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    Giovanni Commare
    LA DISTRAZIONE
    (1998-1999)

                             ECLOGHE DEL CORSALE 
 

IL CORSALE: GIORNO D'AFRICA 
  

  

   La bella precarietà che fa la terra leggera 
   del cielo sorprende la sera come un velo 
   che scende sul lavoro degli uomini, ed è quiete 
   per lo straniero che giunge alla collina; 
   nella pianura la città inerte si congiunge 
   alla radura di sterpi che fu fabbrica, 
   dove i gatti vanno a caccia di piccioni e serpi 
   sotto la scritta che stinge sul muro di cinta, 
   VIVA LA CLASSE OPERAIA; di dolmen e rovine 
   il passato è un miraggio, per chi siede nell'aia 
   a viaggio compiuto, senza scorie e rimpianti, 
   come il pane e formaggio che mangia con gusto, 
   contento di sé e dell'ora acerba d'incanti; 
   nell'assenza degli dei e degli eroi, il tempo 
   si compie, come vuoto ch'avanza, e la mente 
   s'adagia nella dissipazione della parola, 
   sola compagna del corpo presente. 
  
 

  

   2 

   Dell'universo inermi ai soli indifferenti, 
   con la verità del corpo e la parola 
   che s'aggiunge al circolo perverso del dire 
   e del fare, e fa che noi non siamo di noi, 
   non siamo solo io; e viene un tempo, 
   che il corpo si tende verso l'altro 
   e la mente annusa l'odore di un tu, 
   altro e uguale, in cui, diversi se stessi, 
   perdersi e ritrovarsi; oscuro essere al di qua 
   dell'ombra, al di là il confine dell'indistinto, 
   e, di là dell'accadere e della forza, la madre 
   dell'ombra nel cupo cerchio della totalità. 
   Non siamo di noi oltre la linea dell'occidente 
   padre dell'io e del sé coscienza e ragione 
   spaesati in quest'altrove oltre il confine 
   della specie e di se stessi immemori. 
  
  
  
 

  3 

   Gode il prato solatio ch'esibisce, osceno, 
   i crocus residui del tempo ameno, quando 
   fa pace e guerra marzo all'umida terra 
   e, alle prime tepidezze, ne disserra 
   margherite stellate e rossi papaveri, 
   ch'ora s'aprono al sole e al seme lieve; 
   gode d'un vago piacere, ed è godere proprio 
   di piante e fiori e ogni varia erba, 
   che solo, vago, possiamo immaginare 
   nel non luogo che la stagione ci riserva, 
   a primavera, o nell'estate che finisce, 
   maturando, ed è colore ed essenza e odore 
   che pure a noi giunge e ci stordisce; 
   la casa oggi non s'addice al nomade 
   che giunge alla collina, senza nome, 
   monade innominata di candore. 
  
  
  
 

  4 

   Nella stalla d'urina e sterco lo straniero 
   si muove ad agio, come guerriero in fuga 
   che cerca scampo in una selva ombrosa; 
   in granuli ascende la luce, polverosa, 
   alle bocche di lupo, e nella frescura 
   delle ragnatele e dei fiori di salnitro 
   un grigio secolare riposa l'occhio; 
   alla giovenca immobile, viva e bianca, 
   che biada rumina, alla mangiatoia, e crocchia, 
   il volo dell'angelo fa tendere l'orecchia; 
   l'uomo non è più solo, nell'innocenza 
   che contempla il mondo in cui si specchia, 
   altro da sé, ma l'altro, ora, è presenza 
   e luce, lui, nello sguardo chiaro di madonna, 
   domina e materna, che nasce a vita nova, 
   di seducente natura, e si rinnova 
   nell'angelo bestiale, alla frescura. 
  
  
 

 5 

   Fila dal tenue rosa lucente materia, un cosmo 
   d'umore, un fiore, una danza di pieghe carnose, 
   come rose che aprono, e chiudono, un mistero, 
   una pioggia di luce precipita, e domanda 
   il vero rischio di sapere questo, e amare, 
   come mare che cede alle dita e preme, 
   dolce, la carne, che molle s'apre e freme. 
  
  
  

   6 

   Dove arriva la luce, dove il sapere dell'uomo, 
   temerario, nel muggire fesso della carnalità 
   che s'impiaga, nel precario stare del sole; 
   dove l'anima cede a lucide astrazioni 
   e la pervinca cela scarti d'emozioni; 
   dove, madonna di rare parole, siedi, 
   nel bel compasso delle gambe e dei piedi; 
   dove s'erge, su un dolce monticello, 
   una sottile striscia di ombre strambe; 
   dove si bagna la piega delle labbra 
   e luccica, bava, come lumaca all'alba; 
   dove s'inchina l'uomo, casto, e prega 
   tutte le litanie delle antiche prefiche; 
   dove s'incunea bianca scia di mare, 
   come barca, tagliando le onde schiumose, 
   i petali scuri, e le fresche mimose, 
   dove s'attacca l' uomo di livore e amore. 
  
 

 7 

   L'anima, immobile nei meati del corpo, 
   non ode più la grida del mondo, 
   le mani di madonna, nel profondo, aprono 
   la carne del capro,  trasparente, e docile 
   d'essere nato all'espiazione; 
   ed ecco l'orrore d'aprirsi alla vita, 
   che lucida rosseggia, nel meriggio, 
   e subito s'imbruna in una sera; 
   trasumanare è questo stranire, grigio e mesto, 
   con un walzer d'astri, da vecchia balera, 
   mentre la marea sale e, come corpo, 
   tra terra e cielo, inerme, lo introduce, 
   dal buio delle cose al giorno luce. 
 

   8 

   Non c'è male, non c'è destino nell'indistinto 
   confine del mogano che lo sciamano ha inciso, 
   e in cui ristanno, indifferenti in viso, 
   la grande madre e il maschio, lucidi per l'uso, 
   ai riti lustrali, ai baci delle streghe 
   che lisciano venature, tastano le pieghe 
   nell'immobilità tiepida del legno, un segno 
   colgono del tempo che si annuncia, una rinuncia 
   alla foia dei maschi che l'irrorano di seme, 
   alla gioia della carne che fu fibra del bosco 
   e, adesso, geme per l'insana passione; 
   trasumanare nel regno del corsale, 
   dove tutto è sacro, tutto profano, anche 
   l'umano modello d'armonia, cui la specie 
   è restia, nella feroce astrazione che 
   della vita è il sale. 
 

  

   9 

   Vanno, lui e lei, quasi danzando 
   intorno al ceppo della madre, quando 
   s'incendia il giorno d'Africa, 
   e si fa l'aria aprica 
   sulla collina di crocus, e papaveri; 
   contro il vento africano 
   si tengono per mano, 
   signori veri del giorno 
   che agli ulivi fa guerra, 
   sugli ori dei clivi danzando 
   intorno al ceppo bruno, che sarà 
   il letto della casa austera, 
   tra pergola di fragola, e cimasa, 
   quando leggera risplenderà la terra, 
   sola, nella sua bella precarietà. 
 

   IL CORSALE: NOTTE D'AFRICA 
  

   1. 
  

   Nuovo mattino, dove tu canti e danzi 
   nel silenzio della mente e del cuore, 
   lasciandomi in pegno nostalgia; 
   perché tanto la vita è così, 
   una meta, un segno quale che sia; 
   perché tanto alla vita altro che noi 
   un senso lo diamo, anche solo nel sogno; 
   perché tanto ti amo, dici, nel sonno; 

   siamo stati felici, triste è il risveglio, 
   mentre le tamerici sbianca la brezza 
   che sale, e di meglio non si può fare 
   che ricordare, le ombre che vivono 
   nelle case di sabbia portate dal vento; 
   grate compagne della notte, restate 
   nel calore del corpo, nella terra, 
   nella parola, un'altra volta ancòra. 
 

  

  2. 
  

   Dunque l'altro figlio eri tu, 
   la figlia perduta, la paura di perderti 
   era gioventù, la tua, finché sciocco 
   nell'arco il tempo scoccò la possibilità, 
   l'età, dico, la tua, che mi espone 
   al ricatto della memoria, a farmi 
   lontano dalla storia figlia. 
  
  
  

   3. 

   Secca sulla scala la tua dalia 
   e la giunchiglia marcita nella sala, 
   torna, vuota, la mano che ti cerca, 
   al viso, segnato dal giallo dei gigli 
   di mare; umile, come un musulmano 
   prono verso l'oriente della Mecca 
   da questo deserto d'agavi t'imploro; 
   sei tu, madre, che torni a trovarmi, 
   perché ingrato non sono, 
   con le natiche flosce e piagate 
   che la vecchiaia impudica offrì in dono 
   al Cristo, che pregò dignità (il riscatto) 
   imprecando  le povere carni; 
   sei tu che torni, col figlio ballando, 
   col figlio coglione, in un film 
   sulla miseria borghese, sulla rivoluzione; 
   meglio non esserci, meglio la nostalgia 
   che avere generato una nuova solitudine; 
   lo vedi, mi lascio incantare dal suono 
   delle parole, in cui canti e danzi, 
   ho persino imparato il verbo sprimacciare, 
   per alimentare il ricordo, con gli avanzi; 
   ma il nido spappola dei tritoni il suolo, 
   sente l'odore del latte nel catino 
   e non eviterà la trappola, del tuo bambino; 
   lo vedi, torna la vedova consolata, 
   la vita insopportabile, insopportata, 
   il meglio di sé nella vestaglia unta 
   che quanto c'è da vedere svela, 
   sulla vita maledetta dei figli, 
   poiché ha deluso, la sua colpa rigetta; 
   e si scopre porgendo un geranio 
   dal tuo balcone, dove nasce il sole. 
 

   4. 
  

   Lo conosco, questo odore di bruco, 
   quando passi all'altra il testimone 
   che contende curiosa alle ombre 
   il ricordo, movenze di voci evocando, 
   le croci della tua vita alla tramuta, 
   l'altra figlia perduta, sorella, che sa 
   niente da dimostrare, se non il segno, 
   per farmi dispetto, la meta, e ci gioca 
   con gli occhi ridenti, la danzatrice, 
   con l'ombelico dorato che bevo d'un fiato; 
   non mi hai deluso, dico, senza ritegno, 
   hai vinto giocando da sola, mostrando 
   un ginocchio su quella strana giostra, 
   intorno intorno girando sotto la pioggia 
   a Holden felice guardando. 
  
  

   5. 
  

   E guardo felice 
   come triste è il risveglio, 
   e in pegno mi tengo 
   la dolce nostalgia 
   che mi avete lasciato, 
   che in voi ho lasciato, 
   ombre belle, e carnali, 
   in cui mi riconosco, 
   ombre mie velate, 
   che a me, con amore, 
   sempre amate venite, 
   vane, mai quiete 
   nel vostro sonno, o sogno, 
   quello breve d'un attimo 
   che stanotte m'è dato, 
   o venute in cerca di senno, 
   d'un segno breve d'eternità, 
   del corpo desiderato 
   ombre. 
  
  

   IL CORSALE: LA GUERRA 
  

   Vieni, mio sposo, all'ombra del vecchio carrubo, 
   concedi al tuo corpo riposo, e piacere alla mente, 
   prima che il giorno finisca sul mare viola e io 
   resti sola, per lunghe notti, in attesa d'aurora, 
   senza mano o voce che consola il tuffo del cuore; 
   perché sarai lontano, lo so, amore, in un paese 
   straniero che arido già ti fa per la tua terra; 
   ma qui non c'è più pace, e la giustizia è oblio. 

   ( Vieni, mio sposo, all'ombra del vecchio carrubo ) 

   Più ancora, oggi, è arido il mio cuore, per la guerra 
   che divora gli uomini, le opere, e la giustizia, 
   in questa terra che ho seminato con sudore, 
   ora terra di dolore, a me, a te, gioia della vita, 
   perché la speranza è finita in lutto, per la parte 
   che tutto voleva cambiare con arte e misura; 
   ora si fa più dura la tracotante violenza, 
   di serpi una discendenza ogni famiglia alleverà. 

   ( Più ancora oggi e arido il mio cuore per la guerra ) 

   Godi, mio sposo, ancora l'ombra del vecchio carrubo, 
   pure se qui, nel cavo tronco, s'annidano le serpi, 
  sui dolci ulivi, sulle viti umili il tuo sguardo correrà, 
   l'ultima volta, prima che il sole tramonti, ma 
   il lavoro ben fatto di te serberà memoria, 
   anche se gli avidi segugi del divoratore di doni 
   i grappoli coglieranno, gravidi di mosto, e le olive, 
   questo resterà il posto dove il tuo occhio vive. 

   ( Godi, mio sposo, ancora l'ombra del vecchio carrubo ) 

   Gli occhi sono stanchi di sole, la mia mente confusa 
   per il sonno di morte, attendo la notte un presagio, 
   un paesaggio, nel sogno che trapassa questo giorno 
   rosseggiante di vendemmia, e, sulle opposte rive, 
   i contadini che covano vendetta tra i filari, 
   mentre nei tini il mosto fermenta, matura il tempo, 
   allegri bambini in trionfo, serrati nel grido, 
   assisi, come avvoltoi, sui corpi degli uccisi. 

   ( Gli occhi sono stanchi di sole la mia mente confusa ) 

   Godi all'ombra del carrubo la sposa vicina, 
   riposa, e dalle cupe angosce libera la mente; 
   guarda all'orizzonte, fumano i bianchi casolari, 
   ciocchi d'ulivo e tralci nei focolari bruciano, 
   parca cena preparano le donne e ai lari della casa 
   un sacrificio; per la chiocciola che sulla brace 
   sfrigola ride un bambino; di te parleranno, finché 
   capaci di storia gli uomini saranno, e di memoria. 

   ( Godi all'ombra del carrubo la sposa vicina ) 

   Non dà pace a chi parte la memoria, la storia, 
   non come sacerdote ulula la vittima del sacro, 
   meglio dimenticato, pruno, cardo, sasso della terra, 
   non agnello che consacra i lupi vincitori; ecco, 
   cloccare senti i carri dei potenti usurpatori 
   che prendono possesso dei campi, assegnati dal re; 
   per il sentiero, solo a noi noto, alle case avviamoci, 
   ma prima amiamoci, al fresco del carrubo, ultimo dono. 

   ( Non dà pace a chi parte la memoria la storia ) 
  

   Godi, mio sposo, il corpo della sposa, ultimo dono 
   del carrubo contorti rami che fu tempio e fortezza, 
   tua via al cielo sulle ali di gazza, nido spinoso, 
   che domina l'acropoli e l'azzurra distesa del mare; 
   andrai, dopo, nell'aria autunnale, alla terra più arida, 
   come gelida ombra di dio, solo, con mente confusa; 
   memoria lontana, l'assenza resta, che dipana il tempo, 
   senza storia, sogno di primavera, un bimbo dispera. 

   ( Godi, mio sposo, il corpo della sposa ultimo dono ) 

   Lungo la siepe dell'agavi l'ultima volta andremo, 
   sole, e luna, di settembre, che imbianca la campagna, 
   sete, e acqua di mentuccia che seduce la cicala, 
   assetata di rugiada; compagna è a noi la spada, 
   signora del nulla, e, qui, nulla più accade; da oggi, 
   felice è chi ha perduto ogni speranza nella culla; 
   a chi è saggio, ecco, il mio saluto, il buon viaggio 
   a me, a te, che corri nella notte, in bicicletta. 

   ( Lungo la siepe dell'agavi l'ultima volta andremo ) 
 

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