OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ARGOMENTI

 

GOD VIBRATIONS
IL POTERE MISTICO DEI SUONI
OUT METAL, HEAVY MENTAL, DRONE, COSMIC DOOM E BLACK PSICHEDELIA
a cura di Voidhanger

 

INTRODUZIONE
Perché "god vibrations"? Nessun riferimento religioso nella nostra scelta, semmai l'idea di citare le mitiche "buone vibrazioni" della prima era psichedelica del rock, e al contempo sottolineare genericamente la potenza mistica (dunque divina e spirituale) del Suono, potente conduttore di energie misteriose e incredibile amplificatore sensoriale, rivelatore di dimensioni oltre la sfera del reale. Nelle sue più moderne espressioni psichedeliche, è lui il protagonista di questo lungo articolo che prova a tracciare una sottile linea rossa attraverso le opere di artisti molto diversi tra loro, appartenenti a correnti e culture musicali tra le più disparate, ma uniti dalla ricerca di dimensioni interiori tanto profonde quanto lo spazio cosmico. Dimensioni micro e macrocosmiche scandagliate attraverso una seria ricerca sonora, che trascende dalle strutture tipiche e abusate della musica rock/metal per approdare ad espressioni artistiche sommamente caotiche e totalmente "out".

Esiste dunque un legame più o meno esplicito tra il metal post-Neurosis, la drone music, il freak-folk, lo space-doom e persino certo black metal psichedelico? E' corretto ipotizzare una comunione di vedute (se non proprio d'intenti) tra Sunn O))), Xasthur, Jesu, Darkspace, Ufomammut, Nadja, Minsk, Harvestman, Jack Rose, CaputLVIIIm o Earth, al di là del diverso vestito musicale indossato? Secondo alcuni dei protagonisti intervistati per l'occasione, sembrerebbe proprio di sì.
I Sunn O))), ad esempio, tirano in ballo addirittura la Fisica, raccontando di realtà superiori a cui accedere attraverso suoni e frequenze potentemente trascendentali. Altri, come i Nadja, preferiscono non generalizzare, difendendo la propria unicità e lasciando l'ascoltatore libero di tirare le somme di fronte ad un fenomeno che indubbiamente interessa molta musica moderna.
Noi l'abbiamo fatto immaginando l'avvento di una nuova era psichedelica, spesso calata nell'oscurità del presente, ma - come quella dei '60 - intenzionata a spalancare le porte della percezione di huxleyiana memoria.

TURN ON, TUNE IN, DRONE OUT: SUNN O))), BORIS E NADJA
Avrete notato come buona parte del metal moderno sembri voler perdere fisicità. Il ricorso a forme astratte e dilatate, benché non meno estreme di quelle tradizionali, è parte di un processo di cambiamento che gradualmente ne sta ridefinendo i confini stilistici.
Se oltre dieci anni fa toccò agli Earth battezzare una sorta di “metal per la mente”, è agli eredi Stephen O’Malley e Greg Anderson, vale a dire i Sunn 0))), che va il merito di aver celebrato l’unione definitiva tra la concretezza di riff doom suonati in super slow-motion e l’astrattismo trance derivante dall’uso di droni di chitarra e minimalismo dark ambient. Gli opposti che si incontrano, insomma; quasi una metafora dualistica che tira in causa mondo materiale e immateriale, il corpo e lo spirito.
Al di là del fatto che i Sunn 0))) vogliano esprimere una tale profondità concettuale o che essa sia frutto dell'istinto e dell'inconscio, il duo ha comunque lasciato un segno importante nel (doom) metal moderno. Dopo i viaggi ambientali di “White 1” e “White 2”, l'ultimo obiettivo dei Nostri è stato di immaginare la possibile trasfigurazione in senso drone del black metal, senza rinunciare alle proprie prerogative stilistiche. Ecco spiegato il ritorno ai suoni nichilisti e opprimenti delle origini in un album, "Black One" (Southern Lord, 2005), a cui partecipano gli illustri Wrest e Malefic, a capo delle due one-man band più significative del metallo nero americano: Leviathan e Xasthur.
L’idea dei Sunn 0))) trova perfetta realizzazione in “It Took The Night To Believe” e nella cover di “Cursed Realms (Of The Winterdemons)” degli Immortal. Nella prima i Nostri siringano le vocals torturate di Wrest e un riff black in estenuante loop dentro al consueto magma chitarristico, mentre nella seconda il tipico drumming mitragliante dei norvegesi è sostituito da suoni iper-compressi e distanti, quasi che si trattasse dell’eco di una “battle in the north” da una galassia lontana. Geniale.
Espletati i tremendi riti pagani di “Orthodox Caveman” e “CandleGoat”, il gran finale è affidato a due monoliti che insieme totalizzano 30 minuti di sinistre suggestioni dark e visioni horror lovecraftiane. Con le keyboards, Xasthur trasmette un senso di spleen cosmico a “Cry For The Weeper”, mentre in “Bathory Erzsébet” (un omaggio al compianto Quorthon) addirittura canta sigillato in una bara!
L’effetto claustrofobico è assicurato e i Sunn 0))) ne accompagnano le grida soffocate con algidi rumorismi, accentuando il senso di solitudine e dolore nella morte.

Nonostante i difetti, anche l'atteso “Altar” resta un disco importante in seno ad una scena experimental-metal nel pieno della maturità espressiva. Nato dall'incontro tra i Sunn O))) e i loro protetti giapponesi, Boris, non riesce a sposare l’oscuro abisso drone dei primi col feedback psichedelico dei secondi, com'era lecito aspettarsi, nonostante che a dare una mano ci siano il redivivo Kim Thayil dei Soundgarden e altri immancabili compagni d’avventura come Joe Preston e Rex Ritter. Spesso, “Altar” appare indeciso sulla direzione da prendere (il drone amorfo di “N.L.T.” e “Fried Eagle Mind” non comunicano assolutamente nulla!), ma quando lo fa i risultati sono entusiasmanti. “The Sinking Belle”, ad esempio, assume i contorni di una ballad dilatata à la Mazzy Star, con la bella voce dell’ospite Jesse Sykes a inseguire una dolce melodia pianistica. “Etna”, invece, è uno sguardo (forse un po’ di maniera) sull’oltre-mondo immaginato da “Black One”, ma con la significativa aggiunta di un drumming che resta sospeso nel vuoto, rullando concitatamente contro il nulla. E poi ci sono “Akuma No Kuma”, con suoni da fanfara a dare un senso di imperiosa grandeur, e “Blood Swamp”, forse l’unico brano in cui l’ego degli artisti coinvolti si fa uno, dando vita ad una perfetta visione dark.

Ad "Altar" preferiamo però la seconda e più recente collaborazione tra Boris e Merzbow, che si risolve in un mezzo capolavoro di psichedelia drone, annunciato dalla magnifica copertina firmata O’Malley. “Sun Baked Snow Cave” consta di un’unica traccia della durata di un’ora buona, una sfida che i Boris ci avevano già lanciato ai tempi di “Absolutego”. Se quel disco si gettava subito a capofitto nel noise, stavolta si comincia diversamente, da una chitarra esasperatamente minimalista che suona note come rintocchi di campana sospesi nel vuoto. Merzbow accompagna con rumori naturalistici, e l’ipnosi va avanti per svariati minuti mentre il brano prende forma lentamente.
Poi, persa ogni speranza di venirne a capo, un incredibile risucchio sembra inghiottire ogni cosa come fosse un famelico buco nero, e un attimo dopo “Sun Baked Snow Cave” ci spalanca davanti la vastità del cosmo. Tutto suona come un frammento di “In Search Of Space” degli Hawkwind cristallizzato nel tempo; o come il fossile millenario di una melodia psichedelica appena percepibile, piantata nel cervello e capace di ossessionare allo stesso modo del monolite di “2001: Odissea nello Spazio” con gli astronauti di Kubrik. Ma dato il contrasto tra l’inizio bucolico e la successiva esplosione space, forse il paragone più opportuno è col “Solaris” di Andrej Tarkovskij, che comincia coi colori verde-azzurri della terra e finisce con quelli freddi di un universo che lascia inquieti e smarriti. Paragoni nient’affatto fuori luogo: un disco visionario come questo si può solo raccontare per immagini.

Se nel 2005 il disco simbolo di ciò che alcuni chiamano out metal è stato “Black One”, ad esso va necessariamente aggiunto “Truth Becomes Death” dei Nadja di Aidan Baker, un canadese che davvero non sa starsene con le mani in mano. Baker scrive libri di poesie e viaggi, dirige un’etichetta discografica di musica sperimentale e ha pubblicato a suo nome una ventina di album ambient. Col progetto Nadja, invece, interiorizza le visioni industrial-apocalittiche di Godflesh e Jesu per poi fonderle alla drone music, al noise, al post rock e al doom metal più epico e funereo. Un’idea ambiziosa che in “Truth Becomes Death” prende forma attraverso 3 brani capolavoro.
Il primo, “Bug/Golem”, si ispira al colosso della tradizione ebraica, ritratto in maniera postmoderna nella copertina del disco. La storia la conoscete: il rabbino Loew plasma il golem con l’argilla, quindi gli incide sulla fronte la parola “emet” (verità) e il golem ne diventa servo fedele. Basterà poi cancellare la prima lettera perché il termine “met” (morte) lo riduca in polvere. Verità che diventa morte, appunto.
Nei 23 minuti del brano il mostro viene plasmato attraverso una fitta trama di rumori che crescono d’intensità, fino a quando la drum machine inizia a battere un tempo solenne, la chitarra si erge sontuosa e una voce dall’aldilà scandisce una melodia maestosa e struggente. Succede lo stesso in
“Memory Leak” e “Breakpoint”, cattedrali gotiche di chitarre puntate verso il basso, per raggiungere abissi emotivi più profondi di quelli scandagliati dagli Esoteric. Un’esperienza che non è esagerato definire mistica e spirituale, insomma. Le ultime note sono quelle stranianti di una ninnananna acustica, con cui Aidan/Nadja mette a dormire per sempre il suo golem interiore. Voi, invece, resterete insonni di fronte a tanta grandiosa bellezza.

Con un precedente di tale portata, l'interrogativo di molti era se l'artista canadese sarebbe stato in grado di replicarla anche in uscite future. “Thaumogenesis”, stampato in sole 600 copie dalla piccola aRCHIVE Records, risponde al quesito con un unico brano di 62 minuti in cui Baker definisce una volta per tutte il Nadja-style: doom, drone metal, shoegaze rock, industrial ambient e kraut cosmico, uniti in un abbraccio sinfonico-psichedelico. “Thaumogenesis” si costruisce poco a poco innanzi ai nostri occhi, seguendo la scansione doom imposta da Baker e dalla bassista Leah Buckareff, per poi essere tirata giù a colpi di chitarra drone. Rispetto agli ultimi Jesu, che hanno scelto percorsi pop di più facile fruizione, Baker ha optato per una strada più impervia, quella della “suite”, rinunciando anche all’apporto vocale. Ma il coraggio paga, e “Thaumogenesis” lo incorona artista del momento.

Dato il successo sempre più importante a cui sta andando incontro, Aidan Baker ha pensato fosse giusto ritornare alle origini dei Nadja per riscriverne gli esordi alla luce di uno stile finalmente maturo. Così, il recente “Touched”, prima registrazione della band, e "Body Cage" rinascono a nuova vita grazie ai suoni drone e ai maestosi arrangiamenti perfezionati dal Nostro nelle ultime release. Nel primo, il sinfonismo noise-doom psichedelico dei Nadja raggiunge vette espressive appena un po’ meno elevate che in “Thaumogenesis” e “Truth Becomes Death”. Ma comunque più alte di quelle che gli attuali Jesu possono permettersi di scalare, va sottolineato. Mentre Broadrick ha optato per il confortevole abbraccio di una musica romanticamente arrendevole, Baker non ci risparmia il suo titanismo cosmico. Esempi migliori ne sono la messa colossale di “Stays Demons” (con un cantato angelico in stile shoegaze) e le sinistre evoluzioni di “Flowers Of Flesh”, coi loro ricami di feedback e il ciclico ripetersi di crescendo inesorabili ed esplosioni liberatorie. "Body Cage", invece, è un concept incentrato sulla fibrodisplasia, oscura malattia che calcifica progressivamente le ossa fino a farne una prigione paralizzante. I tre lunghi brani, sostenuti da una drum machine ipnotica e da droni e feedback di chitarra psysh-doom, sprigionano i consueti vapori lisergici, conducendo ad uno stato al limite tra trance e narcolessia. Uno stordimento dei sensi, un intorpidimento interiore che annulla la volontà e trascina in un baratro di sofferenza, come il concept richiede.

 

 

 

OUT METAL, HEAVY MENTAL E SPACE DOOM: ISIS, PELICAN, JESU, RED SPAROWES, UFOMAMMUT, CAPUT LVIIIm E MINSK
Gi ultimi parti di casa Hydrahead intitolati a Pelican e Jesu lo ribadiscono con forza: siamo in piena rivoluzione metal psichedelica. La hanno inaugurata i Neurosis nella seconda metà dei ’90, proprio mentre ci si esaltava per altra musica lisergica (lo stoner e i suoi derivati). Da allora quel fuocherello ha assunto le proporzioni di un incendio, spianando la strada alla trasformazione e alla maturazione in senso psych di svariate altre band, spesso e volentieri con origini hardcore.
I Tarantula Hawk hanno fatto girare la testa a molti con un paio di dischi omonimi di spericolate elucubrazioni prog-hardcore strumentali, mentre i Cave In, ormai fermi, hanno rispolverato di tanto in tanto le proprie radici punk, ma anche loro rimasero presi irrimediabilmente nelle reti della musica lisergica e progressiva, come testimoniano nei nuovi progetti Clouds e Zozobra.
Persino l’Italia non è restata a guardare: gli Ufomammut, scambiati dapprima per un gruppo stoner doom, sono giunti a medesime conclusioni estetiche nel secondo e più maturo album, “Snailking”, mentre nel'ultimo EP "Lucifer Songs" hanno aperto le porte dimensionali della loro musica al drone e a nuove contaminazioni sonore che promettono interessanti sviluppi futuri. Similmente, Malasangre e Caput LVIIIm sono partiti da un background tipicamente black metal per approdare a lidi space doom spazzati da correnti ambient-drone e heavy-psych che apparentemente li avvicinano agli Electric Wizard (che guarda caso al tempo di "Dopethrone" vennero descritti come un ibrido black-doom), ma che in realtà li portano ben più lontano, verso sintesi stilistiche molto personali.
Indipendentemente da ovvie differenze, le band in discorso presentano così tanti tratti comuni da permettere di allargare i confini concettuali e stilistici della musica psichedelica e da delineare le caratteristiche di quello che alcuni hanno battezzato “out metal” e altri "heavy mental". Quali siano questi tratti è presto detto: innanzitutto la ricerca di suoni espansi e avvolgenti che inducano alla trance, alla contemplazione e all’introspezione; e di conseguenza la propensione – attraverso distorsioni cacofoniche o impalpabili rarefazioni – ad una fuga dal reale verso mondi interiori, verso scenari di bellezza estatica o tremendi abissi cosmici. Il suono usato come chiave per aprire i forzieri dell’Io e dello spirito. E qui vengono in soccorso gli studi classici, se è vero che il termine psichedelia ha radici greche e significa proprio “mostrare la coscienza”, “svelare l’anima”…

Sono certamente d'accordo gli Isis, gruppo simbolo del percorso trascendentale intrapreso da certo metal. Dapprima si sono fatti remixare da Justin "Godflesh" Broadrick; poi, con “Oceanic” e “Panopticon”, sono diventati alchimisti del metallo, capaci di trasformarlo dallo stato liquido a quello solido e ritorno.
Con sempre più insistenza si dice che troveranno posto nel roster di qualche major, com’è successo ai Mastodon. La stessa band sembra avere lanciato segnali di questo tipo: un recente tour al fianco dei Tool li ha fatti conoscere al pubblico del rock alternativo, mentre il graduale sbarazzarsi delle componenti più estreme del loro stile li rende sempre più appetibili per il popolo “intellettuale” del post rock, che mal sopporta il metal.
Anche se soltanto il tempo potrà confermarne la natura, il recente “In The Absence Of Truth” assomiglia molto ad un album di transizione. Aaron Turner riduce ulteriormente il ricorso al growl, facendo spazio a vocals pulite che risultano altrettanto comunicative (“1000 Shards”), oltre che significative del nuovo corso. Un corso di purificazione spirituale, che deve necessariamente passare per le convulse traiettorie post-hardcore di “Not In Rivers, But In Drops”, o per quelle dark-wave di alcune porzioni di “Dulcinea” e “Garden Of Light”, vicine ai Cure di “Pornography” e “Disintegration”.
Da segnalare anche il contesto apertamente tribale in cui certi brani sono inscritti, come nel caso del superlativo strumentale “Firdous E Bareen”, tra i migliori pezzi psych mai partoriti dalla band. La mutazione degli Isis è in atto, e rimpiangere il sound più estremo del passato significherebbe fare un torto ad un gruppo coraggioso, tutt’altro che intenzionato a sedere sugli allori.

Dal canto loro, i Pelican si sono proposti di raccontare lo scorrere del tempo, l’andirivieni delle stagioni (“Autumn Into Summer”) e la furia degli elementi (“Last Day Of Winter”), sottolineando il continuo fluire dell’esistenza attraverso i cambi atmosferici della  musica.
La loro è una bellezza classica e quasi romantica, che nasce dai contrasti; soprattutto da quando in “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw” hanno aggiunto copiose partiture acustiche lì dove in passato era maggiormente presente l’indole hardcore delle origini. Alla mancanza di linee vocali sopperisce sempre la massiccia presenza di chitarre dalle più svariate tonalità: da quelle liquide e sognanti che sanno di purezza e abbandono (“Aurora Borealis”), a quelle esplosive e deraglianti, capaci di emozionanti crescendo da lasciare senza fiato (“March To The Sea”).

Diverse le forme attraverso cui si esprimono i Jesu del geniale Justin Broadrick, che torna a dipingere le sue immense tele soniche come ai tempi dei Godflesh. Nel primo e incredibile album d'esordio, "Jesu", a volte usa colori solari e rilassanti (“Sun Day” e “Walk On Water”) che per via del taglio melodico assomigliano ad una rivisitazione metallica del rock shoegaze di My Bloody Valentine e Ride. Altre volte ipnotizza con linee essenziali come quelle di “We All Faulter”, che spande una luce che non illumina, illusione di un benessere destinata a svanire presto.
Infatti, spesso e volentieri gli Jesu ci piombano in un inferno di grigia disperazione, isolamento e solitudine. Succede in “Man/Woman”, dove suoni industriali iper-compressi pulsano seguendo un ritmo soffocante; oppure nel mantra lisergico per chitarre granitiche e vocals liturgiche di “Guardian Angel”, che chiude il disco in modo solenne e spirituale. Un percorso ascetico e catartico, che sembra trovare senso nel titolo del bellissimo brano d’apertura, “Your Path To Divinity”. Ma qualunque cosa troviate alla fine del sentiero, siate coraggiosi e percorretelo fino in fondo.
Broadrick l'ha fatto, trovando nuovi spunti espressivi poi organizzati nella mezz’ora dell'EP "Silver". Che contiene vere e proprie canzoni e risulta meno claustrofobico del predecessore, decisamente più sognante e solare. Un ottimismo da trip psichedelico dolce e straniante, come quello offerto dalla title-track e da “Wolves”. Ma anche dalla notturna “Dead Eyes”, un mantra con accordi ribassati che acquista in maestosità minuto dopo minuto, e dall’atipica “Star”, car-song che suona come una versione appena più heavy dei mitici Swervedriver. L’accento è dunque posto sulle componenti “shoegazer” del Jesu-style, sebbene avvolte nella consueta coltre di chitarre industriali e rumore trance.

Potenti e onirici, gli Jesu si confermano ai vertici del post-metal più psichedelico e visionario dei nostri giorni anche col recente
“Conqueror”, in cui la maturazione della band passa ad uno stadio successivo, ma non si è ancora completata. Rispetto al debutto omonimo del 2005, il nuovo album smussa gli angoli di un suono che è sempre stato narcotico e avvolgente, ma che adesso non stritola più. Seppur pesante, si è fatto invece carezzevole, forse meno incisivo che in passato; di sicuro più dipendente dal modello shoegaze di My Bloody Valentine, imprescindibile pietra di paragone per gran parte del nuovo rock psichedelico. Lo stesso Justin Broadrick canta con voce esistenzialista (registrata in modo molto più naturale che in passato) e coi modi annoiati tipici di quello stile, lasciandosi volutamente sopraffare dalle colate psichedeliche delle chitarre e di maestose keyboards, in un abbraccio al contempo dolce e acido. Le colorazioni pop di “Medicine” danno per risultato una versione più heavy di certi Red House Painters (e dello slow-core in generale), mentre tocca ad “Horizontal” e all’immensa “Mother Earth” (il vertice assoluto finora raggiunto dei Jesu) di ricordare da vicino le atmosfere del debut, ma senza precipitare in quell’oscuro e tremendo burrone emotivo che “Jesu” ci apriva sotto i piedi ad ogni nota. Piuttosto, “Conqueror” galleggia in aria, è come sospeso in un limbo di serenità e pace interiore. Un purgatorio in cui sostare, insomma, in attesa di scegliere la direzione da prendere.

La battaglia immaginaria a colpi di post-metal tra Neurot Recordings e HydraHead Industries si è fatta ancora più appassionante dopo l'entrata in scena dei Red Sparowes. Imparentati con Neurosis e Isis, di recente hanno pubblicato il secondo full “Every Red Heart Shines Toward The Sun”, dove ne battono gli stessi percorsi atmosferici. Qui c’è però maggiore enfasi psych e un accento più marcato su uno struggimento interiore che li apparenta a Godspeed You! Black Emperor, Mogwai e Mono. Più che di canzoni, è corretto parlare di un flusso di coscienza. Le  chitarre lo assecondano compiendo emozionanti ed epiche evoluzioni verso l’alto, per poi ricadere giù, rincorrendo melodie tristi e arrendevoli. Non c’è cantato, se non quello che le note sembrano suggerire. Le parole restano solo una traccia scritta sulla carta, un’indicazione di percorso che si è comunque liberi di ignorare per seguire i propri trip mentali. Nuovo progressive o moderna psichedelia? L’uno e l’altro.

Le stesse considerazioni possono riguardare anche un piccolo capolavoro come “The Ritual Fires Of Abandonment”, il nuovo parto in casa Minsk. Il precedente e ottimo “Out Of The Center Which Is Neither Dead Nor Alive” segnava l’ingresso in formazione del produttore heavy del momento, Sanford Parker, coinvolto nei Minsk perché conquistato dalle loro enormi potenzialità espressive. Oltre a vantare un passato nei disciolti (e rimpianti) doomsters Buried At Sea, Parker ha lavorato col gotha del metal psichedelico e del post-hardcore, aiutando band come Unearthly Trance, Pelican, Rwake e Lair Of The Minotaur a tirare fuori la propria personalità. Con al timone un tale eminenza grigia del metal moderno, la nave dei Minsk ha seguito la rotta giusta, e oggi sbarca sulle stelle. Gli interessanti spunti del primo album sono stati sviluppati e portati a maturazione, a partire da un’importante componente tribale che da sempre li contraddistingue. Come nei migliori Tool e Neurosis, viene sposata a melodie psichedeliche dal taglio dark e in continuo divenire, incorniciate da bordoni di synth maestosi che a stento trattengono il flusso impetuoso delle chitarre. I fuochi del titolo sono ovviamente quelli di una iniziazione, di un cerimoniale di purificazione che ha per fine l’ascesi, l’estasi, la liberazione da ogni peso terreno. Una ricerca spirituale, quella dei Minsk, che passa necessariamente per il dolore, fisico e mentale. Così, giganteschi tsunami di chitarre s’abbattano con violenza contro frangiflutti ritmici (“Embers”); cori sciamanici intonano nenie di portata cosmica (“The Orphans Of Tragedy”), mentre melodie acide dischiudono realtà nascoste ai comuni sensi, ma destinate ad essere inghiottite da spaventosi gorghi neri (“Mescaline Sunrise”).
Alla fine di tutto, la pace giunge sulle note della colossale “Ceremony Ek Stasis”, la vetta heavy-psych più alta finora raggiunta dai Minsk. “The Ritual Fires Of Abandonment” abbatte con disinvoltura gli steccati tra doom, hardcore, psichedelica, prog e post-metal servendosi al meglio di ciascuno di essi. È molto più che un grande disco; è il simbolo della maturità raggiunta da un metal sempre più globale, visionario e trascendentale.

 

 

 

BLACK PSICHEDELIA: DARKSPACE, XASTHUR, VELVET CACOON E WOLVES IN THE THRONE ROOM
Sebbene il black metal sia cosa ben diversa e parta da presupposti quasi opposti (almeno storicamente), è impossibile non notare la vicinanza e la parziale comunanza di atmosfere tra black metal e psichedelia, soprattutto in tempi recenti. In origine è fatto sicuramente accidentale, almeno nella maggioranza dei casi, ma è affascinante notare come molti gruppi black stiano ora approfondendo questi aspetti con piena consapevolezza.
A cominciare da Xasthur (intervistato sull'argomento in altre parte della rivista), per il quale già in passato si era parlato di drone black metal. Stranamente, la parola psichedelia era stata sempre tenuta a debita distanza. Eppure, il termine vuol dire letteralmente "mostrare l'anima, svelare l'anima". Cosa che, oltre ad essere l'imperativo di ogni artista vero, è l'obiettivo principale di tutte quelle musiche dal carattere fortemente introspettivo. Tra esse, anche il black metal. La sua ripetitività ipnotica, i modi rituali e la forza primitiva non sono tanto distanti da certe musiche sciamaniche che inducono ad uno stato di trance. Xasthur estremizza addirittura il concetto, realizzando un totale distaccamento dalla realtà per entrare in una dimensione onirica, tra l'altro fortemente personale. Persino i temi cardine della sua poetica, a base di specchi e di comunicazioni psichiche coi defunti, sottolineano la voglia di oltrepassare le porte della percezione, di un sentire più profondo.
Stilisticamente, si tratta di una via che sempre più artisti black seguono, a volte limitandosi a ricalcare una cifra scambiata solitamente per "depressive", a volte cercando di proporre qualcosa di più personale. E' il caso dei Velvet Cacoon, inventori di un black "subacqueo" e altamente visionario; oppure dei seminali Weakling, autori di un album ("Dead As Dreams") a metà tra la musica della nera fiamma e il post-metal neurosisiano.. O ancora di Rev. Kriss Hades, che sta trasformando il volto del black a colpi di chitarra avantgarde-drone (ne parliamo diffusamente altrove). Senza dimenticare che Wrest di Leviathan e Lurker Of Chalice dichiara apertamente la sua passione per il krautrock, mentre gli ultimi Nachtmystium non si fanno problemi a flirtare apertamente con l'heavy-psych sull'ultimo "Instinct: Decay", a coverizzare gli Earth o a piangere la morte di Syd Barrett.

Chi ancora trovasse scandaloso o fuori luogo l'accostamento del black alla psichedelia e alle odierne derive post-metal, si soffermi a pensare che anche l'isolamento beato dell'artista psichedelico non è poi così diverso da quello dell'artista black. Si fondano entrambi su premesse simili, quali l'affermazione del sé e il riconoscersi come assoluti padroni della propria esistenza. L'uomo al centro del mondo, insomma. A ben guardare, persino il "love and peace" degli hippie non è poi così distante dalla comunione armonica tra uomo e Natura (d'altronde gli hippie non erano "figli dei fiori"?) professata da molti gruppi black della prima ora, dagli Emperor agli Ulver: è l'aspirazione ad una pienezza d'essere in armonia con l'universo, in aperto contrasto con una quotidianità alienante. Un obiettivo perseguito attraverso il recupero della tradizione, nella forma di un ritorno ad una condizione quasi animalesca, che garantisce il risveglio dei sensi, in opposizione alle comodità schiavizzanti della "civiltà".
Si tratta della stessa poetica oggi perseguita con grande determinazione da gente come Negura Bunget e Wolves In The Throne Room, questi ultimi addirittura organizzati alla stregua di una comune hippie d'altri tempi: vivono tutti insieme in una baita in aperta campagna, cibandosi dei prodotti della terra da essi stessi coltivata.
Musicalmente, poi, come anche sottolineato in un saggio riportato su Lord Of Chaos riguardo al cerimoniale dell'Oskorei, il blast beat è parente di antiche musiche rituali nordiche (e non solo) in cui i partecipanti percuotevano ossessivamente pietre e bastoni fino a uscire fuori di testa, fino ad auto-ipnotizzarsi seguendo il ritmo: un trip psichedelico in piena regola!

Sarebbero indubbiamente d'accordo i misteriosi Darkspace. Seguire le evoluzioni del loro lavoro più recente, "Dark Space II", non è certo cosa facile. All’inizio è un suono ovattato e avvolgente, che striscia dentro e trasmette sensazioni di freddo gelido e solitudine infinita. Poi, in un’esplosione di luce nera, irrompono chitarre che erigono muri di distorsione impressionanti, infine sbrecciati da una melodia oscura che cresce con l’aiuto di keyboards fino a farsi ciclopica, maestosa. Una vetta che col passare dei minuti s’innalza sempre più, accelerando sulla spinta di una devastante drum-machine intrecciata a screaming vocals di cui s’avverte appena l’eco…
Comincia così un' indiscussa pietra miliare del black metal contemporaneo. Gli autori, tre svizzeri fra cui si cela anche la mente degli altrettanto formidabili Paysage D’Hiver, non amano farsi pubblicità e inizialmente hanno optato per un’etichetta – la Haunter Of The Dark – che li ha pubblicati in edizioni limitate e distribuite con parsimonia. D’altronde, il loro concept spaziale non s’adatta ai palati di tutti, meno che mai a quelli di chi stenta a comprendere la definizione “black psychedelic dark metal” che i Darkspace si sono cuciti addosso. Per noi, invece, è la conferma che accostare psichedelia e ipnosi da blast-beat è tutt’altro che un’eresia. Qui sembra addirittura di sentire gli “orgone accumulators” degli Hawkwind che pompano energia negativa, invece che le “good vibrations” degli hippie!
Oltre che a suoni espansi e induttori di trance, i Darkspace ricorrono anche alle tonalità profonde dell’ambient e al noise, come nella seconda delle tre tracce untitled del disco. Il resto segue invece le direttive stilistiche dell’esordio (“Dark Space I”, 2003), anche se la maggiore durata dei brani (che superano la soglia dei 20 minuti) permette alla band di sviluppare il suo black metal spaziale in modo più completo.
Le famose “cosmic keys to my creation and time” forgiate dagli Emperor dieci anni fa sono definitivamente passate di mano. Oggi servono a questi moderni titani per aprire le porte della percezione e compiere l’impresa impossibile di svelare il mistero della creazione, dell’eterno, del divino. Che ci crediate o no, i Darkspace ci vanno dannatamente vicini.

 

INTERVISTE

SUNN O))) - Intervista a Stephen O'Malley

NADJA - Intervista ad Aidan Baker
MINSK - Intervista a Timothy Mead
UFOMAMMUT - Intervista alla band
CAPUT LVIIIm - Intervista a FN e Mord


SPECIALE

 

FOLK FREAK-OUT! - Folk, blues e country nelle moderne trasfigurazioni psych-drone

 

torna al sommario