IL NAPOLETANO

ILTRADUTTORE

italiano/napoletano


Devi passare un brutto quarto d'ora tra gli arti inferiori.
ea passà nu uaje niro miez'e cosce. ( ea passà nù uaj nir' miez' e cosc' )

fai silenzio!
Pierde o' ciato! ( Pierd' ò ciàt'! )

Mi stai stressando!
M'è accise a'salute! ( Mè'ccis' a salut' ! ))

Sei un tantino brutta!
Si'nù cuoppo! ( Si nù cuopp' )


Sei una donna di malaffare un pò malandata.
Si' 'na locena sfunnata. ( si' na lòcen scfunnat' )

Ma vada a collaborare per lo smaltimento dei rifiuti organici !
Oj'ne' ma ajiza a' merda ! ( oinè m'aiz' a merd' ! )

Mi hai provocato un gonfiore Patologico tra tra gli arti inferiori.
M'eabbuffato a' guallera ! ( Me abbuffat' a uàllr' ! )

GIUSEPPE PIAZZOLLA

Buonasera, posso accomodarmi ?
Bonasera me pozz' assetta' ? ( Bonaser m' pozz asstta' ? )

Potrei avere il menu' ?
C' se magna cca' dint' ? ( cs magn cca dint ? )

Vorrei una margherita senza basilico .

Vulesse na margherita senza a vasinicola .( vuless na margherit senz' a vasinicol.)

Dov'e' la toilette ? .

Aro' sta o' cesso ? ( aro' sta o' cess ? )

sono sazio vorrei il conto.
Sto' n'tufato, quant'e ave' ? ( sto ntufat' quant'eve' ? )


Vorrei un arancia.

vullesse nu' purtuallo. ( Vulless nu' purtuall'.)

mi porti il conto .

Puort'm a sfugliatella. ( Puortm a sfugliatell. )


Caspita che prezzi !
Azz je c' buco m'pietto! ( azz i c buc mpiett ! )

 

dove stà l'ospedale !Aro' sta o'spitale ? ( Aro' sta ospitàl ? )


Ho avuto un guasto all' automobile.
ho un guasto all'auto
Aggi'a sciarmato a machina. ( aggia sciarmàt' a màchin')


Ho un forte mal di testa.
ho un forte mal di testa
M'abbrucia o' fronte. (màbbrucia o front' )

Ho una dissenteria.
ho un forte mal di pancia
M'stò cacann'sotto . ( mstò cacann' sott' )


Ho finito il carburante.
ho finito la benzina
So' rimast a pere ( so rimast a pèr' )


Mi sento male.
mi sento molto male
M'sento na' chiavica. ( M'sent nà chiavc. )

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Il richiamo al ventre materno da cui è difficile staccarsi, un legame viscerale con tradizioni e persistenze misteriose che attraversano i secoli. Sarà per quell’ombra onnipresente della morte, il Vesuvio, l’innominabile, temuto in silenzio, un promemoria per non dimenticare che ‘a vita è nu ‘muzzeche (la vita è un morso), na’ sciuscata ‘e viento (un soffio di vento) e il vivere alla giornata è l’unica via d’uscita. Vivere a Napoli significa appropriarsi di questa filosofia esistenziale e imparare a sentirla e a comunicarla, per quanto possibile, con una lingua calda, piena di pathos, spesso icastica, affascinante per la carica preziosa dei suoi significati, elemento indispensabile per comprendere una civiltà, connotarla e renderla riconoscibile in tutto il mondo. Ancora oggi la parlesia, la parlata popolare di un tempo, si ascolta, fortunatamente sulla bocca di moltissimi, il gergo e la lingua della posteggia (attività dei cantanti girovaghi) appartengono, come sempre, ad ogni strato sociale. Il signore ha sempre vissuto accanto al popolo e quando si parla di centro storico pittoresco spesso si allude a questa connivenza vivace tra i piani alti e i piani bassi nei maestosi palazzi barocchi come in quelli più moderni. La lingua nasce come fusione tra il greco (Napoli fu fondata dai Greci nel VI secolo a. C. col nome di Partenope) e le parlate osche e sannite delle popolazioni indigene. Poi regolata dalla lingua latina ha subito l’influenza degli Spagnoli, la cui presenza si avverte ancora oggi, e più tardi dei Francesi. Si direbbe un popolo sbattuto da una dominazione all’altra. Eppure la città, che fondamentalmente è anarchica, o per meglio dire ingovernabile, è stata spesso teatro di rivoluzioni popolari: gloriosi masanielli hanno spesso arrevutato (rivoltato) le piazze. Il napoletano, in più di un caso, è polisemantico e polivalente. Ma l’intonazione della voce e il gesto sono complementi essenziali utilizzati da questo popolo drammatico per farsi comprendere universalmente. Ad esempio, un lemma certamente fastidioso, degradante ed offensivo se pronunziato senza una scintilla di calore e un brivido di humour, un lemma rimbalzato per l’intera penisola, è la battuta superlativamente espressiva cca nisciuno e’ ffesso. Questa frase, a seconda dell’inflessione di voce con cui la si pronuncia può esprimere un avvertimento, una sfida, un monito, una diffida. Spesso è il tocco finale che suggella tutto un discorso. Ma, se ci avviciniamo all’intima e polivalente sfaccettatura semantica, scopriamo che fesso è lo “scemo integrale”, chi non afferra a volo il significato di quanto gli si dice. Fesso è chi si brucia le dita accendendo la sigaretta; fesso è chi perde ‘a capa per una donna; fesso è chi paga più del dovuto o del necessario. Ma fesso è classificato soprattutto chiunque agisca scriteriatamente. Di conseguenza dare del fesso a uno non sempre costituisce un’offesa. «Quanto sì (sei) fesso!», detto con frequenza esasperante, finisce per lasciare indifferente chi se lo sente ripetere. A conti fatti, ogni buon napoletano riceve e regala l’epiteto almeno... tre volte al giorno. Al pari delle tazzulelle di caffè che sorbisce. Senza contare che non di rado fesso lo dice a sé stesso: «M’hanno fatto fesso!», mormora a fior di labbra con una punta di bonomia o di rabbia. Accanto alle colorite espressioni di derisione e di affermazione, un intramontabile frasario amoroso si ascolta nelle canzoni del repertorio classico, quelle scritte tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, quando nell’immaginario collettivo affiorano eleganti carrozze sul lungomare di via Partenope e inguantate signore fanno lo struscio (passeggiano su e giù) per via Toledo, mentre nei vicoli, tra i bassi affollati di popolani e panni stesi da una finestra all’altra, gli scugnizzi (tipici monelli laceri, cenciosi, ma furbi e di animo generoso), rincorrono il leggendario strummolo (trottolina in legno con punta metallica lanciata e fatta girare con sorprendente abilità, per mezzo di uno spago). Gran parte dei termini ed delle espressioni oggi usate si leggono già nel ‘600 ne Lo cunto de’ li cunti del Basile.