Il richiamo al ventre materno da cui è difficile staccarsi, un legame viscerale
con tradizioni e persistenze misteriose che attraversano i secoli. Sarà per
quell’ombra onnipresente della morte, il Vesuvio, l’innominabile, temuto in
silenzio, un promemoria per non dimenticare che ‘a vita
è nu ‘muzzeche (la vita è un morso), na’ sciuscata
‘e viento (un soffio di vento) e il vivere alla giornata è l’unica via
d’uscita. Vivere a Napoli significa appropriarsi di questa filosofia esistenziale
e imparare a sentirla e a comunicarla, per quanto possibile, con una lingua
calda, piena di pathos, spesso icastica, affascinante per la carica preziosa
dei suoi significati, elemento indispensabile per comprendere una civiltà, connotarla
e renderla riconoscibile in tutto il mondo. Ancora oggi la parlesia, la parlata
popolare di un tempo, si ascolta, fortunatamente sulla bocca di moltissimi,
il gergo e la lingua della posteggia (attività dei cantanti girovaghi) appartengono,
come sempre, ad ogni strato sociale. Il signore ha sempre vissuto accanto al
popolo e quando si parla di centro storico pittoresco spesso si allude a questa
connivenza vivace tra i piani alti e i piani bassi nei maestosi palazzi barocchi
come in quelli più moderni. La lingua nasce come fusione tra il greco (Napoli
fu fondata dai Greci nel VI secolo a. C. col nome di Partenope) e le parlate
osche e sannite delle popolazioni indigene. Poi regolata dalla lingua latina
ha subito l’influenza degli Spagnoli, la cui presenza si avverte ancora oggi,
e più tardi dei Francesi. Si direbbe un popolo sbattuto da una dominazione all’altra.
Eppure la città, che fondamentalmente è anarchica, o per meglio dire ingovernabile,
è stata spesso teatro di rivoluzioni popolari: gloriosi masanielli hanno spesso
arrevutato (rivoltato) le piazze. Il napoletano, in più di un caso, è polisemantico
e polivalente. Ma l’intonazione della voce e il gesto sono complementi essenziali
utilizzati da questo popolo drammatico per farsi comprendere universalmente.
Ad esempio, un lemma certamente fastidioso, degradante ed offensivo se pronunziato
senza una scintilla di calore e un brivido di humour, un lemma rimbalzato per
l’intera penisola, è la battuta superlativamente espressiva cca
nisciuno e’ ffesso. Questa frase, a seconda dell’inflessione di voce
con cui la si pronuncia può esprimere un avvertimento, una sfida, un monito,
una diffida. Spesso è il tocco finale che suggella tutto un discorso. Ma, se
ci avviciniamo all’intima e polivalente sfaccettatura semantica, scopriamo che
fesso è lo “scemo integrale”, chi non afferra a volo il significato di quanto
gli si dice. Fesso è chi si brucia le dita accendendo la sigaretta; fesso è
chi perde ‘a capa per una donna; fesso è chi paga più del dovuto o del necessario.
Ma fesso è classificato soprattutto chiunque agisca scriteriatamente. Di conseguenza
dare del fesso a uno non sempre costituisce un’offesa. «Quanto sì (sei) fesso!»,
detto con frequenza esasperante, finisce per lasciare indifferente chi se lo
sente ripetere. A conti fatti, ogni buon napoletano riceve e regala l’epiteto
almeno... tre volte al giorno. Al pari delle tazzulelle di caffè che sorbisce.
Senza contare che non di rado fesso lo dice a sé stesso: «M’hanno fatto fesso!»,
mormora a fior di labbra con una punta di bonomia o di rabbia. Accanto alle
colorite espressioni di derisione e di affermazione, un intramontabile frasario
amoroso si ascolta nelle canzoni del repertorio classico, quelle scritte tra
la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, quando nell’immaginario collettivo affiorano
eleganti carrozze sul lungomare di via Partenope e inguantate signore fanno
lo struscio (passeggiano su e giù) per via Toledo, mentre nei vicoli, tra i
bassi affollati di popolani e panni stesi da una finestra all’altra, gli scugnizzi
(tipici monelli laceri, cenciosi, ma furbi e di animo generoso), rincorrono
il leggendario strummolo (trottolina in legno con punta metallica lanciata e
fatta girare con sorprendente abilità, per mezzo di uno spago). Gran parte dei
termini ed delle espressioni oggi usate si leggono già nel ‘600 ne Lo cunto
de’ li cunti del Basile.