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Sdoppiare il campionato: Padania e Italia mediterranea

Un calcio all’emarginazione, tutto il Sud in serie A 

di Franco Nocella

Con una sola squadra meridionale – la Reggina di Reggio Calabria - in campo per la serie A contro ben 17 compagini del Centro Nord, è lecito dire che il Sud, nonostante le sue nobili tradizioni sportive e la passione che coinvolge milioni di persone, è letteralmente tagliato fuori dal massimo campionato italiano di calcio: si tratta di una ingiustizia, l’ennesima fra le tante che da lungo tempo il Sud è costretto a subire, che  i 22 milioni di italiani che vivono fra gli Abruzzi e la Sicilia devono sopportare in omaggio a una logica perversa che ha trasformato la disciplina sportiva più popolare in Italia in un meccanismo regolato non dai sani principi dell’agonismo sportivo, ma dalle regole di un mercato chiuso e selettivo dove il Sud, messo in ginocchio da 142 anni di sottosviluppo programmato, è escluso in partenza.

Si tratta di un dato di fatto innegabile, tanto oggettivo ed evidente che  La Gazzetta dello Sport, che pure è espressione di uno fra i più grandi gruppi editoriali del Nord, in una inchiesta sul calcio nel Sud, lo ha meritoriamente denunciato e analizzato con dovizia di particolari. “Riprendiamoci la Sicilia. Una terra colonizzata: chi investe arriva da lontano. E adesso c’è  chi dice basta”, è stato il titolo della prima puntata  dell’indagine giornalistica dedicata ala crisi endemica del calcio meridionale. Ma, non c’era bisogno che arrivasse una grande testata del Nord per evidenziare uno stato di fatto che è sotto gli occhi di tutti e che, nonostante ciò, è  stato, fino a oggi, considerato con eccessiva “prudenza”, se non  con reticenza e rassegnazione.

Eppure, per lunghi anni, si è avuta l’impressione che il calcio e la passione sportiva che affollano gli stadi meridionali siano stati utilizzati quasi come un narcotico, teso ad attenuare la tensione sociale che scaturisce da livelli di disoccupazione che hanno sfiorato (e in alcune province superato) la soglia del 30% e, per quanto riguarda i giovani, ormai assestati su inquietanti percentuali vicine al 60%. La vulgata banalizzata e distorta dei manipolatori della storia ricorda il “pane e i giochi del circo” con cui Nerone si sarebbe garantito il favore del popolino romano. Pochi, invece, si sono attardati ad analizzare la funzione di distrazione e di sfogo per le tensioni sociali nel Sud, emarginato e maltrattato, che al calcio è stata attribuita da parecchi decenni a questa parte.

Oggi, a quanto pare, non c’è  più neppure la preoccupazione di assicurare al Sud la morfina calcistica che, in passato, ha contribuito a rendere meno insopportabili le conseguenze della sua emarginazione economica e produttiva. Mentre quella meridionale sta cessando di essere considerata come una “questione” e viene, sempre più esplicitamente, presentata come una palla al piede di cui l’Italia padana vorrebbe liberarsi, il Sud viene espulso dal massimo campionato di calcio e relegato nel caotico reticolo di serie, categorie e gironi inferiori che ben si addicono a quella parte della penisola che, fin dal 1860, è stata sempre considerata di serie B.

Di fronte a un simile stato di cose, è necessario rompere gli schemi e immaginare assetti diversi e meno penosamente penalizzanti, così come sul piano politico ed economico,  anche su quello sportivo e, nella fattispecie, calcistico. Di qui l’idea di sdoppiare il campionato italiano di calcio in due, dando vita a un campionato che veda impegnate le squadre espressione del  potere economico concentrato nel Centro Nord e a un campionato che coinvolga le energie, le risorse e la passione sportiva del Sud. Padania da un lato e Due Sicilie dall’altro, per intendersi. Con gli accorpamenti che le aree intermedie (Lazio e Sardegna, per esempio) volessero preferire rispetto ai due agoni sportivi. Poi, poiché, come si legge nella costituzione, la Repubblica italiana è una e indivisibile,  ci potrebbe essere un confronto finale fra i vincitori di ciascun campionato per l’assegnazione del titolo italiano

A onor del vero, non si tratterebbe di una novità. I precedenti, infatti, sono numerosi e assai significativi. Li indica la storia del calcio italiano.  Dal 1913 al 1926, infatti, i campionati di calcio sono stati due. Uno riguardava il Centro Nord e l’altro il Sud. Furono la enfatizzazione nazionalistica e la tendenza livellatrice del fascismo a imporre, pochi anni dopo la marcia su Roma, il campionato unico, che oggi ha portato allo schiacciamento e all’espulsione del Sud dal mondo del calcio che conta, per emarginarlo nella dimensione provinciale che sempre più lo contraddistingue. Le cose andarono avanti in questo modo fino al tragico 1943, quando gli stadi furono spopolati dalla guerra e dalle bombe, rimanendo totalmente deserti l’anno successivo, quando il campionato non ebbe luogo.  Nel 1945-1946 si tornò al doppio campionato, ma si trattò di un fatto transitorio. Dal 1947 in poi,  infatti, il campionato unico riprese il sopravvento che ha conservato fino al momento in cui l’unica squadra meridionale rimasta a galla è stata quella di Reggio Calabria. Affondata la Reggina, potrebbe inabissarsi anche l’ultimo simulacro di un Sud condannato, almeno dal punto di vista calcistico, a sciogliersi nel nulla come neve al sole.

Eppure il Sud dispone di un patrimonio sportivo di cui sono eloquente testimonianza, oltre che l’unica squadre presente in serie A, le vitali realtà dei club disseminati in serie B (accanto al Napoli, unica squadra meridionale ad aver conseguito lo “scudetto”, il Bari, il Catania, il Cosenza, la Salernitana, il Palermo, il Lecce, il Messina), in serie C (il Crotone, l’Avellino, il Benevento, il Giulianova, L’Aquila, l’Acireale, la Battipagliese, il Catanzaro, il Foggia, il Giugliano, il Trapani e il S.Anastasia che, fallito, non è neppure riuscito a iscriversi al campionato) e  così via, fino a giungere alle tante società minori, dove mancano i mezzi economici, ma non difettano il valore e l’entusiasmo di migliaia e migliaia di giovani atleti. Queste forze, queste  risorse del Sud non possono essere tagliate fuori a priori da un sistema ideato e costruito a uso e consumo di altri.

       E’ augurabile che la Federazione italiana gioco calcio (nata a Torino nel 1898, con sedi a Milano, a Bologna e, infine, a Roma) prenda in attenta considerazione il progetto di sdoppiamento del campionato. In caso contrario, potrebbe essere costretta a prendere atto, suo malgrado, della profondità di un fossato destinato a separarla sempre più nettamente dal Sud e del conseguente ridimensionamento della propria rappresentatività sia in Italia che fuori. Ma, il problema dello sdoppiamento del campionato non riguarda solo l’organizzazione presieduta da Franco Carraro. Esso coinvolge anche, se non soprattutto, le società sportive meridionali (grandi e piccole) e le stesse istituzioni che rappresentano le comunità territoriali del Sud. In altri termini, se la Federazione gioco calcio fondata a Torino 104 anni fa dovesse mostrare di essere più padana che italiana, nessuno potrebbe negare al Sud la legittimità di scelte e di forme organizzative autonome. In definitiva, il problema è uno solo: dare un calcio all’emarginazione e liberare il calcio dall’ipoteca di chi pensa di poterlo dominare, anzi che con il generoso impegno degli atleti, con la forza prevaricatrice e oppressiva del potere economico.

 


 Amerikan look? No, thank you …E’ ora di “disamerikanizzarsi”

di Pietro Ferro

Fast food? No, thank you. Il pasto veloce gli italiani (sopratutto quelli del Sud) lo hanno già da molto tempo. Si chiama: pizza. Questo, in estrema sintesi, il ragionamento che portò, a metà degli anni ’80 del secolo scorso, un gruppo di artisti e di uomini di spettacolo guidati da Luciano De Crescenzo e Claudio Villa a organizzare una, per molti versi, clamorosa manifestazione culturale e gastronomica in piazza Navona, a Roma, a base di pizze e spaghetti cucinati in chiave critica nei confronti di quello che, semplificando, si potrebbe chiamare l’american look. Obiettivo dell’iniziativa: lanciare urbi et orbi, cioè – come dicevano i latini – “alla città e al mondo”, un sorridente, ma vigoroso, appello per la “disamerikanizzazione”.

L’Amerika, quella con il K, è penetrata nell’ultimo mezzo secolo, in maniera apparentemente indolore, ma profonda e spesso subdola, nelle abitudini, nei costumi, nella vita e persino sulle mense di napoletani e ateniesi, di madrileni e di alessandrini, di marsigliesi e palermitani. E’ l’Amerika dei Rambo e delle telenovelle, della Coca Cola e del footing, del fout ball e delle guerre stellari. E’ l’Amerika dell’amburger e delle magliette con sopra iscritto il nome delle superportaerei nucleari.

Un’Amerika che si insinua nei sogni di milioni di persone, che vuole condizionare il modo di pensare e di vivere e, soprattutto, il modo di consumare nelle regioni più ampie possibili del pianeta, Mediterraneo in testa. Per quest’Amerika napoletani e ateniesi, madrileni e alessandrini, marsigliesi e palermitani, infatti, sono poco più che un grande mercato. Sono, come gli abitanti di tanti altri paesi, il lubrificante di una macchina potente e immensa costruita per produrre ricchezza per alcuni e povertà, sottosviluppo ed emarginazione per molti.

E’ l’Amerika di Dallas e di Dinasty. E’ l’Amerika che controlla il mercato cinematografico mondiale in maniera pressocchè incontrastata. E’ un’Amerika che, barando su schermi e teleschermi, è riuscita a presentare il barbaro genocidio dei pellerossa come una impresa di civilizzazione. E’ l’Amerika che, con i suoi sistemi di controllo dell’informazione a livello planetario, è in grado di modellare a suo piacimento miliardi di coscienze. Il defunto presidente francese François Mitterand diceva che la “verità”, nel mondo contemporaneo, era (ed è, tuttora, si può aggiungere oggi) fabbricata dai 20 milioni di parole che quotidianamente partono ogni giorno dalle centrali informative d’Oltreoceano, a fronte degli 8 milioni di parole distribuite dai mass media disseminati in tutto il resto del mondo: aveva ragione da vendere.

E’ l’Amerika che illude e che incanta, che seduce e che inganna con le sue luci e con le sue immagini, con le sue storie e i suoi miti di plastica. E’ l’Amerika che riesce a montare, a suon di miliardi di dollari,  una campagna auto-propagandistica internazionale centrata sulla sacrosanta lotta contro il terrorismo, senza dire una parola sulle vittime che vengono quotidianamente falciate  dalla criminalità organizzata nelle scintillanti strade di metropoli come New York o Los Angeles, Chicago o S.Françisco. E’ l’Amerika che pretende di presentarsi quale nume tutelare dei diritti umani nel mondo, pur essendo l’ultima democrazia liberale a fare ricorso sistematico e massiccio alla pena di morte: oggi sono oltre 3.500 gli uomini e le donne che attendono di incontrare il boia nelle prigioni degli States.

Pop corn e patatine a volontà per dimenticare che, nel mitico paese che si assunse la responsabilità storica di sganciare le bombe atomiche che rasero al suolo Hiroshima e Nagazaki, i poveri, che sopravvivono ai piedi dei grattacieli sparpagliati fra l’Atlantico e il Pacifico, rappresentano il 20% della popolazione. Per fingere di non sapere che la battaglia per l’emancipazione dei neri non è stata vinta con l’abolizione della schiavitù nel 1865. Per non ricordare che milioni di discendenti di Toro Seduto e di Geronimo, che non hanno voluto assoggettarsi al nuovo dominio, sono costretti a vivere, ancora oggi, nelle vecchie “riserve” graziosamente concesse all’epoca del generale Custer.

Sandwich e uova al prosciutto per tutti (a condizione, naturalmente, che possano permettersi di pagarli) perché napoletani e ateniesi, madrileni e alessandrini, marsigliesi e palermitani si convincano che le loro antiche culture, le loro secolari tradizioni, i loro radicati costumi, tipici della civiltà mediterranea, non hanno più valore e che chi si ostina a considerali punti di riferimento potrebbe trovarsi, presto o tardi, fuori dal mondo che “conta”.

Per distrarre da pericolose tentazioni ci sono nuovi e allettanti motivi di disputa e di riflessione: quelli sul gusto della Coca Cola, per esempio. Meglio quello vecchio, che ha fatto la fortuna della ditta di Atlanta che produce la bevanda simbolo del look nord-amerikano, oppure meglio quello dolciastro della New Kole?

L’Amerika dalle mille luci, intanto, penetra nelle case, nelle scuole, nei bar, nelle menti e modifica anche il linguaggio. Pochi in Italia, ma anche in altri paesi mediterranei, quando sono d’accordo su qualcosa dicono “va bene” o usano la corrispondente espressione delle rispettive lingue. La risposta ok è diventata la regola. Si contano, però, sulle punta delle dita coloro che sanno quello che dietro l’ormai familiare ok si nasconde. La sigla condensa un’espressione inglese, ormai americanizzata, che in italiano suona così: “per ordine del re”. Inconsapevoli schiere di “repubblicani” convinti da Napoli ad Atene, da Marsiglia ad Alessandria d’Egitto, tuttavia, continuano a rassicurare amici e conoscenti con la fatidica espressione: ok.

Look, input, corner, point, casual, shopping, workshop, file, link, paint, subscribe, unsubscribe, desk… Il vocabolario italiano e quello di diversi altri paesi mediterranei si sta arricchendo (o, forse, imbastardendo) con l’introduzione di decine e decine di termini inglesi, mutuati attraverso l’offensiva culturale degli invisibili strateghi dell’amerikanizzazione globale. Il vecchio e, tutto sommato, buon ok, da tempo, non è più solo nei discorsi di napoletani e madrileni, di palermitani e marsigliesi: è accompagnato da una valanga crescente di vocaboli ed espressioni idiomatiche importate dall’altra sponda dell’Atlantico. Il dilagare del computer e l’arrivo di Internet, veicolati attraverso lo stringente monopolio di Microsoft, stanno portando al parossismo una tendenza già fortemente avvertita.

I tentativi di introdurre nelle scuole l’insegnamento dell’esperanto come lingua universale sono stati tutti tenacemente boicottati e sono miseramente falliti. Quelli di rilanciare il latino, quale punto d’incontro neutrale fra diverse culture, sono stati appena accennati. La lingua universale, anche se nessuno ha mai espresso la propria approvazione perché si giungesse a questa incoronazione, c’è già: è l’inglese. Anzi, è meglio dire: l’inglese parlato nella vulgata semplificata e banalizzata dei nord-amerikani. La lingua universale è la lingua del più forte. Chi non la conosce si affretti a impararla.

Lingua, moda, gastronomia, informazione: l’Amerika si fa strada a gomitate con le armi di quello che Lelio Basso, uno dei fondatori del Tribunale internazionale dei diritti dei popoli, battezzò come “imperialismo culturale”. Da Dallas al fast food,  non c’è nulla che venga trascurato per spianare il campo all’attuazione di un progetto. Quello di uniformare tutto e tutti o, come diceva molti anni fa Pier Paolo Pasolini, omologare. Tutti uguali (sotto il profilo culturale, non certo sotto quello economico…), privati delle proprie radici, staccati dalle proprie tradizioni, incapaci di apprezzare il valore della diversità e pronti al grande e definitivo applauso rivolte alle merci made in USA.

Il segnale partito tanti anni fa da piazza Navona, con le pizze e gli spaghetti di Luciano De Crescenzo e Claudio Villa, non fu un fatto isolato. Si trattò dell’espressione di un sentimento ancora largamente presente nella società italiana e in quella di molti altri paesi, che induce alla resistenza e alla riscossa per l’affermazione di identità culturali calpestate e, a volte, addirittura violentate. La Feder-Mediterraneo nacque a Napoli, nel 1988, sull’onda di questa aspirazione popolare all’esaltazione delle radici e alla ricerca di vie che conducano, nell’ambito di una strategia di cooperazione internazionale, a modelli di sviluppo autocentrato. Tutto questo non certo in odio nei confronti degli americani (quelli senza k, molti dei quali hanno problemi assai simili ai nostri), quanto, piuttosto,  per difendere la possibilità di poter contare su un futuro da vivere come uomini liberi.

 


Unità d'Italia: nascita di una colonia

Rileggiamo la storia del Sud con lo scrittore calabrese Nicola Zitara


 

Ai popolani di Napoli che nelle oneste giornate del luglio 1547, laceri, male armati, soli d'Italia, francamente pugnando nelle vie, dalle case, contro le migliori truppe d'Europa, tennero da se lontano l'obbrobrio della inquisizione spagnola imposta da un imperatore fiammingo e da un papa italiano, provando ancora una volta che il servaggio è male volontario di popolo ed è colpa de' servi, più che dei padroni.

Lapide esposta all'ingresso della Certosa di San Martino, a Napoli

 

 

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Aggiornato il: 18 gennaio 2003

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