3.
Il museo Solomon Guggenheim di New York.
La
realizzazione della continuità spaziale.
Il
Solomon Guggenheim Museum di New York è la fusione tra la rotonda,
spazio per le manifestazioni pubbliche, e la galleria,
percorso espositivo lineare, descritte da Durand. Qui la galleria
è una linea curva che si avvolge verso l’alto attorno alla rotonda.
Wright, pur essendo uno statunitense che lavora negli Stati Uniti, non
rinnega il bagaglio culturale che accompagna la tipologia del museo.
Egli sembra conoscere bene gli esempi degli antichi e li reinterpreta
aiutato dalla tecnologia costruttiva.
Il
cemento armato viene utilizzato in modo innovativo. “La
costruzione della grande rampa, come quella di una conchiglia marina, è
libera da qualsiasi sorta di supporto interno”.
Wright piega la tecnologia al servizio dello spazio architettonico.
“Qui, per la prima volta l’architettura appare plastica, ogni piano
scorre sul successivo (più simile ad una scultura), non c’è più la
sovrapposizione di diversi strati che si tagliano e appoggiano l’uno
sull’altro attraverso la costruzione di pilastri e travi”
afferma egli stesso.
Egli
è convinto che “l’essenza
dell’edificio organico è lo spazio, lo spazio che fluisce verso
l’esterno, lo spazio che rifluisce verso l’interno (…) Soltanto
quando gli edifici sono compresi dall’interno (…) si vedono
veramente”.
Wright pensa l’edificio a misura d’uomo: partendo dallo spazio
interno giunge poi alla forma complessiva. Egli asserisce che
l’architetto, nell’ideazione di ogni parte della sua opera, ha
sempre presente il senso del tutto, così come negli insiemi organici
(biologici, sociali o architettonici che siano) l’insieme controlla lo
sviluppo delle proprie parti costitutive.
Nel
Guggenheim Museum lo spazio pubblico e lo spazio espositivo diventano un
tutt’uno, pur essendo distinti. Il fatto che l’atrio sia visibile da
ogni punto della rampa-galleria, divisi solo da un parapetto, rende
possibile quello che a parole sembrerebbe un controsenso.
L’architettura
è la vita stessa che prende forma e perciò è la più vera memoria
della vita quale veniva vissuta nel mondo di ieri, quale viene vissuta
oggi e quale mai sarà vissuta in futuro”.
Per sfuggire al destino da sempre riservato alle architetture, Wright
vuole creare un’architettura immortale in cui lo spazio sia sovrano.
L’edificio cresce verso l’alto e verso l’esterno, come se fosse
spinto dallo spazio interno, e si apre verso il cielo. Come afferma
Edward Frank, la spirale, emblema universale del divenire, è la
quintessenza delle forme aperte, non avendo né principio né fine. Essa
prolunga il percorso cittadino all’interno del museo, contestandone la
rigida scacchiera, e rende così più democratica la
fruizione artistica.
Come
afferma Bruno Zevi, questo museo è un intervento polemico sotto tre
diversi punti di vista:
-
Urbanisticamente,
poiché si differenzia nettamente dai blocchi residenziali che
costituiscono la regola nella scacchiera newyorkese;
-
Rispetto
alla consueta sistemazione dei musei, segnando il completo
rivoluzionamento di tutti i correnti criteri allestivi e
museografici poiché rifiuta l’inerte meccanismo di sale-scatole
giustapposte, ciascuna chiusa in se stessa quindi non coinvolta in
una fluida continuità;
-
Nel
rapporto tra museo e città, tradizionalmente interpretato come
antitesi tra sacro e profano, in cui il sacro si distingue con un
enfatico fronte colonnato e una monumentale scalinata.
Il
museo è risolto in una rampa avvolta a spirale, lungo la quale c’è
lo spazio d’esposizione vero e proprio: i visitatori, portati alla
sommità da ascensori, sono invitati a seguire il movimento avvolgente
verso il basso. L’ascensore è la cerniera verticale dell’edificio
che, insieme alla dolce pendenza della rampa, segna la massima fruibilità
anche per le carrozzelle.
Lo
schema volumetrico è molto chiaro: il volume principale, più alto,
spicca sul volume orizzontale dei servizi che occupa solo il primo ed il
secondo piano (oltre al piano interrato che ospita anche
l’auditorium). La linea curva domina e dà unità alla composizione.
Wright
progetta un edificio in cui i quadri possano essere i veri protagonisti
delle esposizioni, esposti in condizioni favorevoli grazie alle numerose
innovazioni presenti.
L’inclinazione.
Il muro continuo su cui poggiano i quadri è leggermente inclinato verso
l’esterno, in modo che questi siano disposti come sui cavalletti sui
quali furono creati dall’artista. La fascia più bassa del muro è
ulteriormente inclinata verso l’esterno distanziando il pavimento dal
muro di circa un metro e mezzo. Questo trucco, ideato per
l’illuminazione del quadro, serve anche ad evitare un eccessivo
avvicinamento al quadro da parte di un osservatore troppo curioso. Ogni
curiosità legittima concernente i particolari del quadro può essere
soddisfatta piegandosi leggermente in avanti.
La
climatizzazione. L’edificio è completamente climatizzato, quindi
i quadri non hanno bisogno del vetro né della cornice. Si possono
ammirare le opere d’arte nel modo più naturale: senza riflessi di
luce sul vetro che ostacolano la vista. L’aria condizionata inoltre è
piacevole anche per gli stessi visitatori.
La
luce. Nelle “alcove”, in cui sono alloggiati i quadri, sono
previsti tre diversi tipi di illuminazione dall’alto: la luce naturale
proveniente dalle asole vitree, che fendono le fasce lungo tutta la
spirale, regolabile tramite veneziane in plastica semitrasparente; la
stessa luce naturale riflessa dal soffitto; la luce enfatizzata
proveniente da uno specchio continuo posto sul muro verticale. In più
c’è il supporto della luce artificiale, a lampade incandescenti,
proveniente dalla medesima posizione. Per quanto riguarda
l’illuminazione dal basso, essa è data dalla luce riflessa sulla
striscia di base del muro su cui poggiano i quadri, più inclinata.
L’artista
può così scegliere l’intensità di luce che preferisce. Le opere
d’arte potranno esprimere pienamente il loro fascino grazie alla
mutevole luce naturale: in ogni ora della giornata, in ogni stagione
dell’anno si potranno vedere sfumature diverse. La luce non è più
fissa e bidimensionale, come nei musei tradizionali, ma acquista
tridimensionalità. L’atmosfera del museo si calibra su quella della
città.
La
versatilità. Wright ha ideato vari schermi a due facce, anch’essi
inclinati, che si possono disporre a piacere per l’esposizione di
ulteriori quadri. L’ultimo piano, più alto degli altri, può essere
utilizzato come biblioteca specializzata per le ricerche o come studio
degli artisti, all’occorrenza. Il percorso dell’esposizione non è
rigido come può sembrare: il visitatore può prendere l’ascensore ad
ogni piano, interrompendo la visita perché ha visto ciò che desiderava
vedere o per ristorarsi al bar e poi riprenderla. Il percorso è ben
definito in modo da non creare disorientamento nei visitatori, come può
accadere nei musei a “ordinamento mobile”,
ma nello stesso tempo i visitatori abituali possono scegliere di vedere
solo le opere che desiderano senza dover attraversare tutte le altre. |
Fig.1
- Il museo visto dall'alto
Fig.2
- L'atrio centrale visto dalla rampa.
Fig.3
- La rampa a spirale vista dall'atrio centrale.
Fig.4
- Una sezione dell'edificio.
Fig.5
- La pianta del piano terra.
Fig.5
- La pianta del primo piano.
|
Le
critiche dei contemporanei.
Il
Guggenheim Museum di New York fu inaugurato il 21 ottobre 1959, sei mesi
dopo la morte di Wright. Per capire come fu accolto dal pubblico ma
anche dagli altri architetti, ho sfogliato le riviste di quel
periodo.
Sulla
rivista Casabella n° 227 Sibyl
Moholy-Nagy, prima che il museo sia terminato, lo definisce un
"gioco d'abilità stranamente in contrasto con il fine che dovrebbe
raggiungere" cioè quello di ospitare opere d'arte. Egli, peraltro
senza aver visto l'edificio funzionante, afferma che le pareti
inclinate, la "scala a spirale senza ringhiera", la luce
naturale "incerta" e quella artificiale non regolabile sono
alcuni dei difetti che concorrono a determinare l'inefficienza
dell'edificio.
Sul
n° 234 della stessa rivista la redazione riporta nella rubrica
"Attualità" la notizia dell'apertura al pubblico del museo.
Viene riportato che "non sono mancate da più parti le critiche,
tanto che il museo è stato addirittura definito come un esempio di
guerra tra architettura e pittura". Le alterazioni apportate dal
direttore Sweeney sono descritte come ingegnose. A conclusione
dell'articolo però si afferma che "superato lo choc
delle giornate d'apertura, il pubblico che visiterà questo museo
riuscirà (…) a capire di trovarsi al cospetto di uno dei più
appassionati monumenti dell'arte moderna.
Frederick
Gutheim, sulla rivista newyorkese "The
Architectural Record" dell'ottobre 1960, afferma che
"sebbene forse non avrebbe mai dovuto essere un museo, il
Guggenheim è il culmine della lotta di Wright per una continuità senza
tempo". Pur riconoscendo all'edificio il merito di aver raggiunto
l'obiettivo della ricerca di Wright, egli non manca di aggiungere una
sottile critica riguardo la sua funzionalità.
La
stessa sottile polemica si coglie nell'articolo di Henry Russell
Hitchcock apparso sul n° 6 di Zodiac (1960). Egli accompagna gli elogi
alle critiche. Inizialmente afferma che "la concezione di base di
questo edificio (è) così diversa da ogni altra galleria d'arte mai
progettata". Poi si sofferma sui difetti: il colore delle pareti su
cui sono appesi i quadri (che non era quello scelto da Wright), il fatto
di non poter vedere i quadri da distanze diverse, l'imperfezione del
calcestruzzo che traspare sotto l'intonaco all'esterno, la
"goffaggine" dell'edificio rispetto ai "solidi blocchi
degli appartamenti che lo circondano", eccetera. Ma alla fine
afferma che il museo Guggenheim "non appartiene al tempo in cui è
stato costruito ma, come le ultime opere di Beethoven e di Michelangelo,
esso appartiene probabilmente più al futuro che al passato". Egli
dunque riconosce a questo edificio una carica
innovativa talmente forte da non poter essere compresa dai
contemporanei.
Le
critiche tecniche rivolte all’edificio dal direttore del museo, James
Johnson Sweeney, e dal New York
Times riguardavano essenzialmente i punti innovativi descritti nel
capitolo precedente:
-
“l’idea
di rendere visibili i quadri usando in prevalenza luce naturale
appare folle”[24];
-
“i
quadri, staccati dalle pareti, com’è indispensabile per vederli,
ingombrano lo spazio riservato al pubblico”[25];
-
“la
galleria continua risulta opprimente perché non permette al
visitatore di riesaminare le opere preferite”[26];
-
“camminare
lungo l’implacabile spirale dà un senso di vertigine”[27];
-
“le
pitture si vedono ora storte da un lato, ora sbilenche dall’altro,
ora tagliate nei modi più strani dai parapetti di fronte”[28].
Bruno
Zevi affermava che tali critiche erano fatue e facilmente contestabili,
tanto più che alcune delle contestazioni riguardavano modifiche, non
autorizzate, apportate al progetto dopo la morte di Wright
(fortunatamente tra il 1991 e il 1992 il museo è stato restaurato nel
rispetto delle concezioni originarie di Wright). La luce artificiale a
lampade incandescenti era stata sostituita da tubi fluorescenti, quindi
a luce bidimensionale, che disfavano il rapporto wrightiano tra opere
esposte e spazio espositivo. I quadri erano stati sospesi a bracci
metallici, intralciando così i visitatori e risultando inclinati in
vari modi. Le pareti erano state dipinte in bianco anziché in avorio.
L’ingresso, pensato per il riposo dei visitatori, fu riempito di
sculture.[29]
E'
chiaro dunque che il museo Guggenheim di New York non è stato accolto
con entusiasmo dai contemporanei. Esso rivoluziona l'idea di Museo,
sconvolge i criteri allestivi. D’altra parte esso è concepito per
esporre l'arte contemporanea quindi è giusto che anch'esso sia
innovativo come i quadri e le sculture che ospita. Ma, come tutte le
invenzioni all'avanguardia, è più facile criticarlo che adattarcisi.
[continua] |