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di SUSAN SONTAG

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A UN'AMERICANA, e newyorkese, come me, triste e sgomenta, l'America non è mai apparsa così lontana dal riconoscere la realtà come quando si è trovata di fronte alla mostruosa dose di realtà di martedì scorso. La sconnessione tra quel che è successo e i possibili modi di comprenderlo, da un lato, e le sciocchezze ipocrite, le falsità belle e buone che, dall'altro, vengono spacciate in America da quasi tutti i politici e i commentatori televisivi è allarmante, deprimente. Sembra che le voci autorizzate a seguire un evento di tale portata si siano coalizzate in una campagna mirata a infantilizzare il pubblico. 

Dov'è chi riconosce che non si è trattato di un «vile» attacco alla «civiltà», o alla «libertà», o all'»umanità», o al «mondo libero», ma di un attacco all'autoproclamata superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane? Quanti americani sanno che l'America continua ancora a bombardare l'Iraq? E se la parola «vile» va proprio usata, forse sarebbe più pertinente riferirla a chi uccide dall'alto del cielo, al di fuori del raggio di possibili reazioni, piuttosto che a chi è pronto a morire per uccidere gli altri. Quanto al coraggio (una virtù moralmente neutra): qualunque cosa si possa dire di coloro che hanno perpetrato la carneficina di martedì, non erano vili.
I leader americani sono decisi a convincerci che tutto è ok. L'America non ha paura. Il nostro morale è intatto. «Loro» saranno stanati e puniti (chiunque siano questi «loro»). Abbiamo un presidente robot, pronto ad assicurarci che l'America resta ancora a testa alta. E, a quanto pare, le varie e numerose personalità pubbliche che si sono opposte con forza alle politiche estere adottate da questa amministrazione si sentono libere soltanto di dirsi unite nel sostenere il presidente Bush. Ci è stato detto che tutto è, o sarà, ok, anche se si è trattato di un giorno la cui infamia resterà viva e adesso l'America è in guerra. Non è vero che tutto è ok. E non si è trattato di una Pearl Harbor. E' necessario riflettere a fondo, e forse lo si sta facendo a Washington e altrove, sulla colossale inefficienza del sistema di intelligence e controintelligence americano, sulle opzioni possibili alla politica estera americana, soprattutto in Medio Oriente, e su ciò che costituisce un efficace programma di difesa militare. Ma chi ricopre cariche pubbliche, chi vi aspira, chi le ha già ricoperte - con la spontanea complicità dei principali mezzi di comunicazione - ha stabilito che non si può chiedere al pubblico di sopportare troppo il peso della realtà. Le ovvietà autocelebratorie e unanimemente applaudite dei congressi di partito sovietici ci sembravano spregevoli. L'unanimità dell'untuosa retorica di cancellazione della realtà che quasi tutti i politici e i commentatori americani hanno profuso in questi ultimi giorni sembra, be', indegna di una democrazia matura.
I leader e gli aspiranti leader americani ci hanno fatto capire che considerano il proprio compito pubblico un compito di manipolazione: di costruzione della fiducia e gestione del dolore. La politica, la politica di una democrazia - che comporta il disaccordo, che promuove la sincerità - è stata sostituita dalla psicoterapia. Certo, piangiamo tutti insieme. Ma cerchiamo di non essere stupidi tutti insieme. Qualche brandello di consapevolezza storica potrebbe aiutarci a capire cosa è appena successo, e cosa può ancora succedere. «Il nostro paese è forte», ci viene ripetuto continuamente. Io, per parte mia, non la trovo un'affermazione del tutto consolatoria. Chi dubita del fatto che l'America è forte? Ma l'America ha il dovere di non essere soltanto questo.

(traduzione di Paolo Dilonardo)
Copyright Wylie Agency

(da la Repubblica, 17 settembre 2001)

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