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L'altro e oltre 

   " visto in fotografia    non è poi cosi brutto,
   ha una sua armonia    (che contraddice il tutto)
   segue distinto un ordine    suo per anarchia
   contro dell'insieme    l'ordine cui appartiene;

   chi sa che partenogenesi,    soddisfacente  istinti 
   cromosomici balbettii    d'indistinti iddii
   che reclamano un posto,    la loro posizione
   nella storia dell'evoluzione    della specie sapiens,
   salto di qualità    verso un'oscura umanità;

   né di qua né di là io,    assediato da due ordini
   ai richiami del senso sordi,    l'uno e l'altro
   corpo non pensato,     innamorato non eletto 
   ma dato nell'assenza    di senso del conflitto
   che per convenzione è detto    vita e morte;

   chi è io chi è altro    tiriamolo a sorte, 
   sai che in fondo io    è un gran conservatore
   si riconosce in ciò che esiste,    nella continuità, 
   altro è l'impostore,    la cosa nuova che cova
   ciò che nega l'impotente    pretesa di unità;

   ma non è niente, è uno    che gioca a rimpiattino
   con quella bieca voglia    di dissoluzione, 
   un capriccioso che di rado    ride ... un sapientino
   che chiama in lizza    te, vecchio ragazzo, 
   in questa generale    genetica precarietà;

   e tu non declinare    le generalità,
   chiedi al corpo tuo ordinario    un bel respiro 
   di parole azzurrine    d'orizzonte marino,
   chiedi a io di tenersi    lucida la mente 
   mentre cala il sonno    del ghiro sulla brulla 
   frontiera del citoplasma,    e la risacca si placa;

   lo sguardo assassino, vedi,    è piuttosto un bambino
   forse frutto d'amore    di platano o brughiera,
   ancòra una preghiera,    a te di essere chiedi 
   di te stesso  abitatore    insino al confine 
   del limpido nulla, e sempre    curioso del mattino. "


Andrea Dami, Crocevia, Pistoia, dicembre 2001
 

ASPETTANDO L’IMBARCO

I

Sotto la vite sonnecchia il coniglio
quasi un figlio per il cane di mia figlia
che si diletta delle cose strane.
Altro non so che sonnecchiare anch'io nella canicola, 
mentre attendo l'imbarco
e sento da un orecchio disputare 
(di qua di là dal mare) 
di occhi azzurri e di pozzi da salvare.

La danza del cuore ti annuncia da lontano.
Tra le cose vane che la paranza riporta dal mare 
l'occhio ti vede con le ali nel nome leggera 
una lieve maestà con pelle di murena
che voli sull'abisso tutto seduzione e azzurrità.

Dove eri andata, e a che fare, domando,
da una riva all'altra del mare.
Il bisogno di riconoscersi, rispondi.
E ricordi quando ti ho conosciuta 
al tempo che non ti riconoscevi più
e le parole erano grumi del corpo inariditi dal sole 
che se li portava via fra i fumi degli incendi estivi. 
Ma tu vivi e la tua voce canta. 
Vieni dalla vasta prateria americana 
dove hai danzato in compagnia dei sogni dei filosofi, 
i peggiori per la vita dei mortali.
"Bevilo tutto il calice,
guardati nello specchio. 
Guardati.
Vedi come  il mio corpo è nuovo
come più armonioso lo muovo
e il resto non ti dico, 
che non oso.
Bevilo tutto il calice". 
Chi te lo offre è bello e giovane 
e ti chiama al duello.

Non tanta parte di me ha radici in un unico luogo 
di questa terra (non avrei immaginato, mai) 
ed è l'eredità della guerra a cui mi chiami, 
nella vasta prateria americana,
che mi chiude  al resto del mondo 
ed è carcere e corona alla parte di me 
che germogliava appena dopo il lungo silenzio. 
E tu dici che ami.

Lo so, dico; lo vedi: è di una città che abbiamo bisogno. 
Lascia l’eredità, lascia questo e quello, 
rinuncia al duello.
Lascia stare, 
impara a cucinare,
ho in mente una ricetta di zucchine
e fresco per l'estate un tabulé
afrodisiaco pure per beghine.
T'insegnerò l'arte di mangiare,
come si beve un vero caffè.
Lo vedi:  è di un’altra città che abbiamo bisogno.
Perché qui siamo poveri d’amore.
Deponi l'amaro calice del sogno
dove s'è macerata l'allegria del corpo
e siedi con noi all’osteria.
Tra queste vite d'ombra 
tu che ombra sei riacquisti vita.
So quanto ti è costato di gioventù,
quanta parte di te ha consumato.

Alla felicità non manca ora 
che una sfumatura di colore.
Resta nella vecchia Europa dai sentieri tortuosi,
scegli le città dalle strette vie,
a noi che siamo assuefatti a quest’assenza ricorda 
che c'è ancora una speranza.
Non è insipienza. 
Sotto il sole africano 
i giovani cinesi cucinano la minestra di spaghetti e gamberi 
e la dividono con noi 
curiosi della loro sapienza.
 

II

Vuole dire l'essenza della cosa
prima che diventi un nome il verso 
che sente il ritmo del mondo,

qui ti attendo tra le pieghe della vita
prima che sconti la coscienza del male
il pensiero musicale.

Sospesa sull’abisso del mare agli occhi miei
tra le vite d'ombra tu che ombra sei
vita riacquisti 
mentre dici bella l'estate senza ragione
che riporta l'allegria del corpo. 
Dove ti eri persa ti sei ritrovata,
lo sai, nella musica delle parole.
Cavare, togliere è l’arte
perché nel vuoto sia l’epifania dell’io
e di qualche verità un balenio.
Ora che ti vedo eretta nell'agile busto e bella,
godo di vederti contenta nel gesto delle ballerine.
Nel  tuo stare bene c'è una parte di me,
un passato di zucca e la pasta con zucchine.
E tanto basta.
 

III

Di là dal mare altri ulivi e  palme da datteri.
I pescatori imbarcano le reti
e le donne, dicono, nel tophet spargono  latte 
intorno ai sepolcri dei sacrificati per la flotta che parte. 
Un amico avverte che impossibile è il viaggio
e la barca che ci attende alla riva
ora è  in ostaggio.

Ecco un coniglio bianco nato per la neve 
ma corre sulla rena ardente d'un paese africano.
Mentre si prepara la caccia, 
dal pennone più alto i mozzi si sbracciano felici 
come avessero raggiunto terra illesi. 
Non sanno che sono avvelenati i pozzi
e di quelli che c'erano fratelli non c’è più traccia.

Ma forse noi poveri d'amore non ci vogliono laggiù, 
ci lasciano  qui arsi dal sole 
e rassegnati a quest’assenza. 

Vai tu  che puoi intanto.
Vola  lontano, nella leggerezza. 
Per noi non ti preoccupare. 
Qui la sera avanza e porta un po' di brezza sulla riva
dove si sta in attesa dell'imbarco.
Giunge notizia d’uno sbarco di curdi e d’albanesi. 
I cani latrano,
per le strade sparano.
Noi siamo illesi,
ma non partiamo più.

Vola, torna lontano tu. 
Non ti allarmare dell’orrore quotidiano,
del nostro rassegnato torpore. 
Prega semmai, se vuoi,
che il nostro inferno sia
solo un po’ più in là
e la felicità
una lieve sfumatura di colore.

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