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 DECADENTISMO
IN ITALIA

-Giovanni Pascoli (1855-1912 )

LA VITA

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855. Il 10 agosto 1867 perdette il padre, assassinato da sicari rimasti ignoti, e, nel volgere di pochi anni, anche la sorella maggiore, la madre e due fratelli. Queste disgrazie segnarono traumaticamente la sua sensibilità. Frequentò la facoltà di lettere a Bologna, dove ebbe come maestro Carducci Giouse. La sua istintiva adesione alla causa degli oppressi lo spinse ad aderire al movimento socialista, e nel 1879 trascorse alcuni mesi in carcere per aver partecipato a una manifestazione politica. La dolorosa esperienza, però, lo distolse dalla vita politica attiva e accentuò il suo pessimismo verso la società.

Dopo essersi laureato, insegnò in vari licei e in varie università e nel 1906 successe a Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna. Già dal 1895 aveva scelto come dimora ideale una casa nella campagna di Castelvecchio di Barga, presso Lucca, dove aveva raccolto, quasi a ricreare il “nido” distrutto dalla scomparsa di tante persone care, le sorelle minori. Morì nel 1912.

 

LE OPERE

 

Nella produzione pascoliana è difficile riscontrare un preciso “sviluppo” o “svolgimento” , perché Pascoli lavorò contemporaneamente a poesie che furono poi pubblicate in raccolte distinte. Riesce più utile una lettura per temi.

Le opere di Pascoli possono essere divise in quattro temi differenti:

    1.Opere intimiste( opere più riuscite );

    2.Opere celebrative ( poesie );

    3.Opere in latino ( poesie );

    4.Opere critiche ( prosa ).

1).Opere Intimiste

  • Myricae

 Il primo volume di liriche di Pascoli, Myricae [ mirice ] (opera più riuscita in assoluto ) trae il titolo da un verso delle Bucoliche di Virgilio, poeta latino del primo secolo a.C. : “ arbusta iuvant humilesque myricae “ ( “ piacciono gli arbusti e le basse tamerici “ ). La scelta del titolo rivela una volontà di canto umile di ispirazione agreste ( campagnola ).

I componimenti di Myricae sono brevi bozzetti ( quadri ) naturalistici, tracciati con nitide notazioni impressionistiche. Nelle descrizioni del paesaggio agreste Pascoli proietta il proprio stato d’animo malinconico, le proprie angosce e inquietudini esistenziali.

Ai temi della vita nei campi si aggiungono quelli del legame con i morti e del “ nido “ familiare distrutto.

Il codice stilistico delle liriche di Myricae presenta i caratteri fondamentali di tutta la produzione di Pascoli: una sintassi elementare, un lessico preciso e “ tecnico “, la presenza di frequenti rispondenze foniche, l’attenzione al valore evocativo della parola, suggerito dall’onomatopea e dall’allitterazione. Non meno rilevante è l’innovazione sul piano del metro. La punteggiatura spezza il ritmo del verso e gli conferisce un andamento quasi prosastico.

Myricae: è l’opera migliore della prima produzione;

  • temi: le piccole cose, la campagna, i morti ( periodo dell’infanzia ), la famiglia ( “ nido “ );
  • poetica: utilizza la poetica del fanciullino, si esprime per impressioni visive e acustiche ( atmosfera malinconica e angosciosa );
  • stile: semplice, usa un linguaggio semplice ed impressionistico ( si rifà ai sensi, a ciò che vede e a ciò che sente, non ragiona );
  • metro: poesia prosastica.
  • Primi e nuovi poemetti.

Quest’opera, molto simile a Myricae, è sdoppiata in due volumi: i “ Primi poemetti “, pubblicati nel 1904, e i “ Nuovi poemetti “, pubblicati nel 1909.

  • Canti di Castelvecchio

Composta in Garfagnana, nella casa di campagna dove Pascoli soggiornò frequentemente a partire dal 1895, e dedicata alla memoria della madre, la raccolta costituisce una compiuta elaborazione di alcuni temi cari al mondo poetico di Giovanni Pascoli: in particolare, il tema delle memorie autobiografiche e quello del “nido” familiare, simbolo di pace e serenità. Rispetto alle raccolte precedenti si fa più intensa e suggestiva la meditazione cosmica del poeta di fronte all’arcano ( impenetrabile ) mistero della realtà

I canti di Castelvecchio: è l’opera migliore della maturità.

  • temi: le piccole cose, la campagna, i morti ( l’infanzia ), la famiglia ( nido );
  • poetica: della maturità, in cui vede il mondo in modo misterioso, arcano, simbolico (mondo pieno di forze invisibili );
  • stile: molto più complesso (impressionistico );
  • metro: poesia prosastica più complessa ( usa più metri ).

2).Opere celebrative

  • Poemi conviviali

Nelle liriche della raccolta “ Poemi Conviviali “, sono per lo più presenti temi e motivi cari all’esperienza del Pascoli umanista e traduttore di classici, elaborati poeticamente nell’intento di diffondere il patrimonio mitico greco e latino nella civiltà moderna. Pascoli, naturalmente, interpreta con sensibilità decadente il lontano passato del mito e della storia, proiettandovi l’angosciosa coscienza della precarietà del destino umano.

Dal punto di vista stilistico, le varie liriche della raccolta sono caratterizzate da preziosismi parnassiani e alessandrini ( poesie raffinate e difficili ).

  • Altre raccolte

Odi e Inni (1906); Canzoni di Re Enzio (1909); Poemi italici (1911); Poemi del Risorgimento (1913 postumi).

3).Opere in latino

  • I Carmina

Tra il 1885 e il 1911, Pascoli compose numerose poesie in latino che sono di notevole qualità artistica: non è un caso che egli sia risultato più volte vincitore del concorso internazionale di Amsterdam per la poesia latina.

Dal punto di vista formale il latino di Pascoli ha una particolare originalità: è dunque anticlassico e antiumanistico, a volte prezioso a volte colloquiale.

La sintassi è diseguale, frammentaria, lontana dai modelli classici. Il tutto produce effetti suggestivi e originali.

4).Opere critiche

Pascoli svolse anche un intensa attività di critico letterario. Una parte delle prose, frutto di questa attività, è stata raccolta nel 1907 nel volume “Pensieri e discorsi”, che fra le altre cose comprende anche “Il fanciullino”.

 

IL PENSIERO

Le traumatiche esperienze adolescenziali furono determinanti per la formazione interiore di Giovanni Pascoli. Esse fecero maturare nel poeta una concezione pessimistica della società, ma soprattutto causarono in lui una costante nostalgia della famiglia e dell’infanzia perdute. La vita e la poesia di Pascoli sono, infatti, dominate da un legame ossessivo per la famiglia d’origine, sentita come luogo sicuro, e rappresentata dalle metafore del “nido”.

Queste caratteristiche comportano da un lato la fuga del poeta dalla storia in una sorta di ripiegamento interiore e di malinconico vagheggiamento della campagna e dall’altro il rifiuto delle certezze positivistiche e dei miti scientisti. La scienza, in effetti, secondo Pascoli, si è dimostrata incapace di spiegare la realtà e soprattutto il senso ultimo delle cose: la realtà è un mistero ineffabile ( cosa troppo bella per essere espressa adeguatamente a parole), che sfugge continuamente agli schemi razionali con cui l’uomo cerca, presuntuosamente, di svelarlo.

Da questo atteggiamento deriva, per Pascoli, il valore euristico ( conoscitivo) della poesia, intesa come una possibile forma di conoscenza pre-logica e pre-razionale. Da cui deriva anche necessariamente lo scardinamento delle strutture sintattiche, linguistiche e metriche della lirica tradizionale.

La campagna viene idealizzata come un mondo sereno e semplice, protetto dalle insidie della società.

APPUNTI:

I traumi infantili gli causano: 1). Un rifiuto della società moderna e urbana, vista come ingiusta, crudele e piena di insidie; 2). Per contrasto si rifugia in se stesso, nel ricordo della propria infanzia in campagna. Questo ripiegamento in se stessi, l’infanzia e la campagna, vengono concepiti come rifugi ideali, e quindi vengono esaltati e idealizzati; stesso procedimento lui lo realizza nei confronti della famiglia originaria. Da qui derivano i temi principali che sono sempre presenti in ogni sua poesia: la famiglia, il ricordo della morte, la madre, la campagna, la natura, l’infanzia, i propri pensieri e le riflessioni. La poesia è vista da lui in maniera consolatoria, cioè gli serve come mezzo per superare i momenti difficili della vita. Per Pascoli addirittura la poesia è l’unico mezzo di conoscenza, in altre parole mettersi in contatto con la natura.

LA POETICA

Nello scritto teorico Il Fanciullino, pubblicato nel 1897, Pascoli enuncia principi della sua concezione della poesia.

Il principio fondamentale della "poetica" pascoliana è l'identificazione del poeta con un "fanciullino". L'immagine del "fanciullino" indica, per metafora, la capacità di stupirsi davanti alle cose, che è tipica dei bambini e che solo il poeta mantiene intatta durante tutta la vita.

Questo "fanciullino", che ognuno reca dentro di sé, ma che solo il poeta sa ascoltare, "popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei… alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai": compito del poeta, grazie all'intatto potere analogico e suggestivo delle sue percezioni e delle sue visioni, non ancora contaminate da schemi razionali, è pertanto quello di scoprire e rivelare agli uomini i palpiti arcani dell'ignoto, il mistero che circonda la vita delle creature e del cosmo. Non è necessario, afferma Pascoli, rivolgersi alle cose insolite o grandiose: proprio nei più umili aspetti della vita quotidiana si possono cogliere “le relazioni più ingegnose”.

Inoltre, per Pascoli, la poesia svolge anche una funzione sociale, consolando dolcemente “le anime irrequiete”, essa dispone gi uomini ad accontentarsi del proprio piccolo mondo, inteso come un rifugio dai pericoli del storico e sociale.

LINGUA E STILE IN PASCOLI

L’aspetto più valido della poesia pascoliana è il profondo rinnovamento che il poeta ha operato in campo stillistico-espressivo rispetto alle forme e ai modi della tradizione italiana. Pascoli crea un linguaggio poetico nuovo, caratterizzato dalla dissoluzione ( eliminazione ) della sintassi tradizionale e dall’eliminazione degli usuali nessi logici. Il poeta carica di suggestione e di mistero gli oggetti reali e le stesse forme della natura.

Tutto questo, naturalmente, rende la lirica pascoliana nuova ma anche difficile. Nel suo costante sperimentalismo, Pascoli attinge sia la sfera del linguaggio “pre-grammaticale”, con la riproduzione onomatopeica dei suoni, sia ai tecnicismi del linguaggio rurale e dialettale, sia, infine, ai preziosi arcaismi delle lingue “morte” latina e greca.

Anche sul piano metrico Pascoli conduce una sperimentazione costante: egli rinnova le forme metriche usuali grazie all’adozione di un ritmo prosastico, all’andamemto franto ( rotto ) dei versi, conseguito mediante l’uso frequente della punteggiatura o la rottura imposta dagli enjambements.

MOVIMENTO CULTURALE

Giovanni Pascoli può essere definito decadente per la sua incredibile sensibilità poetica verso le cose, per l’uso simbolico della realtà e per uno stile e un lessico semplici ed essenziali.

Il Decadentismo, il movimento letterario e artistico che si colloca nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento, riflette nelle sue contrastanti manifestazioni, l’inquietudine di un mondo percorso da tensioni profonde, ma ricco di fermenti culturali: un mondo che, respinto l’ottimismo razionalistico del Positivismo, è alla ricerca di nuove risposte ai suoi problemi e di nuove forme capaci di esprimerle.

  • Testo tratto dalla verifica di italiano

Il Decadentismo comincia ad affermarsi intorno al 1880 e finisce intorno al 1915. Il movimento a cui si contrappone è il Positivismo, periodo nel quale si credeva moltissimo nella risoluzione scientifica dei problemi dell’umanità. Il Decadentismo mette in crisi i valori precedenti: libertà, uguaglianza, fraternità, scienza come risoluzione dei problemi, per affermarne dei nuovi: mito del superuomo ( si credono i migliori ), individualismo esasperato, razzismo, riscoperta dell’irrazionalismo e della fantasia, si dà importanza all’istinto ed all’inconscio, non esiste più l’impegno sociale, poiché ognuno si interessa dei propri problemi, esaltati dai scrittori del tempo. Da questo periodo cominciò anche l’abuso di alcool e di droghe, per scoprire nuove sensazioni sempre più forti. Si può dire quindi che l’uomo ideale decadente era in cerca continua di sensazioni nuove e sempre più forti.

 

 

-Gabriele D’Annunzio (1863-1938)

 

LA VITA

Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara nel 1863 da una famiglia borghese di modeste origini. Esordì giovanissimo come poeta e poi si dedicò, con crescente successo, al giornalismo e alla letteratura. A Roma, dove si trasferì all’inizio degli anni Ottanta, e poi, negli anni successivi, a Napoli, a Firenze, a Venezia, a Milano e a Parigi, visse un’intensa vita mondana, riempendo le cronache con le notizie dei suoi successi, delle sue avventure galanti e dei suoi numerosi scandali: con le sue gesta e le sue poesie snobistiche, improntò di sé il gusto del suo tempo. Scoppiata la Prima guerra mondiale, fu un deciso interventista e poi, trasformatosi in poeta - soldato, partecipò attivamente al conflitto, segnalandosi per alcune audaci imprese, come il volo su Vienna. Tra il 1919 e il 1920 occupò militarmente Fiume, per protesta contro la politica del governo italiano. Nell’immediato dopoguerra, cercò di opporsi a Mussolini e al fascismo, di cui pure poté sembrare un percussore e un fiancheggiatore, ma rimase sconfitto politicamente finì i suoi anni a Gardone, sul lago di Garda, dove morì nel 1938.

LA “VITA INIMITABILE”

D’Annunzio volle realizzare la propria vita come un’opera d’arte. Per arrivare a ciò, egli perseguì un sogno di eroica bellezza e coltivò, per tutta la sua esistenza, una stretta ambiguità tra letteratura e realtà, finzione artistica e vita vissuta. La sua vita e la sua opera furono, quindi, qualcosa di strettamente complementare, quasi un'unica realtà, e per parecchi decenni fecero di lui un vero e proprio modello di comportamento e di gusto.

D’Annunzio fu un amante egoista, sensuale e infedele; fu uno scialacquatore ( spendaccione ); fu il raffinato ed elegante profeta di una religione mondana e pagana; fu un individualista esasperato, tutto proteso in un’eccitante e spasmodica ricerca di sensazioni rare ed elette; fu, soprattutto, un “divo”, che visse per lo più con l’occhio rivolto a chi avrebbe dovuto vederlo e a chi avrebbe dovuto leggere le sue opere.

LE OPERE

Le opere di D’Annunzio possono essere divise in più fasi diverse:

    1.Fase estetica: viene influenzato dai francesi e da Oscar Wilde;

    2.Fase del superuomo: viene influenzato dai testi di Nietzsche [ nitc];

    3.Fase del D’Annunzio notturno: opere memorialistiche ed autobiografiche, ultima produzione.

  • Gli esordi letterari.

Gli esordi letterari di D’Annunzio rilevano una caratteristica che sarà tipica della sua futura personalità, quella di captare con straordinaria sensibilità gli aspetti più nuovi e originali della cultura contemporanea.

Così la prima raccolta poetica Primo vere (1879) si muove nell’ambito della metrica “barbara” di Carducci, che aveva ottenuto un notevole successo di pubblico.

Parallelamente si svolgevano le prime esperienze narrative di D’Annunzio, che sono collocabili nell’ambito del Verismo. Nel volume di novelle Terra vergine (1882) e nella successiva raccolta San Pantaleone (1886), però, D’Annunzio riduce gli elementari e pur complessi istinti dei primitivi di Verga al solo impulso sessuale.

  • inizi: (in poesia) Primo vere, imita Carducci in metrica (schemi classici)
  • inizi: (in prosa) Terra vergine, novelle sull’Abruzzo, imita Verga (Verismo)

1.   Fase estetica

  • Il piacere.

Il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio è Il piacere (1889), ambientato nel mondo raffinato e stanco dell’aristocrazia romana di fine secolo: un mondo di individui decorativi e inutili, che consumano il loro tempo nell’ozio mondano ( trasgressivo, pieno di stranezze) e nei facili amori.

    Emblema di questa società scettica e improduttiva è Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo. Erede di una nobile famiglia e uomo intelligente e colto, Andrea è anche corrotto e depravato, prigioniero dei suoi sogni di bellezza e vittima della sua stessa raffinatezza. Andrea ha un’amante, la bellissima Elena Muti, con cui vive un’irripetibile esperienza amorosa, impreziosita da intellettualismi e sublimata dall’arte. A un certo punto Elena lo lascia per sposare un altro uomo ed egli, incapace di arrendersi all’evidenza, entra in una totale crisi di valori e di ideali. Nel tentativo di dimenticare Elena e di vendicarsi di lei, Andrea si getta nelle avventure galanti, ma tutto è inutile. Rimasto ferito in un duello, nel corso di una lunga convalescenza, riassapora il gusto di una vita più semplice e sente il bisogno di una rigenerazione morale. L’incontro con una giovane donna di profonda sensibilità, Maria Ferres, gli dà l’impressione di poter veramente rinascere. Nonostante riesca a conquistare l’amore della donna, Andrea non riesce però a dimenticare Elena. Anzi, l’amore per le due donne, Elena e Maria, finisce per diventare per lui un unico amore. Così, con perfida consapevolezza, Andrea alimenta la sovrapposizione dei due sentimenti e delle due donne e arriva a consumare sulla inconsapevole Maria la sua passione per l'ormai perduta Elena. Alla fine, Maria si accorge con orrore della situazione e se ne va, lasciando Andrea disperato e solo.

Il romanzo può essere considerato un punto d’arrivo della prima fase della produzione dannunziana. Il piacere rappresenta l’adesione di D’Annunzio al Decadentismo.

    Andrea Sperelli, infatti, non è un tipo umano isolato. Già in Francia, pochi anni prima, lo scrittore J.K. Huysmans aveva dato vita nel suo romanzo A rebours ( A ritroso oppure Controcorrente, 1884 ) a un personaggio simile, Des Esseintes, che può anzi essere considerato la prima incarnazione del mito dell’eroe decadente e che certo D’Annunzio aveva ben presente quando costruì il suo Andrea Sperelli. Qualche anno più tardi, poi, nel 1891, questo personaggio avrebbe fatto la sua apparizione, con poche varianti, anche nell’area inglese, nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.

    Tanto diverso dall’eroe classico - greco e romano - e da quello romantico, l’eroe decadente è di stampo chiaramente negativo: forse, più che un immorale è un amorale, in quanto in lui il senso del bello ha soffocato ogni nozione di bontà e di giustizia. Di certo è un individuo cinico e dissoluto, che, animato da una insopprimibile ansia di bellezza, calpesta ogni legge umana e divina, disprezza tutto ciò che è mediocre e banale e, chiuso nella sua eleganza come in un bozzolo di seta, persegue sensazioni e piaceri raffinati e squisiti.

    Ovviamente, personaggi come Des Esseintes, Andrea Sperelli e Dorian Gray sono qualcosa di più che semplici invenzioni letterarie: essi, come i romanzi di qui sono protagonisti, testimoniano la grave crisi che alla fine dell’Ottocento sta corrodendo, se già non li ha distrutti, gli ideali romantici e positivistici, ideali fondati sull’impegno sociale, sullo spirito di sacrificio, sui principi di uguaglianza e di solidarietà e, soprattutto, su una forte e salda coscienza morale. Non a caso, nel volgere di pochi decenni, i personaggi letterari come Andrea Sperelli e gli uomini veri di cui essi sono incarnazione sarebbero approdati, quasi a risolvere la crisi in cui si dibattevano, agli ideali violenti, superomistici e antidemocratici banditi da Nietzsch e avrebbero favorito o per lo meno fiancheggiato l’avvento di ideologie politiche e sociali pericolosamente aberranti.

Dato il particolare modo di lavorare di D’Annunzio, il romanzo è pieno di rimandi autobiografici e nel protagonista si incarna D’Annunzio.

Dal punto di vista strutturale l’opera risulta povera ed esigua, caratterizzata da un intreccio fondamentale “statico”, accentuato da un moltiplicarsi di descrizioni e preziose architetture sintattiche e verbali, che rimangono artificiose e astratte.

  • Il tema della “bontà” e la nuova fase della produzione dannunziana.

Nell’ambito di una consapevole ricerca di moduli stilistico - espressivi nuovi, D’Annunzio, intorno ai primi anni Novanta, si accosta ai romanzieri russi, in particolare Dostoevskij e Tolstoj, letti in traduzione francese.

Il primo frutto di questa nuova dimensione è il romanzo Giovanni Episcopo, pubblicato nel 1891, in cui, attraverso la storia della vita disperata e miserabile del protagonista, D’Annunzio elabora il motivo della ribellione nei confronti del peccato e del vizio e quello dell’aspirazione al riscatto e alla bontà.

L’esperimento viene proseguito, con più matura consapevolezza, nel romanzo L’innocente, pubblicato nel 1892. D’Annunzio tenta di ritrarre il forte dissidio interiore che agita il protagonista (Tullio Hermil). L’intreccio si conclude drammaticamente con la morte del figlioletto, concepito dalla moglie Giuliana in modo adulterino.

    2.Fase del superuomo

  • L’incontro con i testi di Nietzsche e il mito del superuomo

Decisivo l’incontro, tra il 1892 e il 1893, di D’Annunzio con i testi del filosofo tedesco Nietzche. Il pensiero di Nietzsche, assimilato in forma parziale e non senza fraintendimenti e deformazioni, diventerà centrale nella futura attività artistica dannunziana. Infatti l’etica del superuomo influenzerà da quel momento tutta l’opera di D’Annunzio.

Più maturo è il romanzo successivo, Le vergini delle rocce, pubblicato nel 1895. Nell’opera il protagonista, Claudio Cantelmo, incarna il tipo del superuomo ed esprime le sue tesi antidemocratiche. Il libro non è certo tra le opere migliori, tuttavia è interessante dal punto di vista espressivo, perché lo scrittore giunge a una prosa alta e preziosa.

Il mito del superuomo doveva però trovare la sua più coerente e compiuta espressione in un nuovo romanzo, Il fuoco, vide la luce nel 1900.

Il protagonista, Stelio Effrena, è un superuomo - artista. Come superuomo e come artista è convinto che tutto e tutti siano a lui subordinati.

Il romanzo presenta importanti novità strutturali e formali. D’Annunzio, in Il fuoco, dissolve la struttura tradizionale del romanzo: abolita ogni parvenza di trama, il narratore si limita a disporre l’uno accanto all’altro i vari episodi, collegandoli soltanto mediante il ritorno di temi ricorrenti e la ripetizione o l’accumulo di pensieri, di situazioni, di frasi e perfino di parole.

  • Laudi (poesie)

Dopo l’esperienza di Il fuoco, D’Annunzio torna finalmente alla lirica: nel 1903 pubblica i primi tre libri; Maia, Elettra e Alcyone; delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Nelle intenzioni del poeta le Laudi avrebbero dovuto comprendere altri quattro libri, per un totale di sette, dedicati a sette fra le più splendenti stelle delle Pleadi. Il ciclo, però, non fu portato a termine: il libro quarto e ultimo della serie, intitolato Merope e dedicato all’impresa libica, uscì nel 1912.

I primi tre libri comprendono liriche composte tra il 1899 e il 1903 e costituiscono la più alta summa poetica, nel bene e nel male, dell’attività dannunziana.

Maia è cronologicamente l’ultimo dei tre libri delle Laudi a essere stato terminato, ma per il suo carattere introduttivo e programmatico fu pubblicato per primo. In esso predomina l’ideologia superomistica, non solo nei due componimenti preomiali dedicati a Ulisse e Pan ( dio della foresta ), ma soprattutto nella Laus vitae, il lungo poema di 8400 versi che lo occupa quasi totalmente. La Laus vitae è una celebrazione entusiasta del superuomo e, nel contempo, une esaltazione entusiastica della vita e della poesia.

Elettra, il secondo libro delle Laudi, è dedicato alla celebrazione degli eroi. In esso prevalgono i toni celebrativi e propagandistici. Sostanzialmente enfatico ( costruito senza ispirazione ) e retorico, il libro di Elettra risulta il più datato e nello stesso tempo il più occasionale dei libri delle Laudi.

Alcyone (1903), il terzo libro delle Laudi, costituisce il punto d’arrivo di tutta la produzione lirica dannunziana. Il libro comprende 88 componimenti. Oggetto della raccolta in, primo luogo, la storia di una stagione, quella estiva, dal suo nascere in giugno sui colli di Fiesole e di Settignano tra ulivi e ruscelli, al suo esplodere in luglio e agosto lungo le spiagge del mare Tirreno, al suo lento declinare, colto sempre sulle spiagge della Versilia, sino al suo inevitabile morire nell’autunno prossimo.

La raccolta viene presentata dal poeta come un momento di pausa delle fatiche eroiche celebrate in Elettra e nella Laus vitae.

Gli esiti, naturalmente, sono vari. Talune liriche sono troppo scopertamente incentrate sull’esaltazione del vitalismo dionisiaco ( dioniso = divertimento ). In altri componimenti, e sono la maggior parte, ogni eccesso scompare: la realtà si risolve in una vertiginosa fuga di sensazioni e di intuizioni e i miti non hanno alcun peso letterario o libresco.

Lo stile ha perso il suo turgore e, divenuto essenziale, si nutre della musicalità faticosamente perseguita in tanti anni di ricerche. Il verso libero si sonda leggero e veloce.

    3.Fase notturna

  • D’Annunzio poeta “notturno”

Negli anni che seguirono la pubblicazione delle Laudi (1903), D’Annunzio ripeté a lungo e stancamente le formule e i modi superomistici, accentuandone la componente enfatica e retorica in opere teatrali come La figlia di Iorio (1904). Poi, alle soglie della vecchiaia, quando ormai la sua parabola creativa sembrava in fase calante, egli seppe rinnovare il suo mondo interiore e la sua tecnica: si ripiegò su se stesso e si abbandonò ai ricordi dell’infanzia e della giovinezza, alla malinconia per il fluire senza fine delle cose e al pensiero della morte.

Da questo processo di interiorizzazione, che, a livello espressivo, ripudia i toni oratori ed enfatici delle opere precedenti per avvalersi di una prosa lineare e spontanea nascono, tra il 1912 e il 1935, le opere cosiddette “notturne”, caratterizzate da una sottile liricità, tramata di immagini indefinite e di pensieri sfumati.

Il prodotto più significativo e celebre è il Notturno, pubblicato nel 1921. La genesi dell’opera risulta complessa e legata alle particolari condizioni del poeta. Nel gennaio 1916 l’aereo biposto su cui D’Annunzio volava fu costretto a un ammaraggio. Il poeta batté la tempia destra e riportò una grave ferita. Per curarsi D’Annunzio fu costretto dai medici a restarsene sdraiato a letto con gli occhi bendati nella sua casa di Venezia, amorevolmente assistito dalla figlia Renata. Là trovò un conforto nell’attività dello scrivere. Il libro, che ebbe un grandioso successo di pubblico, si segnala sia per l’intenso autobiografismo dei contenuti sia per la linearità e l’asciuttezza delle strutture formali. Ne deriva una prosa asciutta e secca.

  • La fortuna

Dai lettori e dal pubblico contemporanei D’Annunzio ricevette notevoli consensi, giungendo a essere considerato un punto di riferimento. Scarso fu invece l’apprezzamento dei critici, che ne misero in rilievo la superficialità e ne stigmatizzarono lo stile, giudicandolo enfatico ( gonfio, falso ) e artificioso. Benedetto Croce, in particolare, lo considerò un rappresentante tipico del “decadentismo”.

La critica successiva, invece, avviò una lettura più attenta dell’opera dannunziana e rivalutò soprattutto la produzione lirica e quella “notturna”. Sul piano letterario la critica ha sottolineato l’opera di svecchiamento e di sprovincializzazione compiuta da D’Annunzio sulla cultura letteraria italiana.

IL PENSIERO E LA POETICA

Dotato di una fervida curiosità intellettuale, D’Annunzio assimilò durante la sua intensa vita esperienze culturali e artistiche spesso antitetiche e divergenti, amalgamandole comunque in un sistema a suo modo coerente.

Di indole fortemente sensuale, portato a fondersi nell’evento più che a comprenderlo, fin da giovane sentì l’incapacità della scienza di dare agli uomini la felicità. Da questo atteggiamento ideologico, irrazionalistico e antipositivistico, nasce il suo estetismo, cioè il suo atteggiamento esistenziale volto a esaltare i valori estetici a discapito di tutti gli altri, anche di quelli morali. D’Annunzio è convinto non solo che i sensi siano l’unico mezzo per accostarsi alla realtà, ma anche che solo l’arte può dare forma a un mondo di raffinata bellezza, lontana dalla vita banale di tutti i giorni, un mondo ideale contrapposto alla volgarità della vita materiale.

Dal punto di vista culturale, D’Annunzio assimila le contemporanee esperienze d’Oltralpe (Francia) simbolisti, che risultano più in linea con le sue aspirazioni e così facendo contribuisce a sprovincializzare la letteratura italiana, inserendola nell’alveo di una più generale e ricca cultura europea.

Lo scrittore si accosta così al mito nietzschiano del superuomo, ma trasceglie, non senza fraintendimenti, solo alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, come l’esaltazione del vitalismo (espressione massima della vita; ogni oggetto ha un’anima) e del sensualismo più esasperati.

Lo stesso mito del superuomo sarà anche lo sfondo ideologico della migliore produzione lirica dannunziana, come testimoniano le liriche che racconta Alcyone. Infatti, dalla fusione tra elementi estetizzanti, sensualità e vitalismo scaturisce un particolare atteggiamento del poeta nei confronti della natura, chiamato “panismo” o “naturalismo panico” (considerare la natura come una vasca di piaceri nella quale immergersi).

Da questa ideologia, certamente non sistematica ma sicuramente complessa, deriva una produzione letteraria caratterizzata da un’estrema varietà di opere. D’Annunzio si cimentò in quasi tutti i generi letterari, passando di continuo dalla poesia alla prosa e dedicandosi alla lirica, alla novella, all’articolo giornalistico, al romanzo, al poema, al dramma, alla memoria autobiografica, gli permisero di conseguire risultati cospicui, aprendo la via a molte esperienze artistiche successive.

MOVIMENTO CULTURALE

D’Annunzio appartiene al movimento decadente per le sue gesta clamorose, per un comportamento eccentrico e spregiudicato nei confronti della società, per le sue opere letterarie, considerate da tutti i critici appartenenti al movimento decadente. Per molti anni D’Annunzio era considerato un punto di riferimento per gli artisti e per i giovani del periodo in cui viveva.

IL NOVECENTO: La prima metà del secolo.

I decenni che vanno dall’inizio del secolo alla fine della Seconda guerra mondiale sono anni difficili in tutti i campi. Conoscerli, conoscere gli eventi storici, politici, sociali ed economici e conoscere le manifestazioni culturali, vuole dire conoscere il passato prossimo della vita di oggi.

  • Gli intellettuali nella bufera: tra impegno e disimpegno

Dal punto di vista culturale, L’età che si estende dall’inizio del secolo alla fine della Seconda guerra mondiale è caratterizzata da correnti di pensiero e da tendenze speculative che sembrano riflettere le tensioni che agitano il panorama politico e sociale dell'epoca.

Il Positivismo ottocentesco entra in crisi, poiché tramonta per sempre l'ingenua fiducia nella possibilità di organizzare la conoscenza in base a un unico principio razionale, la fiducia cioè che il metodo scientifico tradizionale sia in grado di spiegare tutto il reale. La convinzione, poi, che non esistono valori o verità assolute, ma una pluralità di prospettive e di punti di vista, si traduce in un atteggiamento relativistico sia sul piano gneoseologico (filosofico) sia sul piano etico (morale). Il pensiero scientifico avvia, infatti, un intenso dibattito critico sui fondamenti della conoscenza, sui metodi di indagine e sui codici o linguaggi da usare, che produce nuove e rivoluzionarie teorie: dalla "teoria della relatività" di Einstein alla "teoria dei quanti" di Planck, dall'inizio degli studi sull'atomo allo sviluppo dell'"insiemistica". Le scienze sociali o umane, economia, sociologia, antropologia, psicologia, si assumono il compito di descrivere e analizzare "scientificamente" i comportamenti dell'uomo come individuo e come essere sociale, compito che da secoli sembrava riservato alla letteratura, all'arte o alla filosofia morale. La psicoanalisi, in particolare, uscita dalla fase sperimentale, fornisce nuovi strumenti di analisi delle pulsioni profonde e inconsce che si agitano nel fondo della psiche umana e che determinano gli stessi comportamenti dell'uomo.

Dal punto di vista filosofico, il movimento di pensiero che più lucidamente e più dolorosamente esprime la negatività del vivere dell'uomo europeo in questo periodo è certamente l'Esistenzialismo, con cui diede avvio il tedesco Martin Heidegger (1889 - 1976) e che ebbe larghi e diversi sviluppi per tutto il Novecento, soprattutto in Germania e in Francia.

    Vera e propria "filosofia della crisi", cioè del vuoto di certezze che contraddistingue l'epoca, l'Esistenzialismo si contrappone tanto all'Idealismo quanto al Razionalismo e richiama l'attenzione sul valore specifico e insopprimibile dell'esistenza individuale dell'uomo e sul carattere problematico e precario di essa. Secondo Heidegger, l'uomo, realtà singola e individuale, è "gettato" nel mondo e condannato a vivere una vita in cui ogni suo sforzo è destinato a fallire e quindi a una vita di "lucida angoscia". Più tardi, però, i temi più negativi della filosofia esistenzialista furono in parte superati. Così, il francese Jean-Paul Sartre (1905-80), dopo aver individuato come tipica della condizione umana la nausea di vivere, pervenne, all'indomani della Seconda guerra mondiale, a una concezione più "positiva", facendo dell'Esistenzialismo una dottrina dell'azione e dell'impegno, volta alla denuncia di ogni forma di oppressione e al recupero dei valori umani.

In quegli anni difficili trovò una continuazione e un fecondo sviluppo anche il filone razionalistico, quello, per meglio dire, volto alla fondazione di una nuova razionalità, più rigorosa e scientifica, in una linea di tendenza che si propone di studiare i metodi e i limiti propri di ciascuna scienza. In particolare, in questa direzione, si impose la necessità di analizzare e precisare i limiti e le pertinenze del linguaggio rispetto alle varie sfere del sapere e di rimettere in discussione la logica per individuarne le reali capacità di collegamento dei fenomeni, soprattutto in conseguenza dei progressi compiuti dalla matematica e della fisica.

    Questo indirizzo filosofico, che prende il nome di Empiorismo logico o di Neopositivismo, in quanto mantiene al centro delle indagini la scienza e unisce a un’esigenza di empirismo totale una rivalutazione della logica formale, si affermò in Austria nel 1930, nell’ambito del cosiddetto “Circolo di Vienna”. I suoi massimi esponenti, tra cui Ludwig Wittgenstein (1889 - 1951) e Rudolf Carnap (1891 - 1970), furono costretti a lasciare il loro paese all’indomani dell’occupazione nazista e si trasferirono negli Stati Uniti, dove innestarono il Neopositivismo sulle tendenze pragmatistiche (viene privilegiata l’azione e non il pensiero) locali, influenzando profondamente il pensiero americano.

  • La letteratura come espressione di irrequietudine e di fuga dalla realtà

[ la letteratura del Novecento rappresenta il venirmeno delle certezze in cui si era sempre creduto]

La letteratura del Novecento è caratterizzata dalla esigenza di riprodurre in forma artistica la “coscienza della crisi” dell’uomo moderno, combattuto tra la fine delle certezze del passato e la percezione della precarietà del presente.

Caratteristiche della letteratura del Novecento sono:

1)   la consapevolezza del mondo dell’arte e, quindi, la massima disponibilità alla sperimentazione formale da parte dell’artista;

2)la complessità della condizione degli intellettuali e del ruolo che essi assumono rispetto al mondo e alla società in cui vivono: gli scrittori oscillano tra atteggiamenti diversi, volontà di intervento, chiusura nel mondo dell’arte;

3)la nuova dimensione internazionale e il nuovo rapporto con il pubblico: l’internazionalizzazione delle comunicazioni di massa, la rapida circolazione delle esperienze letterarie a livello internazionale.

La letteratura del primo Novecento risulta animata da un profondo senso di soddisfazione e di ribellione nei confronti del vecchio mondo, che ora si esprime in una volontà di protesta più o meno rumorosa e ora invece porta al ripiegamento degli artisti su se stessi e a una vera e propria fuga nel privato. Essa rivela soprattutto il disagio degli intellettuali e degli scrittori, che si sentono incapaci di trovare un barlume di razionalità nella lunga sequenza di violenze e di soprusi che caratterizzano l’epoca.

In Italia come in Europa, l’esasperazione più cospicua di questo senso di disagio e di volontà di protesta sul piano culturale è certamente costituita dalle cosiddette “avanguardie storiche”; Futurismo, Espressionismo e Surrealismo. Su un piano più strettamente letterario, l’epoca, che conosce l’inesorabile e definitiva disgregazione degli ideali ottocenteschi già corrosi dagli intellettuali decadenti e misura in tutta la sua grandezza e complessità la gravità della crisi affrontando ben due guerre mondiali separate da un ventennio di truci dittature, trova le sue voci più significative nelle opere di singoli artisti che, contemporaneamente alle avanguardie ma su cammini del tutto personali, approfondiscono il discorso intorno alla precarietà dell’esistenza dell’uomo moderno.

  • L’inquieto panorama internazionale

A livello europeo, il panorama letterario è molto ricco e allinea nel breve spazio di un quarantennio alcune tra le espressioni più alte della letteratura di tutti tempi. Queste esperienze letterarie, spesso lontane tra loro, sono caratterizzate da una notevole originalità e individualità, in quanto sono il frutto di un lavoro a volte isolato e solitario. Ciò nonostante questi intellettuali possono essere accomunati tra di loro perché tutti, anche se in forme e in modi diversi, testimoniando la “crisi” dell’uomo moderno.

  • APPUNTI:

IL NOVECENTO: Il Novecento è caratterizzato da due atteggiamenti fondamentali da parte degli intellettuali: L’inquietudine e il disagio esistenziale. Gli intellettuali, soprattutto quelli dell’inizio secolo (1920 - 45) sentono una profonda inquietudine e insoddisfazione, e questo perché ormai non esistono più verità assolute in cui credere.

Si diffonde per esempio la teoria della relatività di Einstein, la psicoanalisi e l’esistenzialismo, cioè la filosofia della crisi. Tutte queste nuove teorie creano un atteggiamento di fuga dalla realtà, un chiudersi in se stessi, un guardarsi dentro, per scoprire il proprio interiore (propri pensieri). Questo atteggiamento alla lunga crea inquietudine profonda, angoscia, o come dissero gli autori del tempo “MALE DI VIVERE” (disagio psicologico).

L’ESISTENZIALISMO: L’Esistenzialismo è una corrente filosofica che si diffonde all’inizio del Novecento influenzando il modo di comportarsi delle persone per tutto il secolo. Nasce in Germania e in Francia grazie al filosofo tedesco Heidegger. L’esistenzialismo esprime il senso della crisi dei valori del uomo moderno, la coscienza che non esistono più valori assoluti, l’angoscia esistenziale, il non sapere cosa fare e come comportarsi, il vuoto di certezze che caratterizza il Novecento. La vita viene vissuta in maniera problematica, il singolo si sente condannato ad essere perennemente scontento, angosciato. La vita viene definita il male di vivere, la nausea di vivere (la vita viene vissuta come qualcosa di negativo, da sopportare, come una prigione). Il singolo non riesce a ribellarsi a questa cappa di negatività. Per spiegare questo strano atteggiamento, Esistenzialismo, bisogna ricordare che queste idee nacquero in Germania nel periodo tra le due guerre (durante il nazismo).

  • THOMAS MANN: a 26 anni pubblicò il romanzo I Buddenbrook (1901), che narra la decadenza di una dinastia di Lubecca e che gli diede gran fama. Nel 1929 ottenne il premio Nobel per la letteratura e quando il nazismo prese piede in Germania (1933) abbandonò il suo paese per andare a vivere esule prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Narratore d'ampio respiro e di profonde capacità analitiche, legato alla tradizione del grande romanzo realista dell’Ottocento, Mann riassume nella sua opera le richieste più vitali della grande cultura borghese nel momento in cui la borghesia viveva uno dei periodi più cupi della sua storia.
  • ROBERT MUSIL (è legato a Svevo): Anche l’Austriaco Robert Musil rappresentò nei suoi romanzi la crisi sociale e spirituale che travagliò l’Europa e la sua borghesia. Il capolavoro di Musil è il romanzo incompiuto l’uomo senza qualità (1930-42) nel quale Musil indaga il malessere di una generazione borghese oscillante tra spinte mistiche, forme di vitalismo irrazionalistico e rivolte individualistiche.
  • MARCEL PROUST [Marsèl Prust]: (inventa la narrativa del Novecento: flash - back). Il senso doloroso della precarietà e relatività della condizione umana nell’età della crisi della società borghese era oggetto dell’acuta analisi di un altro grande scrittore, il francese Marcel Proust. Nacque a Parigi nel 1871, da una famiglia benestante. Delicato e cagionevole di salute, fin da bambino soffrì di violenti attacchi di asma; trascorse lunghi periodi nella casa di campagna di Illiers e, poi, sulla costa normanna. Cominciò a frequentare gli ambienti mondani (di divertimento), dove venne in contatto con i più bei nomi dell’aristocrazia e coi più famosi intellettuali del tempo. Nel 1905 perdette la madre, che adorava, e da quel momento prese a isolarsi. L’asma che lo travagliava si fece cronica e gli procurò crisi sempre più gravi e, da ultimo, si chiuse in una stanza che aveva fatto foderare di sughero per proteggersi do ogni rumore. Là, assistito da una fedele governante, cominciò a comporre l’opera della sua vita, il ciclo Alla ricerca del tempo perduto, che sarebbe stato costituito da sette romanzi a cui lavorò fino agli ultimi giorni di vita. Il primo libro uscì nel 1913: era La strada di Swann, che l’editore Gallimard aveva rifiutato e che oggi viene considerato uno dei capisaldi della letteratura moderna. Gallimard ritornò poi sulla sua decisione e dopo la guerra divenne l’editore di Proust: uscirono così All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), I Guermantes (1921), Sadoma e Gomorra (1922). Nel 1922 Proust morì, a cinquantun anni, ma la pubblicazione della Ricerca continuò con La prigioniera (1923), La fuggitiva (1925) e Il tempo ritrovato (1927). Con la sua opera Proust superò i modi narrativi del Realismo e del Naturalismo, che si basavano su una narrazione ordinata e oggettiva, per produrre sulla pagina, non la realtà oggettiva ma il flusso della realtà come è registrata nella memoria. Alla ricerca del tempo perduto ricostruiva infatti la vita dell’io narrante attraverso i fatti apparentemente insignificanti depositati nella memoria, perché solo il recupero memoriale porta a sottrarre la propria esistenza all’ombra del passato che tutto inghiotte.
  • JAMES JOYCE: se l’influenza di Proust è stata decisiva per i narratori a lui posteriori, non meno importante per la storia della letteratura del Novecento è stata anche l’influenza di James Joyce, lo scrittore irlandese che rivoluzionò la tecnica narrativa tradizionale. A Trieste, che allora faceva parte dell'Impero austro - ungarico, visse quasi continuativamente dal 1905 al 1915, dando lezioni di inglese e legandosi d'amicizia con lo scrittore Italo Svevo. Personalità singolare e complessa, anche per i rapporti che lo legarono alle diverse culture europee, Joyce ha rivoluzionato radicalmente le tecniche e i modi della narrativa occidentale. Joyce rappresenta la realtà esasperando l'analisi introspettiva dell'io registrando in un disordine stilistico volutamente incomprensibile il libero "flusso" dei ricordi, delle emozioni e dei sentimenti, sulla base di una tecnica estremamente suggestiva, anche se non sempre apprezzabile in termini chiari, in cui è possibile individuare l'influenza di disperate correnti culturali, dal naturalismo alla psicoanalisi, allo sperimentalismo più acceso.

 

  • Italo Svevo (Ettore Schmitz) e la sconfitta della volontà.

Italo Svevo, uno scrittore di livello europeo la cui opera rimase e lungo misconosciuta prima che le venisse riconosciuta l'importanza che merita.

Italo Svevo soffrì, come molti suoi contemporanei, la crisi di valori che caratterizzò il suo tempo e incentrò la sua riflessione sull'uomo borghese che di tale crisi è nel contempo la causa e la vittima. Fornito di una vasta cultura di respiro europeo, Svevo segnò il trapasso, nell'ambito della letteratura italiana, dai modi del Verismo a quelli, del tutto nuovi, di una narrazione di tipo analitico: eliminò, infatti, la figura "classica" del personaggio, abolì la scansione regolare degli eventi e ridusse ai minimi termini i fatti, per analizzare l'interiorità dell'uomo.

LA VITA

Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861 da padre ebreo tedesco, appartenente alla ricca borghesia imprenditoriale della città, e da madre italiana. Compiuti gli studi liceali in Baviera, nel 1878 tornò a Trieste per completare la sua formazione commerciale, ma il fallimento dell'azienda paterna lo costrinse, nel 1880, a impiegarsi presso la banca dove rimase per un ventennio.

I suoi interessi letterari si concretarono in quegli anni nella pubblicazione di due romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898), ma il disinteresse con cui i due libri furono accolti dalla critica addolorò profondamente Svevo. Solo a distanza di molti anni, dopo essersi sposato ed essere entrato a far parte della ditta del suocero e, soprattutto, dopo aver stretto rapporti di amicizia con James Joyce, Svevo tornò a scrivere e, nel 1923, pubblicò La coscienza di Zeno. Il romanzo ebbe un vasto successo, grazie ai giudizi positivi di Joyce, dei critici francesi Larbaud e Crémieux, e, in Italia, di Eugenio Montale; però, il periodo di esaltante successo fu breve: Svevo morì nel 1928 per un incidente automobilistico.

LA COSCIENZA DELLA CRISI E LA SCONFITTA DELLA VOLONTA'

A causa della posizione della sua città che costituiva una sorta di punto d'incontro tra le culture tedesca, italiana, slava de ebraica, Svevo poté cogliere in anticipo i più moderni stimoli culturali e scientifici provenienti da tutta Europa. I suoi orizzonti letterari furono dall'inizio europei: giovanissimo, studiò i filosofi tedeschi Nietzsche e Schopenchauer e approfondì Darwin. Decisive per la sua formazione furono poi la lettura dell'opera di Sigmund Freud e la scoperta della psicoanalisi. Non meno importante per la sua formazione, e soprattutto per l'acquisizione di nuove tecniche narrative, fu l'amicizia che Svevo strinse con James Joyce: fu proprio Joyce che lo incoraggiò a ritornare alla letteratura dopo l'insuccesso dei primi due romanzi e che contribuì alla sua scoperta critica.

L'opera narrativa di Svevo è una sorta di inchiesta, autobiografica, sul malessere dell'uomo della società borghese, sul suo desiderio di successo e sulle sua incapacità di raggiungerli. Smarrito e solitario in un mondo che sente estraneo e ostile, l'individuo vive in una dimensione di crisi interiore, travolto dalla propria inettitudine (non crede nelle proprie possibilità, non voglia di agire, non volontà). In lui, poi, la sconfitta della volontà è resa ancora più evidente dai continui alibi e dalle continue giustificazioni con cui egli è portato a nascondere anche a se stesso la propria inettitudine e la propria infelicità.

LE TECNICHE NARRATIVE

Partito da forme e strutture ancora veriste (nel primo romanzo) Italo Svevo avvia un progressivo processo di distruzione delle tecniche e dei moduli del romanzo tradizionale. Lo scrittore riduce progressivamente l'importanza della trama, per concentrare sempre più la sua attenzione sull'interiorità dei singoli personaggi: la realtà non viene più presentata oggettivamente, ma soggettivamente, così come appare agli occhi del personaggio narrante. Il romanzo non è più rivolto alla rappresentazione oggettiva dei fatti, ma alla ricerca e all'analisi degli stati d'animo più reconditi (nascosti) dell'uomo.

Non meno rivoluzionario è lo scardinamento delle categorie tradizionali del tempo, che Svevo opera soprattutto nella Coscienza di Zeno. Originali i romanzi di Svevo risultano anche dal punto di vista stilistico - espressivo, tanto che all'epoca egli è stato accusato di "scrivere male". Il suo stile personale e antiletterario era qualcosa di insolito nel panorama culturale italiano.

In realtà, lo stile di Svevo è qualcosa di molto particolare. Scarno e sobrio, si avvale di una sintassi elementare, costituita da frasi brevi e semplici e caratterizzata dal monologo interiore. Il lessico è essenziale e dimesso (semplice e quotidiano), avaro di aggettivi. Frequente è in Svevo anche l'uso, a scopo realistico, di termini "tecnici" medico - scientifici e bancario - commerciali, di dialettismi triestini e di calchi dal tedesco. La fusione di questi elementi dà vita a una sorta di "plurilinguismo" sveviano. Lo stile sveviano è senz'altro antiletterario e antiretorico; rispecchia il mondo "antieroico" di Svevo.

Le soluzioni narrative e formali avvicinano Svevo ad altri grandi autori del suo tempo, in particolare a Proust per il recupero della memoria e lo scardinamento delle categorie temporali tradizionali, e Joyce per la tecnica del monologo interiore, a Freud per l'analisi psicoanalitica.

LE OPERE

  • Una vita. Nel 1892 Svevo pubblicò, a proprie spese, il suo primo romanzo, ma l'opera fu un insuccesso.
  • Alfonso Nitti trova un posto di lavoro in una banca, ma le sue aspirazioni di successo letterario naufragano. Una relazione sentimentale con Annetta, la figlia del proprietario della banca, pare aprirgli tutte le porte, ma egli sembra incapace di sfruttare le occasioni. Infine tutto precipita e Alfonso si suicida.

Una Vita è un romanzo di impianto verista, soprattutto per lo studio accurato che Svevo vi conduce degli ambienti sociali. Tuttavia l'interesse dello scrittore appare focalizzato, più che sulle vicende, sul protagonista e sulla sua complessa interiorità. Alfonso Nitti non viene sconfitto dall'ambiente esterno (come i "vinti" verghiani), ma da una malattia interiore, l'inettitudine, cioè dall'incapacità di vivere in modo ostile e alienante.

  • Senilità. Anche il secondo romanzo di Italo Svevo, pubblicato a spese dell'autore nel 1898, fu un insuccesso.
  • Il protagonista, il trentacinquenne impiegato Emilio Brentani, autore di un romanzo ormai dimenticato, vive un'esistenza grigia, frustrata nelle aspirazioni letterarie. Vive con la sorella Amalia, come lui sfiorita e invecchiata anzitempo. La monotonia della sua vita viene improvvisamente interrotta dall’incontro con Angiolina, una ragazza spregiudicata ma vitale. Emilio vorrebbe avere con lei un’avventura senza importanza, ma ne resta completamente coinvolto. La ragazza lo abbandona poi per un suo amico scultore, del quale anche Amalia s’innamora lasciandosi andare all’alcolismo fino a morire. Emilio ritorna alla sua vita mondana, inutile e annoiata, di prima.

In Senilità il processo di scardinamento degli schemi veristi tradizionali risulta più maturo. In esso, infatti, alla narrazione dei fatti oggettivi si sostituisce la risonanza che i fatti hanno nel mondo interiore del protagonista.

  • La coscienza di Zeno. Il terzo romanzo di Svevo vide la luce nel 1923 e valse finalmente all’autore la fama tanto a lungo inseguita.
  • Il romanzo narra la storia dell’autoanalisi di Zeno Cosini, un agiato commerciante triestino, che decide di ripercorrere per iscritto le tappe fondamentali della propria esistenza, alla ricerca delle cause della nevrosi. La narrazione, diversamente dal romanzo tradizionale, è condotta sui diversi piani temporali del passato (la rievocazione degli avvenimenti) e del presente (i commenti autoironici) e si articola in sei nuclei narrativi.

    1).  Il vizio del fumo e il fallimento dei continui tentativi per liberarsene, emblema (simbolo) del crollo della volontà;

    2).  La rievocazione dei difficili rapporti con il padre (è questo il capitolo in cui appare più evidente la matrice freudiana);

    3).  La storia del matrimonio di Zeno, segnata dall’abdicazione della volontà per soggiacere alle leggi del caso: pur innamorato di Ada, la più bella delle figlie del ricco commerciante Malfenti, Zeno finisce per sposare la brutta e strabica (non vede bene, ha gli occhi incrociati) Augusta;

    4).  La vicenda del tradimento coniugale con la giovane Carla;

    5).  L’associazione commerciale con il cognato Guido, per il quale Zeno nutre un inconfessabile odio, che si conclude tragicamente con il dissesto economico di Guido e il suo suicidio;

    6).  La sfiducia di Zeno nella psicoanalisi e la dichiarazione di aver trovato la guarigione in una frenetica, spregiudicata e fortunata attività commerciale. In realtà la “salute” di Zeno coincide con la scoperta della “malattia” generale della società moderna, “inquinata alle radici”, per la quale l’unica possibilità di rinnovamento è una conflagurazione (distruzione, cancellazione) universale.

La coscienza di Zeno è un romanzo estremamente originale, in quanto si presenta come un’opera di rottura totale rispetto alla tradizione narrativa del realismo ottocentesco.

Decisivi per il romanzo furono la letteratura e l’approfondimento della psicoanalisi di Sigmund Freud. Zeno Cosini racconta, nella forma della narrazione - introspezione, non la sua “storia” ma la sua “malattia”, vale a dire non la “realtà” ma il “suo rapporto con la realtà”, dall’interno di quel che affiora nella sua coscienza attraverso il metodo psicoanalitico. Nasce così un tono ironico del romanzo.

LA FORTUNA

L’attività letteraria di Svevo passò del tutto inosservata per oltre trent’anni, sia per la sostanziale estraneità di Trieste rispetto alla cultura alla cultura italiana del tempo, sia per la profonda diversità delle tematiche sveviane rispetto ai giusti imperanti in quegli anni, sia per le particolari caratteristiche dello stile dello scrittore, così concreto e antiletterario.

Solo negli anni Venti, intellettuali come Joyce e Montale e critici come Larbaud e Crémieux riuscirono a richiamare l’attenzione sull’opera di Italo Svevo e sulla sua eccezionalità. Nasceva così “il caso Svevo”: accettato a fatica negli anni Trenta da tanta critica che non gli poteva perdonare lo stile poco elegante, Svevo venne amato dal ristretto dei giovani della rivista “Solaria” e infine scoperto dal pubblico degli anni Cinquanta, quando la “coscienza della crisi” si diffuse a livello di massa dopo la tragica esperienza della seconda guerra mondiale.

Oggi Svevo è considerato dalla critica uno degli autori più significativi del panorama letterario europeo del primo Novecento sia per la sua lucida analisi della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo, sia per la sua opera di rinnovamento delle strutture e delle tecniche narrative tradizionali.

Italo Svevo (Ettore Schmitz)

Nasce a Trieste nel 1861, quando la città è ancora austriaca. Il padre è di origine tedesca ed è ebreo, inoltre è un imprenditore industriale benestante. Compie gli studi in Germania (Baviera) e rientrando a Trieste frequenta un istituto commerciale. A causa del fallimento del padre è costretto a lasciare gli studi e ad impegnarsi in banca.

Nel frattempo per hobby scrive e pubblica, a sue spese, due romanzi: Una vita (1892), e Senilità (1898). I due romanzi non hanno alcun successo e lui deluso smette di scrivere, e nel frattempo sposa la figlia (Livia Veneziani) di un grosso industriale triestino, anch’egli ebreo, la quale in maniera molto bonaria gli consiglia di lasciare la letteratura, per impegnarsi in maniera più pratica nella ditta del padre: un’industria di vernici militari (per sottomarini). Così Svevo lascia la banca e comincia a viaggiare come rappresentante per la ditta dello suocero.

Nel 1915 scoppia la guerra. La famiglia abbandona Trieste, ma lui resta in città. Non potendo interessarsi alla fabbrica, che nel frattempo viene requisita dagli austriaci, per passare il tempo ritorna ascrivere, componendo La coscienza di Zeno, e pubblicandola nel 1923. Svevo ne manda una copia a Joyce a Parigi e questi la fa recensire in maniera positiva da alcuni suoi amici su una rivista francese, e così il romanzo diventa famoso prima all’estero e poi in Italia.

Qualche anno dopo nel 1925, Eurgenio Montale a sua volta ne parla bene in Italia in un articolo e così Svevo diventa famoso, ma per poco tempo perché nel 1928 muore.

  • La formazione

Svevo è un autore diversissimo da tutti quelli che lo hanno preceduto. Si forma a Trieste che a quei tempi era città austriaca, punto d’incontro di varie culture: italiana, tedesca, ebrea e slava. Questo insieme di culture viene chiamato “cultura mitteleuropea”. Svevo quindi si forma più su autori europei che italiani. Parla meglio il tedesco che l’italiano.

Gli autori che hanno influenzato maggiormente la sua formazione sono:

    1)il filosofo Schopenhauer (tedesco) di primo Ottocento. Schopenhauer parlava della teoria della non volontà dell’individuo;

    2)Freud: fondatore della psicoanalisi con la sua scoperta dell’inconscio (autore austriaco);

    3)Joice: scrittore inglese, inventore della tecnica narrativa del flusso di coscienza.

    4)Altro autore che lo influenzò fu l’inglese Darwin con la sua teoria secondo cui la vita viene considerata una continua lotta per la sopravvivenza tra forti e deboli.

  • Schopenhauer è l’autore che lo influenza di più. Non ha potuto conoscerlo, ma ne ha letto le opere. Viene colpito dalla sua idea della non volontà. Per Schopenhouer ogni individuo nella lotta per la vita preferisce non agire per non soffrire. La vita, inoltre non è regolata da nessuna legge universale, quindi maglio non imporsi con la propria volontà ad un desiderio, che comunque è incontrollabile. Esiste una volontà superiore e quindi il destino è stato già deciso. È inutile volere una cosa se non la si può controllare ed ottenere. La singola volontà non può contrapporsi ad una volontà assoluta, tanto vale non agire e non decidere. Tanto vale non agire e seguire l'influire della vita così come viene.
  • L'altro autore che lo influenza profondamente è Freud. Lo conosce profondamente perché vi aveva portato il cognato per alcune sedute e ne resta affascinato dalla scoperta dell'inconscio, tanto da utilizzarne alcuni meccanismi nella stesura dell'ultimo romanzo La coscienza di Zeno.
  • Tecniche narrative

Svevo è importante perché ha innovato le tecniche narrative del romanzo. Nelle sue opere non esistono più trame ne rappresentazioni oggettive dei fatti. Egli, infatti, si concentra a descrivere l'interiorità dei singoli personaggi che viene analizzata in tutti i suoi aspetti più nascosti. I fatti vengono raccontati in forma di flash - back dal personaggio principale e in prima persona. Siamo quindi di fronte ad un "io narrante". Gli avvenimenti vengono raccontati non secondo un ordine cronologico oggettivo, tipico dei romanzi dell'Ottocento, ma secondo come ricordati in maniera personale del personaggio.

-     Lo stile

Lo stile di Svevo è fondamentalmente antiletterario. Egli, infatti, usa una sintassi elementare costituita da frasi brevi e semplici e caratterizzata dal monologo interiore.

Il lessico è essenziale, privo di aggettivi e caratterizzato da termini spesso medico - scientifici o bancario - commerciali, che danno un forte senso realistico. Queste caratteristiche lo avvicinano ai grandi autori europei come Proust per il recupero della memoria e a Joyice per la tecnica del monologo interiore.

  • Le opere

Svevo ha scritto tre romanzi: Una vita (1892), Senilità (1898) e La coscienza di Zeno (1923). I primi due romanzi non ebbero alcun successo, il terzo lo fecero diventare famoso prima in Europa e successivamente in Italia.

  • La poetica (la visione della vita; cosa ne pensa della vita e delle cose)

La poetica di Svevo è la poetica dell'inetto (inettitudine, non volontà). Svevo nei suoi romanzi non ci presenta degli eroi, e in questo è completamente opposto di D'Annunzio. Egli descrive, infatti, degli antieroi, delle persone comuni, persone con tante incertezze. Il personaggio tipico sveviano è, infatti, l'inetto, colui che non ha volontà di ferro, uno che si lascia vivere, uno che preferisce, nel dubbio, non decidere, uno che lascia decidere al caso. Esteriormente sembra un atteggiamento di rinuncia alla lotta per la vita.

_  Si veda ad esempio la fine che fa Alfonso Nitti nel primo romanzo Una vita (aveva la possibilità di sposare la figlia del principale, per di più innamorata di lui, e vi rinuncia con delle scuse per non prendersi le sue responsabilità)

_  Un altro inetto è il personaggio del secondo romanzo Emiglio Brentani (non è riuscito ad avere successo nel campo artistico, vorrebbe riscattarsi a livello sentimentale, ma non riesce a padroneggiare la situazione e alla fine rinuncia preferendo lasciarsi vivere come un anziano, piuttosto che lottare)

_  Un inetto diverso è invece il personaggio dell'ultimo romanzo La coscienza di Zeno, Zeno Cosini (è uno che non si impegna, che non ha volontà, ma perché non la vuole avere! È la fotografia esatta dell'uomo comune, [in un primo momento questo atteggiamento era da perdente, guerra, ma dopo risulta vincente per i casi della vita, imprevedibili]. Si è reso conto che non ha senso fare gli eroi in una vita in cui tutto è dominato dal caso, in cui non esistono più ne certezze ne leggi di causa - effetto. A questo punto meglio guardare, e guardare con ironia la vita che scorre davanti a te; l'ironia è infatti la caratteristica di questo romanzo.

Una seconda caratteristica del romanzo la coscienza di Zeno è il fatto che Svevo racconta i fatti in prima persona, è il personaggio principale che racconta, anzi racconta la propria vita. Siamo cioè di fronte non più ad un romanzo tradizionale con personaggi che agiscono gli uni contro gli altri, qui il personaggio principale invece ci presenta un esame introspettivo della sua coscienza. I fatti cioè sono più ricordati che narrati. Si è di fronte ad uno scavo interiore, ad un'analisi del personaggio principale, analisi molto spesso influenzata dai metodi di Freud. Zeno Cosoni è quindi un inetto sì, ma ironico, che guarda cioè la vita con ironia, un inetto che alla fine nella lotta per la vita risulta per puro caso vincente: fuma e non muore, sposa la più brutta, ma risulta un'ottima moglie, ha l'amante e nessuno se ne accorge, salva l'impresa commerciale del cognato, vincendo in borsa.

L'ultima caratteristica del romanzo riguarda lo stile. Svevo scrive influenzato dallo stile di Joyce; il romanzo si presenta, infatti, come un lungo monologo interiore. Il monologo interiore è una tecnica narrativa particolare: è quando il personaggio principale racconta in prima persona i fatti della sua vita ricordandoli così come gli vengono in mente. Non siamo più di fronte ad un racconto dall’inizio alla fine, ma degli argomenti particolari, dei temi; il fumo, la morte del padre, li matrimonio, l’amante, l’impresa commerciale, la psicoanalisi.

Brano per l’esame:

L’ultima sigaretta

Appartiene al primo capitolo del romanzo; è un testo molto ironico. In questo testo si può notare il carattere indeciso e debole del personaggio, il quale per colpa della sua non - volontà non riesce a realizzare l’obiettivo preposto, smettere di fumare.

Lo stile è semplice, scarno e quotidiano;

la sintassi è breve, frasi corte e semplici;

lessico moderno commerciale - bancario - medico.

 

 

  • Luigi Pirandello (e il dramma di essere uomo)

Pirandello descrive la solitudine, l’alienazione (ripetizione ossessiva delle cose), la perdita d’identità dell’uomo moderno. Anche Pirandello, come Svevo, ha una cultura tedesca.

  • Vita.

Nasce ad Agrigento nel 1867. Si forma all’università di Palermo, poi a Roma, poi a Bonn (studia lettere). Torna in Italia e si stabilisce a Roma, mentre grazie a Luigi Capuana (Luigi Capuana è il secondo autore Verista del tempo, dopo Verga; Verga era a Milano, Capuana era a Roma) entra a far parte dei circoli letterari di Roma. Si sposa nel 1894 con la figlia del socio del padre (imprenditori minerari). Appartiene alla borghesia imprenditoriale, scrive per il piacere di farlo.

Per un incidente in miniera perde le sue rendite patrimoniali. Pirandello supera la crisi trovandosi un lavoro stabile come professore universitario a Roma; la moglie non supera il dramma, entra in crisi e comincia ad avere problemi psichici, accusando proprio marito di tradirla con un’amante.

Comincia a scrivere, prima novelle e poi i romanzi. Dopo la guerra si dedicò, invece, ad opere teatrali, diventando famoso a livello internazionale, girò, infatti, il mondo, andando anche in America, con la sua compagnia teatrale. Ebbe il premio Nobel per la letteratura nel 1934. Morì nel 1936 a Roma.

  • Pensiero

Pirandello esprime la crisi dei valori, tipica del Novecento. Per lui non esiste nessuna verità, nessuna realtà. Tutto è un continuo divenire, un continuo mutare, anche l'uomo non è mai uguale a se stesso, anzi per Pirandello non esiste un uomo sempre uguale, per lui noi siamo delle personalità scisse, cioè diverse, perché ci comportiamo in maniera diversa a seconda delle persone che incontriamo. Ognuno di noi è un attore che recita la parte che la società, cioè gli altri, c’impone di recitare, una parte mai uguale a quelle precedenti. Fino a quando questa parte ci piace tutto è normale, quando invece il singolo si sente interiormente troppo diverso dalla parte (maschera) che la società c’impone, scoppia, impazzisce; combina azioni che gli altri non accettano, cioè combina azioni paradossali (assurde, cose dell'altro mondo; paradosso: ragionamento logico che parte da un presupposto falso). Altra possibilità che ha è la rassegnazione. La vita è come un fiume che scorre, mai uguale a se stesso, sempre in continuo mutamento. La vita è un continuo cambiamento, le cose che ci capitano ci cambiano profondamente. Per Pirandello, quindi, esiste l'apparenza (come ti comporti con gli altri) e la realtà (come sei interiormente), la maschera, quello che gli altri vogliono da te, e il proprio mondo interiore. Quando la realtà, che è in continuo mutamento, non coincide più con la maschera esteriore, cioè il ruolo sociale che gli altri t’impongono, l'individuo va in crisi e agisce in maniera assurda, paradossale, incomprensibile, salvo poi rassegnarsi e continuare a fare quello che prima si faceva.

Conseguenze: la vita è piena di azioni assurde e paradossali, di azioni cioè che gli altri non capiscono, perché vorrebbero che il singolo si comportasse sempre alla stessa maniera. Ognuno di noi quindi è in questa società solo e incompreso. Siamo soli, incompresi e alienati (non felici di ciò che la società vuole da noi; alienazione: lo stato di disagio di cui soffrirebbe l'uomo delle moderne società industriali)

  • La poetica

Pirandello enunciò queste idee in uno saggio scritto nel 1908, intitolato "L'umorismo". Secondo lui esistono due fasi quando noi osserviamo un comportamento stravagante fatto da un’altra persona. All’inizio ci mettiamo a ridere (“avvertimento del contrario”, mi accorgo che la persona si comporta in maniera contraria, in maniera imprevista), successivamente, se mi metto a riflettere sul perché quella persona si è comportata in quella maniera assurda, ne provo pietà e compassione, e allora sento quello che Pirandello chiama “sentimento del contrario”.

  • Luigi Pirandello e il dramma di essere uomo
  • Ricerca

Lucido e profondo interprete della crisi dell'uomo contemporaneo angosciato dalla solitudine e dall'alienazione (lo stato di disagio di cui soffrirebbe l'uomo delle moderne società industriali), Luigi Pirandello, nelle sue opere, mette a nudo il vuoto e la falsità di un mondo fondato più su ciò che appare che su ciò che è e avvia una spasmodica (spasmo: tormento nell'animo) ricerca della verità fino ad arrivare a concludere che non esiste una sola verità, ma ne esistono tante quante sono le situazioni e gli individui.

La novità della ricerca e della riflessione pirandelliana si traduce in uno scardinamento dei moduli e delle forme tradizionali, sia in campo narrativo sia in campo teatrale, in linea con analoghe esperienze coeve (contemporanee).

LA VITA

Luigi Pirandello nacque a Girgenti, poi Agrigento, il 28 giugno del 1867. Dopo aver frequentato le Università di Palermo e di Roma, nel 1889, in seguito a contrasti con il preside, si trasferì a Bonn, dove si laureò in lettere nel 1891. Tornato in Italia, si stabilì a Roma, dove, grazie a Luigi Capuana, entrò in contatto con gli ambienti culturali e avviò la sua attività letteraria pubblicando i primi lavori letterari e collaborando a giornali e riviste.

Il 1897 segnò per Pirandello l'inizio di una profonda crisi familiare, a causa del fallimento della miniera del padre, che rovinò il patrimonio suo e quello della sua moglie (si era sposato nel 1894, con un matrimonio combinato tra famiglie). La donna, che già aveva dato segni di fragilità nervosa, ebbe da quest'ultima vicenda un trauma che la portò alla pazzia. Pirandello si dovette impiegare come docente presso l'Istituto Superiore di Magistero a Roma, dove insegnò fino al 1922.

Continuò però a scrivere e a pubblicare saggi, novelle e romanzi e nell'immediato dopoguerra raggiunse la fama, non solo in Italia ma anche in Germania, in Francia e in America, come autore drammatico.

Tra il 1916 e il 1930, infatti, scrisse, in rapida successione, molti drammi che furono portati in scena dalle migliori compagnie e interpretati dai più famosi attori del tempo. Egli stesso, nel 1925, con il figlio Stefano, fondò a Roma e diresse una compagnia teatrale.

Il successo e la fama internazionali furono coronati nel 1934 dal conferimento del premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1936 a Roma.

La coscienza della crisi e il dramma di essere uomo

La realtà, per Pirandello, è un continuo e caotico divenire che sfugge a ogni tentativo di fissarne parametri e schemi interpretativi universalmente validi. Se la realtà non è qualcosa di stabile e di oggettivo, non è possibile conoscerla o, meglio, ogni conoscenza è relativa: non esiste dunque la Verità, esistono tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla.

Dall’instabilità del reale e dalla relatività di ogni conoscenza deriva per Pirandello anche l’impossibilità di individuare una logica e una spiegazione razionale delle vicende: la realtà è governata dal caso, che produce una serie di situazioni ora comiche ora tragiche ora assurde ora paradossali (paradosso: ragionamento logico che parte da un presupposto falso), tra le quali è difficile stabilire dei nessi di causa ed effetto.

Ogni uomo è al tempo stesso uno e centomila e quindi non è nessuno. Questa crisi della propria identità è la causa dell’incomunicabilità e dell’alienazione dell’uomo moderno che si ritrova disperatamente solo, impossibilitato a dialogare con gli altri e soprattutto con se stesso, in un mondo privo di certezze e di punti di riferimento che non può conoscere e possedere.

Invano gli uomini cercano di fissare delle “forme” che permettano un barlume di identità. Queste forme sono solo fragili schemi. Esse diventano delle “maschere” che soffocano e imprigionano la vita del singolo e non fanno altro che produrre mistificazioni (inganni, falsità) e deformazioni: i rapporti sociali sono infatti il risultato di illusioni e di falsità, perché si fondano sulla maschera e non sul vero volto, sulla forma e non sulla sostanza, sull'apparire e non sull'essere. L'esistenza e solo un continuo, fluido, contrasto dialettico (dialogo) tra realtà e apparenza, tra sostanza e forma, tra ciò che è e ciò che appare.

In questo mondo fondato sull'apparire, l'individuo lotta per essere se stesso, cerca cioè di esprimere la propria identità liberandosi dalle "forme" che la società gli impone. I personaggi di Pirandello sono soffocati dalle convenzioni sociali, e reagiscono. La loro reazione traduce in gesti apparentemente bizzarri e paradossali, che trovano sbocco o nella valvola liberatrice della pazzia o nella rassegnazione dolente e consapevole, dimostrando l'invivibilità di un'esistenza autentica e l'illusorietà di ogni ribellione. Le origini di questa tragica concezione esistenziale sono da ricercare nella consapevolezza, da parte dell'autore, che la società borghese e la cultura tradizionale, fondata su un'univoca e superata interpretazione della realtà, siano condannate a una crisi irreversibile. Di questa crisi, però, Pirandello non ricerca se non occasionalmente le ragioni politiche o sociali, perché preferisce concentrare la sua attenzione sul piano puramente esistenziale, rivelando con lucida angoscia il dramma di essere uomo.

La poetica: il saggio L'umorismo

 La poetica di Pirandello è strettamente connessa alla sua visione del mondo: l'arte deve rappresentare, non una realtà ordinata e conoscibile, ma una realtà frantumata e confusa, improntata di comicità e di tragicità. Per rappresentare questa realtà lo scrittore deve saper cogliere attraverso l'umorismo i due volti della realtà, sia quello comico sia quello tragico. Questa particolare poetico è compendiata (riassunta) nel saggio L'umorismo, pubblicato nel 1908. In esso, infatti, partendo dall'osservazione della realtà e degli uomini, Pirandello constata come frequentemente ci capita di imbatterci in situazioni o in persone diverse da quelle che noi, in base ai nostri pregiudizi, ci attenderemmo che fossero. Ci accorgiamo che sono il contrario di ciò che dovrebbero essere e ci fanno ridere: “questo avvertimento del contrario” è per Pirandello il momento delle comicità. Se però riflettiamo e ci sforziamo di indagare oltre l’apparenza comica, potremo scoprire che dietro di essa si nasconde un dramma umano. Allora saremo presi da un senso di pietà e il nostro riso si trasformerà, al più, in un amaro sorriso. È accaduto che per mezzo della riflessione siamo passati dall’ ”avvertimento del contrario” al “sentimento del contrario”, nel quale appunto, secondo Pirandello, consiste l’umorismo.

Per chiarire meglio il concetto, l’autore nel suo saggio fa l’esempio della “vecchia signora” che fa ridere perché “goffamente imbellettata (imbellita) e parata (vestita) d’abiti giovanili”. Ma se pensiamo che essa “non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo”, anzi ne soffre e lo fa soltanto perché si ingegna di nascondere “le rughe e la canizie (fenomeno in genere legato all’età, per cui capelli e peli diventano bianchi)” e “trattenere a sé l’amore del marito più giovane di lei” allora non posiamo più ridere, ma solo sorridere: è subentrata in noi la pietà. È proprio questo sentimento nei confronti dei suoi personaggi strani, delle sue situazioni paradossali che salva Pirandello, nella sua spietata indagine sulla realtà umana, dal giudizio della fredda celebrità.

Da questa poetica e soprattutto dal bisogno di rappresentare senza veli la tragicità del reale derivano, sul piano stilistico - espressivo, una lingua cruda, sobria e concreta e una prosa scarna ed essenziale, che rifugge dalle raffinatezze teoriche e scardina la sintassi e il lessico tradizionali. Lo stile di Pirandello si distingue così per la sua violenza espressiva, libera ad ogni convenzione letteraria, sia nella narrativa sia nel teatro.

LE OPERE

La produzione narrativa. Sull’esempio di molti suoi contemporanei, Pirandello, come narratore, prende le mosse dal Verismo, ma ben presto si distacca dal modello verghiano e concentra tutto il suo interesse sull’individuo, sulla sua solitudine e sulla sua disperazione.

I personaggi delle sue novelle e dei suoi romanzi sono sottoposti a un’acuta analisi che li mette a nudo e rivela impietosamente i guasti prodotti in loro dalla società e, talora, dalla vita stessa: per lo più di origine piccolo - borghese, essi conducono un’esistenza grigia e soffocante e cercano disperatamente di salvarsi dal conformismo o, peggio, dell’alienazione. Essi sono condannati a rimanere vittime dell’incomprensione degli altri uomini e, quando non pagano con la follia o con l’emarginazione totale il loro tentativo di uscire dal chiuso dell’individualismo, non possono far altro che rassegnarsi e riconoscere che ogni ribellione contro le convezioni è perfettamente inutile. Per Pirandello nulla può sottrarre l’uomo alla “forma” che la vita e la società gli hanno imposto.

Queste tematiche sono già presenti nel primo romanzo, L’esclusa, pubblicato nel 1901.

Il romanzo narra la storia di una donna, Marta Aiala, che viene abbandonata dal marito perché ritenuta adultera quando in realtà è innocente, ma che poi viene ripresa in casa dopo che ella ha effettivamente commesso l’adulterio. [il concetto che l’apparenza, a volte, è più importante della realtà].

Il romanzo, pur presentandosi come un’opera di stampo verista e regionalista, soprattutto per la fedeltà all’ambiente siciliano, è un prodotto nuovo. In esso, infatti, l’attenzione dello scrittore non è incentrata sull'ambiente ma sull'angoscia esistenziale dei personaggi, sul contrasto tra essere e apparire che travaglia ogni individuo e sulla dimensione paradossale della vicenda.

È però con il secondo romanzo, Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904, che Pirandello chiude con il Verismo ottocentesco e porta alla luce, attraverso una vicenda ancora più assurda e paradossale, la sua problematica e inquietante visione del mondo.

Mattia Pascal conduce un'esistenza quotidiana opprimente e senza sbocchi, soprattutto a causa di un matrimonio mal riuscito. Un giorno, però, dopo aver vinto a Montecarlo una grossa somma, legge sul giornale la notizia della sua morte: un cadavere trovato in una roggia viene identificato per il suo. Il caso gli offre dunque l'occasione per rifarsi una vita ed egli trova la forza di fuggire dal suo "inferno famigliare": cambia il proprio aspetto esteriore, assume il nome di Adriano Meis e va a vivere a Roma.

    Il senso esaltante di liberazione, però, dura poco. "Uomo inventato", privo di stato anagrafico, cioè di "forma", Adriano Meis non riesce a ricostruirsi una vita. Gli ostacoli gli si presentano dappertutto improvvisi e invalicabili: viene derubato e non può denunciare il furto; ama una ragazza e non può sposarla. Di fronte a una situazione del genere, non gli resta che inscenare il suicidio di Adriano Meis e ritornare alla vita precedente. Anche questo, però, è impossibile: infatti sua moglie si è risposata e tutti si sono abituati all'idea della sua morte. Confinato allora in una condizione di morto - vivente, non può fare altro che essere il fu Mattia Pascal e recarsi ogni tanto a pregare sulla tomba dello sconosciuto che porta il suo nome. [il tutto è ambientato in Liguria].

    Mattia Pascal è testimone dolente e tragico del dramma dell'uomo contemporaneo: la sua "non esistenza" si colloca tra il desiderio di evadere dalla "forma" che la società gli ha imposto e l'impossibilità reale di fuggirla. Nel romanzo, l’aspetto paradossale delle vicende umane è portato al culmine: Mattia Pascal non solo deve constatare il fallimento della propria ribellione, ma deve accettare “una esistenza”. E, poiché la vita è dominata dal caso, risulta vano ogni tentativo dell’individuo di spiegare le vicende che è costretto a vivere.

La dimensione tragica e assurda dell’esistenza umana è oggetto di riflessione anche nel romanzo Uno nessuno e centomila, pubblicato nel 1926 dopo un lungo periodo di gestazione (rielaborazione).

Il protagonista, Vitangelo Moscarda, entra in crisi il giorno il cui la sua moglie gli fa notare che il suo naso pende a destra, cosa di cui non si era mai accorto. Ora si rende infatti conto che l’uomo si crede “uno” ed è invece “centomila”, le centomila immagini secondo cui gli altri lo vedono; ma questo equivale a essere “nessuno”.

    Moscarda si propone dunque di scoprire le molte identità che gli altri gli hanno dato. Così, dopo aver appreso che i suoi concittadini lo considerano un usuraio, cerca di distruggere quell’immagine con atti clamorosi, come distruggerà via via i suoi ruoli di amico, di marito ecc. Alla fine, consapevole che lasciarsi chiudere in una “forma” equivale ad annientare la propria personalità perennemente cangiante (mutevole), rinuncerà a qualunque forma, immergendosi nel flusso della vita, senza memoria e senza aspettative, accontentandosi di vivere nell’attimo presente.

    Nel romanzo emerge con drammaticità l’inconsistenza dell’identità individuale (non esiste una propria identità). Il protagonista scopre di non esistere come individuo vero e proprio: ognuno lo percepisce in modo diverso e, alla fine, egli, come in una lucida follia, si scopre mutevole e vario.

La storia di Vitangelo Moscarda è dunque una denuncia lucida e corrosiva dell’ipocrisia e della falsità della nostra vita, e, soprattutto, delle “forme” che la società ci impone: dopo aver rinunciato a qualsiasi “maschera”, il personaggio prova un senso di liberazione totale cui malinconicamente si abbandona.

Le problematiche dibattute nei romanzi e, poi, nelle opere teatrali, tornano anche nelle numerose novelle che Pirandello venne componendo nell’arco di tutta la sua vita e che poi raccolse in un volume con il titolo Novelle per un anno. La tipologia di queste novelle è molto ricca e varia: (primo modello: novelle siciliane) accanto alle novelle regionalistiche di ambientazione prevalentemente siciliana e contadina, (secondo tipo: novelle romane) vi sono novelle di ambientazione cittadina, popolate di personaggi piccolo - borghesi o intellettuali, esempi viventi dell’assurdità della condizione dell’uomo moderno e delle sue complicazioni psicologiche, (terzo tipo: novelle surrealiste) e novelle surrealiste, caratterizzate da atmosfere magiche e suggestive, da situazioni ai confini della realtà e concomitanti con l’ultima produzione teatrale dell’autore.

In tutte emerge la lucida analisi del dramma di essere uomo, indagato con dissacrante ironia, ma anche con umana pietà. Molte volte l’ultimo tipo di novelle fu da abbozzo alle opere teatrali. [Negli anni trenta la cultura europea fu influenzata dal surrealismo a causa del Nazismo. La realtà era troppo brutta, e quindi gli artisti si crearono un proprio mondo interiore “surreale”]

 

Il teatro. La produzione teatrale di Pirandello nasce dal tentativo dell’autore di far emergere i temi di fondo della sua riflessione: la problematica concezione della vita dell’uomo, il relativismo di ogni conoscenza, il contrasto tra essere e apparire e la solitudine esistenziale di ogni individuo. [Pirandello studia principalmente due cose: - la solitudine dell’uomo; - la differenza tra essere e apparire.]

Naturalmente questi temi, una volta trasferiti sulla scena, portano alla disintegrazione delle forme e delle strutture tradizionali del teatro, aprendo così la via alle esperienze successive, in particolare al teatro espressionistico di Brecht e al teatro dell’assurdo di Ionesco e Beckett.

Mentre il teatro precedente, in particolare il teatro naturalistico, era basato sulla rappresentazione di una realtà oggettiva, i drammi pirandelliani si fondano su una visione dialettica e dinamica (problematica) del reale: la verità è soggettiva e relativa e pertanto è impossibile arrivare a un’interpretazione univoca delle vicende. I protagonisti per tutta la loro “esistenza” scenica discutono, congetturano e costruiscono ragionamenti cavillosi e sillogistici, comportandosi da “loici” o da moderni amleti, con un gusto quasi intellettualistico e “filosofico” per la speculazione.

Per questo, il teatro pirandelliano è stato spesso accusato di “cerebralasimo” e di “ intellettualismo”.

Se in alcune opere la lucidità pirandelliana appare viziata da un eccesso di capziosità (esagerazione) intellettualistica, in altre il contrasto dialettico produce risultati vivaci e brillanti, come nei drammi Pensaci, Giacomino! (1916), e soprattutto Così è (se vi pare) (1917).

Particolarmente interessante è, a questo proposito, il dramma in tre atti Enrico IV (1922), in cui la follia viene esaltata come l’unica condizione veramente vivibile.

Nel corso di una festa in costume il protagonista, travestitosi da Enrico IV per amore di Matilde Spina, che si è travestita da Matilde di Canossa, viene fatto cadere da cavallo dal rivale Belcredi. Per effetto della caduta, l’uomo impazzisce e crede di essere davvero Enrico IV, assecondato in questo dai familiari che, in un castello che mima la vita dell’XI secolo, gli costruiscono intorno una piccola corte regale di personaggi in costume d’epoca.

    Vent’anni dopo quella festa arrivano al castello dei visitatori: Matilde con l’amante Belcredi, la figlia ventenne Frida e uno psicanalista, che, travestiti come allora, compiono un ultimo tentativo per portarlo alla ragione.

    In realtà da otto anni il protagonista non è più pazzo e ha scoperto la relazione tra Matilde e Belcredi: ha così continuato a fingersi pazzo, consapevole della “maschera” che ha assunto per sottrarsi al tormento della vita reale. In Frida, però, egli rivede la Matilde di vent’anni prima: la sua “maschera” vacilla e si svela la finzione. E quando Belcredi cerca di ostacolare il suo slancio verso Frida, egli reagisce e lo colpisce a morte.

    Non gli resterà che chiudersi, per sempre, con la sua finta corte, nella “forma” della sua pazzia, ritornando a essere Enrico IV.

    L’urgenza di rappresentare la dimensione assurda della vita spinge Pirandello a dissolvere la stessa struttura tradizionale del teatro e ad abolire la finzione scenica come principio costitutivo. Nasce il cosiddetto “teatro nel teatro”, in cui la rappresentazione teatrale stessa diviene oggetto di rappresentazione, coinvolgendo anche gli spettatori nella finzione scenica. Il teatro diviene così il luogo stesso in cui si svolge il dramma vero, non quello “finto”, e quindi diviene l’emblema del contrasto finzione - realtà che caratterizza la condizione dell’uomo moderno.

Della trilogia (trilogia: tre opere; ha scritto tre opere parlando della vita dei autori) del “teatro nel teatro” (Sei personaggi in cerca d’autore, 1921; Ciascuno a suo modo, 1924; Questa sera si recita a soggetto (improvvisando), 1930), particolarmente significativo è il primo dramma, Sei personaggi in cerca d’autore, rappresentato nel 1921 a Roma.

Mentre una compagnia drammatica sta provando Il gioco delle parti di Luigi Pirandello, sei “personaggi” appaiono improvvisamente sulla scena. Sono “personaggi” (non persone) - il padre, la madre, la figliastra, il figlio, due bambini - nati dalla fantasia di un autore che, però, dopo averli creati, non ha voluto “farli vivere” attraverso una rappresentazione scenica. Ora essi chiedono - e poi otterranno - con angosciante insistenza di veder rappresentato il proprio dramma: una storia di miseria morale che si incerta, coinvolgendo tutta la famiglia, sul dramma di un padre che, per un tragico equivoco, sta per commettere incesto con la figliastra.

    Quando però gli attori provano a rappresentare il loro dramma, i “personaggi” si sentono traditi: solo loro possono rappresentare - e cioè vivere come personaggi - la tragica storia partorita dalla fantasia dell’autore, che è ormai la loro realtà.

    Nell’ultima fase della sua vita, Pirandello continua la sua ricerca innovativa, arrivando al “ teatro dei miti” (La nuova colonia, 1928; Lazzaro, 1929), in cui si accosta a soluzioni sceniche surrealistiche.

LA FORTUNA

Dopo la rappresentazione milanese di Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Pirandello incontrò un notevole successo di pubblico e godette di una larga fama internazionale, tanto che nel 1934 fu insignato del premio Nobel per la letteratura.

Come Svevo, dunque, Pirandello incontrò il successo “ufficiale” solo dopo la seconda guerra mondiale e ora viene considerato uno degli interpreti più suggestivi della crisi dell’uomo contemporaneo e uno degli scrittori più originali della letteratura novecentesca, precursore di molte esperienze successive, soprattutto in ambito teatrale.

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