocosto per combattere la globalizzazione dell’economia? Bah!

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Una voce controcorrente, proprio nei giorni in cui sul “Mattino” imperversavano lettere/letture sui neomelodici ed annunci di presentazioni/concerti alla “Festa de l’Unità”,  si è affacciata timidamente sullo stesso giornale. Pare quasi essere caduta nel vuoto, perché il dibattito pubblico, ancorché estivo, tende a passare di moda, ma Giuseppe Tortora, naturalmente in prima di cultura e non nelle pagine degli spettacoli, ha provato a descrivere il fenomeno del neokitsch, affrontando tra l’altro il contenuto di una canzone neomelodica. Ha preso un testo e ne ha ricercato le ragioni nascoste, le quali definiscono i contorni di una napoletanità odiata da Neiwiller, Striano, Cilio (ma questo riferimento, naturalmente, è mio: la memoria non è mai stata di moda sui quotidiani partenopei). L’eroe neomelodico aspetta un bus per andare al lavoro. L’autobus però non passa. Ecco il pretesto per andare a ‘pariare’. Nichilismo, disprezzo per il lavoro, esibizionismo e consumo della vita. «Altro che passo dopo passo bassoliniano -conclude Giuseppe Tortora-: il passo deve essere più lungo della gamba, sempre. Altrimenti il vicolo ti caccia, non ti riconosce i gradi». Il vicolo ti caccia, ed è la fine del mondo conosciuto.

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La contrapposizione tra le due Napoli, riconducibile ad una modalità del tipo ‘sacche di resistenza’ / ‘effusività del potere’, si (ri)presenta in un momento critico per la storia del meridione, e riguarda settori differenti del mondo della cultura e dell’arte, dal cinema alla letteratura, dalla critica ‘colta’ alla pubblicistica. Si è già detto che la tv sta fiancheggiando l’inquietante ritorno di un’ immagine del Sud vecchia ed ormai assolutamente inadeguata alle reali esigenze della collettività, specialmente dopo quanto già operato dai sindaci di sinistra insediati nel momento d’ascesa folgorante  dell’Ulivo uno.

Se il tentativo di tornare ad una veteroleografia della città di Napoli, ed in generale del meridione (Catania e Palermo vivono lo stesso sconcertante fenomeno) fosse privo dell’ apporto strategico delle televisioni, formidabile dal punto di vista dell’orientamento delle opinioni, il problema potrebbe essere confinato alla solita diatriba tra oziosi. Ma poiché questo invece è proprio quello che sta accadendo, e poiché perfino i quotidiani appaiono espropriati del loro ruolo di riflessione critica (dovendo fare i conti con partiti trasversali fortemente interessati a portare avanti discorsi economicamente convenienti ai propri redattori e ai loro amici) e con spazi sempre più esigui, il luogo della riflessione sta spostandosi in sedi differenti: mail; fanzine di centri sociali; poche riviste con periodicità dilatata. Parole di ‘resistenza’ vengono pronunciate per pochi fruitori, in canali semiclandestini, ed ignorate dai più.

Così, poiché per i grandi quotidiani e per le televisioni una cosa accade quando pare a loro, quando cioè decidono di lanciarla sul terreno del già assimilato, mostrare una parte della città meridionale come “la” città non sarebbe mistificatorio, ma leggera operazione di descrizione del costume. In realtà l’operazione è politica.

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La discussione sulle due Napoli è montata anche in campo cinematografico, in occasione dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Ne faccio menzione qui non con intenti censori, ma solo per documentare l’effettività della contrapposizione in differenti settori della produzione artistica e culturale. La polemica è nata in sede critica, tra il film di Tonino De Bernardi che ha firmato la pellicola Appassionate, e  Autunno, della giovane Nina di Majo. Il primo avrebbe tentato di riproporre l’immagine-cartolina della città; la seconda avrebbe inteso la città come uno dei luoghi di possibile ambientazione. Tra le due strade, è stato scritto da un critico, la terza via, né aderente alla retorica del vicolo né a quella del cinerinascimento partenopeo, potrebbe essere quella di Stefano Incerti, con Prima del tramonto. Temo però che questa terza via non sarà quella seguita (mentre scrivo il film non è ancora uscito) da Non lo sappiamo ancora, che eredita il meglio e il peggio della trasmissione televisiva “Telegaribaldi”.

Qui rilevo un ulteriore problema: la critica si è generalmente dichiarata sfavorevole ad Appassionate, con l’eccezione de “il manifesto” (con un articolo di Roberto Silvestri). Lo stesso accade in sede di recensione del fenomeno neocanzonettista. Sembrerebbe proprio che la distinzione tra popolare e populista venga smarrita proprio da chi dovrebbe difenderla, e trattata con incredibile leggerezza.

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In campo letterario ha fatto parlare di sé un articolo-denuncia scritto da Fabrizia Ramondino su “L’Indice”: un “Manifesto contro la definizione ‘scrittori napoletani’ ”. «Noi scrittori definiti ‘napoletani’ ci siamo sempre sentiti a disagio sotto questa etichetta (...). Questo non implica che noi scrittori definiti ‘napoletani’ rinneghiamo la nostra terra, quando tale consideriamo Napoli, una regione quindi della nostra anima». La richiesta è più che legittima, e viene avanzata per il fastidio che nasce in chi si ritiene cosmopolita per vocazione. Questo malcostume è tipico anche della critica musicale, dove pure, sistematicamente, musicisti noti ed attivissimi vengono definiti immancabilmente «giovani compositori napoletani»; non avrebbe senso dichiararlo più di quanto non accada in altre città settentrionali. Per quale ragione economico-politica, infatti, non si sente dire «i giovani compositori milanesi», mentre si sente parlare dei ‘giovani’ palermitani e dei ‘giovani’ catanesi? La Ramondino ne suggerisce una spiegazione: la ragione sta nel tentativo di attribuire un localismo ‘diminutivo’ agli scrittori in oggetto.

Che i musicisti quarantenni e quarantacinquenni milanesi siano già considerati dei caposcuola italiani e che invece i quarantacinquenni napoletani vivano l’eterna giovinezza per l’ignoranza e la pressappochezza della critica nostrana (che ha definito giovane e napoletano anche il defunto e spezino Giacinto Scelsi) è decisamente irritante. Qual è la ragione profonda per la quale accade questo.

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Quando nelle trasmissioni di Costanzo appaiono i fenomeni del belcanto vicolistico; quando negli speciali di Canale Cinque si vede il teatrino di varietà e compaiono solo quelli che oggi stanno riscuotendo uno straordinario successo grazie al revival delle macchiette napoletane (i pur bravi “Virtuosi di San Martino”); quando Rai Due offre lo spettacolo dei vicoli della città, dei cortili, dei video amatoriali, delle televisioni private ed extraprivate che mediano abbracci circolari a tutto il parentado; quando Rete Quattro offre un Festival di Napoli che fa rabbrividire una larga fetta di napoletani per l’atmosfera provinciale (ecco lo sponsor locale, l’albergatore, la personalità del paesino, i cugini ed i fratelli dei produttori della zona, i vincitori delle passate edizioni trattati come se fossero già delle star, etc...); quando la fratellanza con l’Albania passa attraverso i soli Mario Merola (che ci va ‘gratis’, come tiene a precisare) e le altre nuove star neomelodiche; quando persino le trasmissioni del Tenco vengono funestate da apparizioni inquietanti (ma a Napoli ben conosciamo la verità celata dietro questi fenomeni e queste trasmissioni, ben soppesiamo queste competenze esibite come già dimostrate, conosciamo la storia, il percorso e la formazione dei critici, valutiamo correttamente la cosiddetta ‘qualità’ del vicolo; essa ci appare sciatta e squallida perché in fondo la vediamo da vicino, quando non c’è l’occhio della telecamera a nobilitarla); quando gli stessi ‘musicologi’ chiamati a descrivere i fenomeni in oggetto mostrano la pochezza dei loro strumenti sociologici, l’incompetenza tecnica nel trattarli (dimostrabile dai loro articoli in qualsiasi momento), gli interessi di parte o di amicizia nel cavalcare l’onda lunga del fenomeno con interventi remunerati. Quando tutto ciò riesce ad oscurare i centomila di Piazza del Plebiscito, la Montagna di sale di Palladino, gli Istituti di informatica primi in Europa, la Nuova Immagine bassoliniana (che tutto sommato avevamo pur criticato perché appunto non comprensiva dei vicoli e delle periferie; esse avrebbero certo preteso e ottenuto una rivincita sponsorizzata da altre forze politiche...): ecco che un campanello d’allarme deve suonare, e spingerci a dire che tutta l’ operazione, quando non meramente e bassamente economica, è profondamente politica, nasce da ambienti non interessati al rinnovamento, ma alla restaurazione delle abitudini appena incrinate con tangentopoli, alla difesa degli interessi dei pochi appena celata da schermi di viscido populismo e qualunquismo. Non sono il solo ad aver avuto quest’idea: di “Morte di una stagione napoletana” parla pure Roberto Esposito in una omonima inchiesta svolta per la rivista “Micromega”. Quale arma migliore, per oscurare e inabissare il lavoro di immagine fatto da Bassolino, che richiamare nell’immaginario collettivo le olografie bisunte della Napoli che canta, della Napoli becera e fannullona, piagnona e nullafacente, vincente sempre per strafottenza, veteroturistica e distratta, cafona e ladrona, perché tanto qui ‘ce sta o mare’?

Inquietante pure il ritorno delle brutte immagini del passato, in numerosissimi spot pubblicitari, col furetto che prova a ‘rubare’ le merendine, e naturalmente parla il dialetto napoletano, la fanciulla popputa che vanta il nostro sole, le famigliole di pescatori napoletani o procidani che provano a vendere pescetti surgelati: sembrano usciti dai vecchi film di De Sica. E’ la stessa operazione che è stata fatta col film sul caso Tortora, o nelle fiction che mostrano giudici rigidi nel rispetto delle leggi, e insensibili sul piano umano: in entrambi i casi si sta tentando una delegittimazione. Nel caso specifico,  di delegittimare il lavoro svolto dalla sinistra nelle città del Sud.

L’operazione è politica, occorre ribadirlo; e politica - profondamente motivata - ed etica, dovrebbe essere la risposta

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In un articolo su “l’Unità”,  Pietro Greco si è occupato di un libro edito dall’Istituto Studi Filosofici dedicato al celebre matematico napoletano immortalato dal Film di Martone: Renato Caccioppoli. La Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo. L’articolo parla delle intuizioni scientifiche del matematico, ma soprattutto del ruolo culturale da lui svolto per la cultura e gli intellettuali cittadini: «Caccioppoli è l’emblema della capacità trascinante e, insieme, dell’isolamento in cui spesso gli intellettuali, anzi gli intellettuali militanti, vivono nella città partenopea». Il problema, sembra suggerirci Greco, non è l’assenza di cose belle e buone, ma la rimozione operata dalla collettività a causa dell’inerzia della classe dirigente. E’ questo il passaggio importante, perché se la questione è politica, allora tanto vale dirla tutta: dall’indebolimento di quella politica capace di sostituire con una montagna di sale il mare di panzane detto sulla città, deriva il riaffiorare di quelle stesse panzane. Se proprio una olografia ci dev’essere, è meglio quella del primo Bassolino piuttosto che quella proposta dalla veteroiconografia reazionaria nazional/popolar/televisiva. Dall’indebolimento dell’idea di una sinistra unitaria, e dai passi falsi compiuti da questa sinistra (la chiamata a ministro di Bassolino, in questo senso, è parsa devastante, perché ha contribuito a neutralizzare la forza aggregante e trascinante dell’uomo che poteva dire “no” a D’Alema), deriva l’impossibilità di renderla un interlocutore credibile, capace di far crescere realmente il senso comunitario della città, motivando i suoi artisti, mantenendo viva la memoria sul lavoro già svolto da quanti vi operano da decenni, spingendo perfino gli scugnizzi a scendere dai vicoli, non per adorare il loro simile ‘travestito’ da divo e messo lì come feticcio, ma per giocare con una montagna di sale esattamente come i bambini della Napoli-bene. Dove sta la politica se non riesce ad aggregare, a coinvolgere? Al di là del valore in sé di un’ulteriore bella stagione della canzone napoletana (chi di noi vorrebbe contrastare la continuazione di un fenomeno popolare?) non si può che guardare con sospetto ad un amore per il kitsch che arriva in ritardo di qualche anno (il centro-destra si aggiorna sempre con difficoltà), e che osa camuffarsi come necessità ‘popolare’!

Pietro Greco conclude il suo articolo con una considerazione che suona purtroppo un po’ amara per chi vive ed opera a Napoli:  «Renato Caccioppoli e il suo ‘movimento’ mostrano un impegno e una lucidità quasi del tutto estranei alle classi dirigenti napoletane. Qui sta la loro forza. E qui sta il loro limite. Perché questa dimensione di lucidità intellettuale, di impegno civile e di capacità progettuale, a Napoli, riesce sì a raggiungere livelli di valore assoluto. Perpetuando una antica tradizione. Ma appartiene a piccole minoranze illuminate, cui non riesce mai di stabilire contatti saldi e duraturi col resto della città e col resto delle classi dirigenti della città. A ogni generazione, Napoli produce grandi intellettuali e nuovi stimoli. Ma ogni volta, ieri come oggi, la città non se ne accorge».

La nostra tesi qui diverge da quella di Greco: perché sia le classi dirigenti che la parte della città più viva conoscono benissimo queste realtà ‘scomode’, le quali poi spesso riscuotono i loro successi all’estero o altrove in Italia; ma preferiscono ‘rimuovere’ la spinta di civiltà e mostrarsi indifferenti verso il nuovo che quegli intellettuali conferiscono, malgrado Napoli, alle loro discipline artistiche o scientifiche. Ecco il motivo per il quale Il resto della Memoria tratta delle ‘memorie inconciliate’, che sopravvivono nonostante tutto. Chi sa, sa benissimo quanto queste persone abbiano dato alla loro città. Pertanto noi dobbiamo contrastare questa rimozione proprio nella città di Napoli.

La politica potrà risultare affidabile e capace di aggregare soltanto quando riuscirà a ‘ricordare’ le conquiste ed i meriti guadagnati sul campo dagli intellettuali e dagli artisti militanti: sempre perdenti, ma non certo per vocazione. Se invece continuerà a mostrarsi incapace di ricordare, aggregare e coinvolgere, allora vinceranno le forze della dissipazione,  dell’improvvisazione, dell’interesse individualistico e personale. Con grande soddisfazione dei cantanti di quartiere, del cinema neo-kitsch, e della vecchia cara Napoli di sempre.

 

Unità d'Italia: nascita di una colonia

Rileggiamo la storia del Sud con lo scrittore calabrese Nicola Zitara


 

Ai popolani di Napoli che nelle oneste giornate del luglio 1547, laceri, male armati, soli d'Italia, francamente pugnando nelle vie, dalle case, contro le migliori truppe d'Europa, tennero da se lontano l'obbrobrio della inquisizione spagnola imposta da un imperatore fiammingo e da un papa italiano, provando ancora una volta che il servaggio è male volontario di popolo ed è colpa de' servi, più che dei padroni.

Lapide esposta all'ingresso della Certosa di San Martino, a Napoli

 

 

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Aggiornato il: 18 gennaio 2003

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