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Giorni dei morti 

La scrittura dei giorni è stata incerta,
senza uno stile, nell’affanno
spocchioso di dare forma al destino.
Così la vita è stata lo sfondo della vanità,
tra città affaticate di palazzi 
e stinte fioriture di ricordi.

Ora noi mastichiamo pagine di stanco commento,
dove il fardello della memoria stenta
a trovare un richiamo. Tu solo
conosci il romanzo originale,
il testo che ci accanimmo ad annotare
sulla base d’improbabili frammenti. 
Tu solo puoi narrarcene la trama,
ora ch’è sera e la stanchezza è pace.


 Mario Girolami, Impronta, Pistoia, dicembre 2001

Gianni Elisi 

E bravo Gianni Elisi, ti sei tolto
di torno e ci hai lasciati secchi 
e dolenti
tutti quanti. E’ bastato
un urlo lungo dal cotto del balcone
e poi via, a inseguirlo nel buco
della notte, nelle voglie
di questa umida pancia dell’estate.
E noi qui, che a mezza costa, a mezza
sera trattenendo nell’anima il tramonto,
ricordiamo di te che ci hai fottuti

 - o era  un malinteso,  tutto
 un darsi ad intendere? ed invece
 ce l’hai detto ogni giorno che nel buio,
 quando scappano la luna e le stelle, quando gli occhi
 sbattono contro il niente e un fischio corre
 non si sa dove a perdersi, perché
 non c’è più dove, non c’è dove perdersi, 
 a volte un microbo lento,  nel letargo
 di secoli di geni, si risveglia,
 e attacca il sangue, infetta il cervello, 
 e allora, d’improvviso, come un herpes
 a infiammare la corteccia dei pensieri,
 s’arrossa dentro il petto, resistente 
 agli antibiotici, 
la nostalgia, la nostalgia dolente.

Oh Gianni, Gianni, raccontavi il passo
da mezzofondo, dal cuore ai pantaloni,
dai pantaloni su dritto alla gola, 
che batte in corpo quando, tutta eguale
dal primo giorno del mondo fino ad ora,
la vita prende uno in mezzo a tanti
e si mette a smaniare, se lo sbatte
come lei vuole, e tu non hai risorse
per trattenerla al muro, dove l’ombra
s’è già distesa, s’è già arresa al niente.
E noi, silenti, ad ascoltarti, chiusi
e perplessi, innamorati d’aria
svelta di vento su dalla pianura
per questo refrigerio a mezza estate,
ad ascoltarti, sì, come tu fossi
l’ultimo fiato della nostra calura,
come un fastidio che la lunga giornata
ostina, a volte, per lasciarci più inermi
dentro la grande notte che s’avventa.

Oh: così dolce è vanità che abbraccia
le nostre afosità in cerca d’affetto? 
e una rottura di scatole, invece,
una piccola eco che trafela
come tua voce ancora alla memoria,
come tua voce là, sulla collina
a fare fresco, quando il giorno cala
e da una legge che mai il cielo dirompe
tornano, tutti eguali
dal primo giorno del mondo fino ad ora,
i luminari ad uno a uno e tu
“c’è un‘altra notte” dici “un’altra
morte che aspetta, e la luna e le stelle
sono il suo buio che la copre e nasconde
al bruciore del ricordo impazzito,
al desiderio che tra cervello e cuore
ne fruga le infezioni.
 O voi perplessi,
 ma non sentite anche in questa frescura
 arida del tramonto o quando passa
 svogliatamente ad altro autunno la terra
 e piano piano le nuvole, raccolte
 a raccontarsi, macinano pioggia, 
 non sentite anche voi, tra pelle e nervi,
 stritolarvi il languore d’un fantasma mai
 apparso, d’un sogno
 mai sognato, d’un innamoramento 
 cui neppure per un attimo fu dato
 guardare lei che di tutte è più bella?”

Così l’estate andava. E lentamente
i nostri occhi prendevano a guardare
dove guardava il tuo sguardo assente.
E in quel pungolo di spirito e di carne
si consumava  un po’ per  volta l’attesa,
e noi, più vecchi e di saggezza inerte,
ci riempiva un rancore, ci sfidava
la pretesa di piegare le vertebre
senza spezzarci al tuo racconto d’amore.

“Ma non sentite come si fa più stretta
la speranza e ogni tramonto è un ingorgo
dove s’inceppa, come voce di rovo,
come spina di tempia e spasmo di nefrite,
lo slancio del domani e si fa d’asma
piatta e feroce il grido della carne,
l’acuto che vorrebbe in un istante
trapassare le vetrine del firmamento
e piantarsi nel pruneto del ricordo?
O dolenti nell’esilio dei giorni,
figli dell’indigenza che a ridosso 
del desiderio vi ossessiona d’acari, fratelli
nel rimorso” 
                      e se ne andava
la tua voce laggiù, dove la piana
più affollata di case e di sogni
schiaccia sull’orizzonte, e noi nel giro
vuoto della memoria ti vediamo
a tarda estate calcolare il vento,
calibrare la traiettoria delle comete,
lanciare il grido
e inseguirne il dileguo.

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