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3. Il museo Solomon Guggenheim di New York.

La realizzazione della continuità spaziale.

Il Solomon Guggenheim Museum di New York è la fusione tra la rotonda, spazio per le manifestazioni pubbliche, e la galleria, percorso espositivo lineare, descritte da Durand. Qui la galleria è una linea curva che si avvolge verso l’alto attorno alla rotonda. Wright, pur essendo uno statunitense che lavora negli Stati Uniti, non rinnega il bagaglio culturale che accompagna la tipologia del museo. Egli sembra conoscere bene gli esempi degli antichi e li reinterpreta aiutato dalla tecnologia costruttiva.

Il cemento armato viene utilizzato in modo innovativo. “La costruzione della grande rampa, come quella di una conchiglia marina, è libera da qualsiasi sorta di supporto interno”[20]. Wright piega la tecnologia al servizio dello spazio architettonico. “Qui, per la prima volta l’architettura appare plastica, ogni piano scorre sul successivo (più simile ad una scultura), non c’è più la sovrapposizione di diversi strati che si tagliano e appoggiano l’uno sull’altro attraverso la costruzione di pilastri e travi” afferma egli stesso. 

Egli è convinto che “l’essenza dell’edificio organico è lo spazio, lo spazio che fluisce verso l’esterno, lo spazio che rifluisce verso l’interno (…) Soltanto quando gli edifici sono compresi dall’interno (…) si vedono veramente”.[21] Wright pensa l’edificio a misura d’uomo: partendo dallo spazio interno giunge poi alla forma complessiva. Egli asserisce che l’architetto, nell’ideazione di ogni parte della sua opera, ha sempre presente il senso del tutto, così come negli insiemi organici (biologici, sociali o architettonici che siano) l’insieme controlla lo sviluppo delle proprie parti costitutive. 

Nel Guggenheim Museum lo spazio pubblico e lo spazio espositivo diventano un tutt’uno, pur essendo distinti. Il fatto che l’atrio sia visibile da ogni punto della rampa-galleria, divisi solo da un parapetto, rende possibile quello che a parole sembrerebbe un controsenso.

L’architettura è la vita stessa che prende forma e perciò è la più vera memoria della vita quale veniva vissuta nel mondo di ieri, quale viene vissuta oggi e quale mai sarà vissuta in futuro”.[22] Per sfuggire al destino da sempre riservato alle architetture, Wright vuole creare un’architettura immortale in cui lo spazio sia sovrano. L’edificio cresce verso l’alto e verso l’esterno, come se fosse spinto dallo spazio interno, e si apre verso il cielo. Come afferma Edward Frank, la spirale, emblema universale del divenire, è la quintessenza delle forme aperte, non avendo né principio né fine. Essa prolunga il percorso cittadino all’interno del museo, contestandone la rigida scacchiera, e rende così più democratica la fruizione artistica. 

Come afferma Bruno Zevi, questo museo è un intervento polemico sotto tre diversi punti di vista:

  1. Urbanisticamente, poiché si differenzia nettamente dai blocchi residenziali che costituiscono la regola nella scacchiera newyorkese;

  2. Rispetto alla consueta sistemazione dei musei, segnando il completo rivoluzionamento di tutti i correnti criteri allestivi e museografici poiché rifiuta l’inerte meccanismo di sale-scatole giustapposte, ciascuna chiusa in se stessa quindi non coinvolta in una fluida continuità;

  3. Nel rapporto tra museo e città, tradizionalmente interpretato come antitesi tra sacro e profano, in cui il sacro si distingue con un enfatico fronte colonnato e una monumentale scalinata.

Il museo è risolto in una rampa avvolta a spirale, lungo la quale c’è lo spazio d’esposizione vero e proprio: i visitatori, portati alla sommità da ascensori, sono invitati a seguire il movimento avvolgente verso il basso. L’ascensore è la cerniera verticale dell’edificio che, insieme alla dolce pendenza della rampa, segna la massima fruibilità anche per le carrozzelle.

Lo schema volumetrico è molto chiaro: il volume principale, più alto, spicca sul volume orizzontale dei servizi che occupa solo il primo ed il secondo piano (oltre al piano interrato che ospita anche l’auditorium). La linea curva domina e dà unità alla composizione.

Wright progetta un edificio in cui i quadri possano essere i veri protagonisti delle esposizioni, esposti in condizioni favorevoli grazie alle numerose innovazioni presenti.

L’inclinazione. Il muro continuo su cui poggiano i quadri è leggermente inclinato verso l’esterno, in modo che questi siano disposti come sui cavalletti sui quali furono creati dall’artista. La fascia più bassa del muro è ulteriormente inclinata verso l’esterno distanziando il pavimento dal muro di circa un metro e mezzo. Questo trucco, ideato per l’illuminazione del quadro, serve anche ad evitare un eccessivo avvicinamento al quadro da parte di un osservatore troppo curioso. Ogni curiosità legittima concernente i particolari del quadro può essere soddisfatta piegandosi leggermente in avanti. 

La climatizzazione. L’edificio è completamente climatizzato, quindi i quadri non hanno bisogno del vetro né della cornice. Si possono ammirare le opere d’arte nel modo più naturale: senza riflessi di luce sul vetro che ostacolano la vista. L’aria condizionata inoltre è piacevole anche per gli stessi visitatori. 

La luce. Nelle “alcove”, in cui sono alloggiati i quadri, sono previsti tre diversi tipi di illuminazione dall’alto: la luce naturale proveniente dalle asole vitree, che fendono le fasce lungo tutta la spirale, regolabile tramite veneziane in plastica semitrasparente; la stessa luce naturale riflessa dal soffitto; la luce enfatizzata proveniente da uno specchio continuo posto sul muro verticale. In più c’è il supporto della luce artificiale, a lampade incandescenti, proveniente dalla medesima posizione. Per quanto riguarda l’illuminazione dal basso, essa è data dalla luce riflessa sulla striscia di base del muro su cui poggiano i quadri, più inclinata. L’artista può così scegliere l’intensità di luce che preferisce. Le opere d’arte potranno esprimere pienamente il loro fascino grazie alla mutevole luce naturale: in ogni ora della giornata, in ogni stagione dell’anno si potranno vedere sfumature diverse. La luce non è più fissa e bidimensionale, come nei musei tradizionali, ma acquista tridimensionalità. L’atmosfera del museo si calibra su quella della città.

La versatilità. Wright ha ideato vari schermi a due facce, anch’essi inclinati, che si possono disporre a piacere per l’esposizione di ulteriori quadri. L’ultimo piano, più alto degli altri, può essere utilizzato come biblioteca specializzata per le ricerche o come studio degli artisti, all’occorrenza. Il percorso dell’esposizione non è rigido come può sembrare: il visitatore può prendere l’ascensore ad ogni piano, interrompendo la visita perché ha visto ciò che desiderava vedere o per ristorarsi al bar e poi riprenderla. Il percorso è ben definito in modo da non creare disorientamento nei visitatori, come può accadere nei musei a “ordinamento mobile”[23], ma nello stesso tempo i visitatori abituali possono scegliere di vedere solo le opere che desiderano senza dover attraversare tutte le altre.

Fig.1 - Il museo visto dall'alto

Fig.2 - L'atrio centrale visto dalla rampa.

Fig.3 - La rampa a spirale vista dall'atrio centrale.

Fig.4 - Una sezione dell'edificio.

Fig.5 - La pianta del piano terra.

Fig.5 - La pianta del primo piano.

Le critiche dei contemporanei.

Il Guggenheim Museum di New York fu inaugurato il 21 ottobre 1959, sei mesi dopo la morte di Wright. Per capire come fu accolto dal pubblico ma anche dagli altri architetti, ho sfogliato le riviste di quel periodo. 

Sulla rivista Casabella n° 227 Sibyl Moholy-Nagy, prima che il museo sia terminato, lo definisce un "gioco d'abilità stranamente in contrasto con il fine che dovrebbe raggiungere" cioè quello di ospitare opere d'arte. Egli, peraltro senza aver visto l'edificio funzionante, afferma che le pareti inclinate, la "scala a spirale senza ringhiera", la luce naturale "incerta" e quella artificiale non regolabile sono alcuni dei difetti che concorrono a determinare l'inefficienza dell'edificio. 

Sul n° 234 della stessa rivista la redazione riporta nella rubrica "Attualità" la notizia dell'apertura al pubblico del museo. Viene riportato che "non sono mancate da più parti le critiche, tanto che il museo è stato addirittura definito come un esempio di guerra tra architettura e pittura". Le alterazioni apportate dal direttore Sweeney sono descritte come ingegnose. A conclusione dell'articolo però si afferma che "superato lo choc delle giornate d'apertura, il pubblico che visiterà questo museo riuscirà (…) a capire di trovarsi al cospetto di uno dei più appassionati monumenti dell'arte moderna. 

Frederick Gutheim, sulla rivista newyorkese "The Architectural Record" dell'ottobre 1960, afferma che "sebbene forse non avrebbe mai dovuto essere un museo, il Guggenheim è il culmine della lotta di Wright per una continuità senza tempo". Pur riconoscendo all'edificio il merito di aver raggiunto l'obiettivo della ricerca di Wright, egli non manca di aggiungere una sottile critica riguardo la sua funzionalità. 

La stessa sottile polemica si coglie nell'articolo di Henry Russell Hitchcock apparso sul n° 6 di Zodiac (1960). Egli accompagna gli elogi alle critiche. Inizialmente afferma che "la concezione di base di questo edificio (è) così diversa da ogni altra galleria d'arte mai progettata". Poi si sofferma sui difetti: il colore delle pareti su cui sono appesi i quadri (che non era quello scelto da Wright), il fatto di non poter vedere i quadri da distanze diverse, l'imperfezione del calcestruzzo che traspare sotto l'intonaco all'esterno, la "goffaggine" dell'edificio rispetto ai "solidi blocchi degli appartamenti che lo circondano", eccetera. Ma alla fine afferma che il museo Guggenheim "non appartiene al tempo in cui è stato costruito ma, come le ultime opere di Beethoven e di Michelangelo, esso appartiene probabilmente più al futuro che al passato". Egli dunque riconosce a questo edificio una carica innovativa talmente forte da non poter essere compresa dai contemporanei. 

Le critiche tecniche rivolte all’edificio dal direttore del museo, James Johnson Sweeney, e dal New York Times riguardavano essenzialmente i punti innovativi descritti nel capitolo precedente:

  1. “l’idea di rendere visibili i quadri usando in prevalenza luce naturale appare folle”[24]

  2. “i quadri, staccati dalle pareti, com’è indispensabile per vederli, ingombrano lo spazio riservato al pubblico”[25];

  3. “la galleria continua risulta opprimente perché non permette al visitatore di riesaminare le opere preferite”[26];

  4. “camminare lungo l’implacabile spirale dà un senso di vertigine”[27];

  5. “le pitture si vedono ora storte da un lato, ora sbilenche dall’altro, ora tagliate nei modi più strani dai parapetti di fronte”[28].

Bruno Zevi affermava che tali critiche erano fatue e facilmente contestabili, tanto più che alcune delle contestazioni riguardavano modifiche, non autorizzate, apportate al progetto dopo la morte di Wright (fortunatamente tra il 1991 e il 1992 il museo è stato restaurato nel rispetto delle concezioni originarie di Wright). La luce artificiale a lampade incandescenti era stata sostituita da tubi fluorescenti, quindi a luce bidimensionale, che disfavano il rapporto wrightiano tra opere esposte e spazio espositivo. I quadri erano stati sospesi a bracci metallici, intralciando così i visitatori e risultando inclinati in vari modi. Le pareti erano state dipinte in bianco anziché in avorio. L’ingresso, pensato per il riposo dei visitatori, fu riempito di sculture.[29] 

E' chiaro dunque che il museo Guggenheim di New York non è stato accolto con entusiasmo dai contemporanei. Esso rivoluziona l'idea di Museo, sconvolge i criteri allestivi. D’altra parte esso è concepito per esporre l'arte contemporanea quindi è giusto che anch'esso sia innovativo come i quadri e le sculture che ospita. Ma, come tutte le invenzioni all'avanguardia, è più facile criticarlo che adattarcisi.

[continua]

NOTE:

[20] pag. 476 “Filosofia organica, architettura organica e Frank Lloyd Wright” Edward Frank 

[21] pag. 476 ibid. 

[22] pag. 476 ibid. 

[23] vedi nota 19. 

[24]  pag.289 “Cronache di architettura vol.6 Bruno Zevi 

[25] ibid. 

[26] ibid. 

[27] ibid. 

[28] ibid. 

[29] “Frank Lloyd Wright” Bruno Zevi


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