Giovanni
Commare
L'altro e oltre
" visto in fotografia non è
poi cosi brutto,
ha una sua armonia (che contraddice
il tutto)
segue distinto un ordine suo per
anarchia
contro dell'insieme l'ordine cui
appartiene;
chi sa che partenogenesi, soddisfacente
istinti
cromosomici balbettii d'indistinti
iddii
che reclamano un posto, la loro posizione
nella storia dell'evoluzione della
specie sapiens,
salto di qualità verso un'oscura
umanità;
né di qua né di là io,
assediato da due ordini
ai richiami del senso sordi, l'uno
e l'altro
corpo non pensato, innamorato
non eletto
ma dato nell'assenza di senso del
conflitto
che per convenzione è detto
vita e morte;
chi è io chi è altro
tiriamolo a sorte,
sai che in fondo io è un gran
conservatore
si riconosce in ciò che esiste,
nella continuità,
altro è l'impostore, la cosa
nuova che cova
ciò che nega l'impotente pretesa
di unità;
ma non è niente, è uno
che gioca a rimpiattino
con quella bieca voglia di dissoluzione,
un capriccioso che di rado ride ...
un sapientino
che chiama in lizza te, vecchio ragazzo,
in questa generale genetica precarietà;
e tu non declinare le generalità,
chiedi al corpo tuo ordinario un
bel respiro
di parole azzurrine d'orizzonte marino,
chiedi a io di tenersi lucida la
mente
mentre cala il sonno del ghiro sulla
brulla
frontiera del citoplasma, e la risacca
si placa;
lo sguardo assassino, vedi, è
piuttosto un bambino
forse frutto d'amore di platano o
brughiera,
ancòra una preghiera, a te
di essere chiedi
di te stesso abitatore insino
al confine
del limpido nulla, e sempre curioso
del mattino. "
Andrea Dami, Crocevia, Pistoia, dicembre 2001
ASPETTANDO L’IMBARCO
I
Sotto la vite sonnecchia il coniglio
quasi un figlio per il cane di mia figlia
che si diletta delle cose strane.
Altro non so che sonnecchiare anch'io nella canicola,
mentre attendo l'imbarco
e sento da un orecchio disputare
(di qua di là dal mare)
di occhi azzurri e di pozzi da salvare.
La danza del cuore ti annuncia da lontano.
Tra le cose vane che la paranza riporta dal mare
l'occhio ti vede con le ali nel nome leggera
una lieve maestà con pelle di murena
che voli sull'abisso tutto seduzione e azzurrità.
Dove eri andata, e a che fare, domando,
da una riva all'altra del mare.
Il bisogno di riconoscersi, rispondi.
E ricordi quando ti ho conosciuta
al tempo che non ti riconoscevi più
e le parole erano grumi del corpo inariditi dal sole
che se li portava via fra i fumi degli incendi estivi.
Ma tu vivi e la tua voce canta.
Vieni dalla vasta prateria americana
dove hai danzato in compagnia dei sogni dei filosofi,
i peggiori per la vita dei mortali.
"Bevilo tutto il calice,
guardati nello specchio.
Guardati.
Vedi come il mio corpo è nuovo
come più armonioso lo muovo
e il resto non ti dico,
che non oso.
Bevilo tutto il calice".
Chi te lo offre è bello e giovane
e ti chiama al duello.
Non tanta parte di me ha radici in un unico luogo
di questa terra (non avrei immaginato, mai)
ed è l'eredità della guerra a cui mi chiami,
nella vasta prateria americana,
che mi chiude al resto del mondo
ed è carcere e corona alla parte di me
che germogliava appena dopo il lungo silenzio.
E tu dici che ami.
Lo so, dico; lo vedi: è di una città che abbiamo bisogno.
Lascia l’eredità, lascia questo e quello,
rinuncia al duello.
Lascia stare,
impara a cucinare,
ho in mente una ricetta di zucchine
e fresco per l'estate un tabulé
afrodisiaco pure per beghine.
T'insegnerò l'arte di mangiare,
come si beve un vero caffè.
Lo vedi: è di un’altra città che abbiamo bisogno.
Perché qui siamo poveri d’amore.
Deponi l'amaro calice del sogno
dove s'è macerata l'allegria del corpo
e siedi con noi all’osteria.
Tra queste vite d'ombra
tu che ombra sei riacquisti vita.
So quanto ti è costato di gioventù,
quanta parte di te ha consumato.
Alla felicità non manca ora
che una sfumatura di colore.
Resta nella vecchia Europa dai sentieri tortuosi,
scegli le città dalle strette vie,
a noi che siamo assuefatti a quest’assenza ricorda
che c'è ancora una speranza.
Non è insipienza.
Sotto il sole africano
i giovani cinesi cucinano la minestra di spaghetti e gamberi
e la dividono con noi
curiosi della loro sapienza.
II
Vuole dire l'essenza della cosa
prima che diventi un nome il verso
che sente il ritmo del mondo,
qui ti attendo tra le pieghe della vita
prima che sconti la coscienza del male
il pensiero musicale.
Sospesa sull’abisso del mare agli occhi miei
tra le vite d'ombra tu che ombra sei
vita riacquisti
mentre dici bella l'estate senza ragione
che riporta l'allegria del corpo.
Dove ti eri persa ti sei ritrovata,
lo sai, nella musica delle parole.
Cavare, togliere è l’arte
perché nel vuoto sia l’epifania dell’io
e di qualche verità un balenio.
Ora che ti vedo eretta nell'agile busto e bella,
godo di vederti contenta nel gesto delle ballerine.
Nel tuo stare bene c'è una parte di me,
un passato di zucca e la pasta con zucchine.
E tanto basta.
III
Di là dal mare altri ulivi e palme da datteri.
I pescatori imbarcano le reti
e le donne, dicono, nel tophet spargono latte
intorno ai sepolcri dei sacrificati per la flotta che parte.
Un amico avverte che impossibile è il viaggio
e la barca che ci attende alla riva
ora è in ostaggio.
Ecco un coniglio bianco nato per la neve
ma corre sulla rena ardente d'un paese africano.
Mentre si prepara la caccia,
dal pennone più alto i mozzi si sbracciano felici
come avessero raggiunto terra illesi.
Non sanno che sono avvelenati i pozzi
e di quelli che c'erano fratelli non c’è più traccia.
Ma forse noi poveri d'amore non ci vogliono laggiù,
ci lasciano qui arsi dal sole
e rassegnati a quest’assenza.
Vai tu che puoi intanto.
Vola lontano, nella leggerezza.
Per noi non ti preoccupare.
Qui la sera avanza e porta un po' di brezza sulla riva
dove si sta in attesa dell'imbarco.
Giunge notizia d’uno sbarco di curdi e d’albanesi.
I cani latrano,
per le strade sparano.
Noi siamo illesi,
ma non partiamo più.
Vola, torna lontano tu.
Non ti allarmare dell’orrore quotidiano,
del nostro rassegnato torpore.
Prega semmai, se vuoi,
che il nostro inferno sia
solo un po’ più in là
e la felicità
una lieve sfumatura di colore.
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