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                    CEVENGUR,  NELLA VALLE DEL BELICE

   Sullo sfondo l’immensa tristezza dei Grande Cretto di Burri che copre i ruderi del paese distrutto dal terremoto. Nel deserto della città morta di Gibellina nasce e muore Cevengur, villaggio non segnato su nessuna carta e abitato da "quelli che restano", i marginali, gli sbandati. Dieci stralunati uomini s’intravedono attraverso un’ enorme parete di ferro e plexiglas Poi arrampicandosi e aggirandola emergono nell'al di qua, dove siamo noi di questo mondo di rovine, e si collocano in fila su una stretta asse tra la parete verticale e la grata di ferro scuro che copre il lago.Un fossato che circonda tutto il quadrato della struttura scenica, li isola ancor più in una dimensione simbolica.
   Sognano e parlano, parlano sognando di eternità infinito giustizia e felicita', della possibilità di vivere senza lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma soprattutto, senza la necessità del lavoro, senza il dolore. Si misurano col cielo stellato sopra di loro e decidono di provarci a costruirlo questo Mondo Nuovo, qui e ora. Sono tutti uomini; fra loro uno che si chiama Dio e contesta l’esistenza di quell’altro che sta nei cieli; uno che nella desiderata condizione di libertà vuole avere nome ed è Fiodor Dostoevskij; un altro innamorato della memoria di Rosa Luxemburg. Dal gruppo si diparte il Pescatore, che nella libertà vuole conoscere la Morte, perché nessuno muore se non vuole e la vita continua in altra forma, come i pesci dallo sguardo impassibile che non parlano ma sanno tutto. Dopo aver affidato ai compagni un pegno per il figlio che prima o poi arriverà,  s’immerge nel lago e scompare.
   La parete si inclina sino a raggiungere il piano orizzontale e a formare la pedana su cui si costruirà il Mondo Nuovo. In fondo allo scavo si scoprono case-cella di scuro metallo e tutt’intorno tre rettangoli cimiteriali con badili dai manici a croce. Gli abitanti di Cevengur passano all’azione per realizzare l’utopia: vivere sulla terra come i pesci nel mare. Perciò devono eliminare l’unico impedimento, i proprietari della terra. Si precipitano nel buio alla caccia e tornano con le loro prede, miseri corpi nudi in sacchi di plastica. Le vittime vengono finite sotto i nostri occhi e coperte di terra. La terra del Nuovo Mondo è bagnata dal sangue dei sacrificati all’utopia; la terra di Cevengur.
Alla condizione di libertà raggiunta gli stralunati visionari trovano il nome COMUNISMO. Poco a che vedere con l’esperienza storica e con la teoria del marxismo-leninismo: a Cevengur hanno realizzato la liberazione dal lavoro  e vorrebbero essere liberi anche dall’infelicità e dal dolore Un bagno purificatore nelle case-cella segna la catarsi e il nuovo inizio "se il Sole sorgerà ancora". Il Sole sorge, un cane abbaia, gli uccelli volano. La natura procede "come prima", indifferente alle vicende umane. Ma d’ora in poi a Cevengur soltanto  il Sole lavorerà.
    Arriva una madre con in braccio un bambino morente, vorrebbe glielo facessero vivere ancora qualche minuto. Nel comunismo dovrebbe esser bandita anche la morte, ma, nonostante tutti i tentativi di rianimarlo, il bambino muore. La madre in sogno lo rivedrà camminare e questo basta ai comunisti di Cevengur per non perdere l’illusione di aver un qualche dominio sulla morte. A consolarli, ad aiutarli a vincere il dolore c'è sempre la solidarietà che li unisce in un grande abbraccio.
Á Cevengur arriva anche Sacha, il figlio del Pescatore, solo, malato e disperato. Egli ha ormai un unico desiderio: raggiungere il padre in fondo al lago. Questa brama di annullamento sconvolge i comunisti del villaggio perché è la negazione radicale del Mondo Nuovo  che stanno costruendo. Perciò alla missione di salvare il giovane, prima impedendogli di gettarsi nel lago, poi scaldandolo e nutrendolo, sacrificano tutto ciò che hanno: un fiammifero, un uovo, persino la "Pravda" con l'articolo commemorativo su Rosa Luxemburg. Il successo dell'impresa rinnova la fiducia nel comunismo e fa nascere l'idea di glorificarlo con un monumento, che nascerà dalle pietre, dal ferro, dal fuoco e sarà coronato dalle croci dei badili. Compiuta l'opera i sognatori di Cevengur si stringono in un forte abbraccio e si allontanano verso il buio.
    In un luogo del Vecchio Mondo, intanto, lontano dal villaggio, s'incontrano Sofia e Simon. Lei attende, a suo modo felice, l'amante perduto, l'amante perfetto che nulla chiede e il cui abbraccio dà la quiete, l'appagamento assoluto. Lui, solo e disperato dopo la morte della madre, l'unica persona che lo amava, è affascinato dalla capacità di amare e attendere di Sofia. La convince a seguirlo nel viaggio che ha intrapreso: è stato inviato da Mosca a indagare su Cevengur, che ha fatto registrare un calo nella superfice coltivata e sembra scomparsa nel nulla; ma vuole anche visitare la tomba della madre. E qui, nello stesso cerchio di pietre e fuoco in cui Sacca è stato curato, si ameranno. 
  I comunisti di Cevengur vedono i due amanti abbracciati, persone provenienti dal mondo dimenticato, e sono assaliti dai ricordi, dai desideri che hanno rimosso, dagli amori, dalle altre vite che avrebbero potuto vivere. Ognuno insegue la visione della donna che ha amato e si perde nel ricordo, nella nostalgia di ciò che poteva essere e non è stato. Anche Sofia, che ha riconosciuto in Sacha l'amante perduto. Il comunismo di Cevengur non esaurisce tutti i bisogni dei suoi abitanti. Ci sono altri mondi da cercare, da costruire, dove sia possibile vincere l'infelicità, il dolore, la nostalgia. Perciò gli utopisti di Cevengur e Sofia e Simon raccolgono le pietre del monumento al comunismo e s'immergono, uno a uno, nel lago, esprimendo un loro desiderio per il futuro, per quel Mondo Nuovo che non può essere descritto, ma deve essere costruito.
 A Cevengur restano i segni della presenza umana, panni, terra, pietre emerse dal lago, che tutti insieme, alzandosi la pedana sino a diventare la parete diafana dell'inizio, precipitano in un ammasso confuso, prima che il villaggio scompaia per sempre.
 Spente le luci di scena, nel buio si accende il labirinto  del Grande Cretto, il sudario di grigio cemento steso su un altro villaggio cancellato dalla storia.
  A questa vicenda ha assistito il vostro cronista nella Sicilia estrema, ne è rimasto commosso e ha voluto raccontarvela. Sapete di chi è? Del buon Andrei Platonov(1899-1951), quello di Ricerca di una terra felice (Einaudi, 1968), che la scrisse in forma di romanzo nel 1927 e mai la pubblicò in vita, a causa delle attenzioni che gli dedicò Stalin (lo definì  "porco") per le quali scontò carcere e confino. In URSS l'opera fu pubblicata solo nel 1989, all'epoca di Gorbaciov per intenderci, ma era già uscita in Italia in un'edizione  Mondadori del 1972, poi ripresa da Theoria nel 1990, con il titolo Da un villaggio in memoria del futuro. Ora l'ha messa in scena, per le Orestiadi 1999 di Gibellina (TP), Lev Dodin con la Compagnia del Maly Drama di Pietroburgo in coproduzione con Weimar Kunstfest. In autunno lo spettacolo andrà a Pietroburgo e al Festival di Salisburgo; dovrebbe essere rappresentato anche al Piccolo Teatro di Milano nel corso della prossima stagione.
  Vi stupite che questi eventi accadano nel profondo Sud ? Stupitevi ancor di più per il fatto che un regista e un teatro russi ci propongano una riflessione sul comunismo come utopia, nominando la parola che oggi, soprattutto in Italia, si vuole rimossa dalla storia. Le cose più terribili vengono fatte non per odio ma per amore, dice Dodin offrendo una chiave di lettura della sua regia. Possiamo non essere del tutto d'accordo con questa interpretazione, ma dobbiamo essere grati a Lev Dodin e alla splendida Compagnia del Maly Drama per essere venuti dalle rovine dell'impero del Male a ricordarci la terribile utopia della libertà dal lavoro, che non si esaurisce sul terreno dell'economia perché coinvolge il desiderio di andare oltre il mondo della necessità e del dolore. Platonov si confronta con il mito staliniano dell'uomo nuovo per evidenziare i limiti della politica : nessuna organizzazione della società può pretendere di soddisfare tutti i bisogni di ogni uomo e di occuparsi della felicità degli individui. E tuttavia, proprio mentre fa una critica radicale al totalitarismo staliniano, ripropone la necessità dell'utopia, la sua irriducibilità al dato storico, la necessità di un mondo altro, del mondo come vorremmo che fosse, per uomini degni, liberi e giusti. L'interpretazione di Lev Dodin si confronta con gli orrori del presente e ammonisce gli amanti dell'utopia affinché il sogno di realizzare il paradiso in terra non crei l'inferno per sé e per gli altri.

                                                        Giovanni Commare

Cevengur,  dal romanzo di Andrej Platonov, adattamento teatrale e regia di Lev Dodin, Compagnia del Maly Drama di Pietroburgo, Gibellina (TP), Teatro dei Ruderi, 27-31 luglio 1999.

(in Il Grandevetro, anno XXIII, n.149, ottobre-novembre 1999) 
                                                                  
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