OBSCURE METAL UNDERGROUND & VULTURE CULTURE
I, VOIDHANGER MAGAZINE - ARGOMENTI

 

FOLK FREAK-OUT!
BLUES, FOLK E COUNTRY NELLE MODERNE TRASFIGURAZIONI PSYCH-DRONE
 Earth, Harvestman, Alexander Tucker, Daniel Higgs, Six Organs Of Admittance, Entrance, Jackie-O Motherfucker, Jack Rose,
Sir Richard Bishop, Steffen Basho-Junghans, James Blackshaw, Voice Of The Seven Woods e Silvester Anfang

a cura di Voidhanger

Avrete notato come, sulla spinta di fortissime correnti psych e drone, il metal stia cambiando pelle, trasmigrando buona parte della propria anima in corpi dalle forme meno delineate, benché altrettanto oscure, vigorose ed estreme. Il metal ha insomma scoperto di possedere una potenza intrinseca che va al di là delle sue prerogative stilistiche più comuni e accettate.
Come se non fosse già problematico avere a che fare con nuovi e sfuggenti concetti metal, ci si mettono di mezzo anche il blues, il country e il folk; musiche delle radici che - alla stregua di monumenti millenari - si presumono immobili e difficili da immaginare diversamente da come sono. Ma la montante onda psichedelica è arrivata a investire e travolgere anche quella certezza.
Negli ultimi anni d'attività già il buon Johnny Cash ha voluto dimostrare come, al pari del blues, il country e il folk sono patrimonio genetico di qualsiasi genere musicale, e lo ha fatto interpretando alla sua maniera impensabili cover di Soundgarden e Nine Inch Nails (a loro volta, Alice In Chains e Sunn O))) lo hanno indicano quale artista cardine del loro background). Per non dire della scena indie del "nuovo country", che per qualche tempo ha battuto cassa guidata dai seminali Giant Sand (ma ci sono voluti quasi vent'anni perché ci si accorgesse di loro), oppure dell'attuale movimento neo-folk - Devendra Banhart in testa - impegnato a rinverdire i fasti di Nick Drake, Donovan o Tim Buckley. O, ancora, del geniale Neil Young, che già nei '70, insieme ai Crazy Horse, aveva elettrificato oltre misura il folk rock, e che nella colonna sonora di "Dead Man", il film di Jim Jarmush, s'è quasi inventato il progenitore del drone folk...

Ultimamente, ci siamo trovati però di fronte non solo ad un semplice "ammodernamento" della materia dettato dalla nostalgia o dalla passione, ma anche ad un improvviso quanto sorprendete ritorno alle radici da parte di gente che nemmeno te l'aspetti, impegnata com'è a riscrivere i canoni del metal o a produrre la musica sperimentale e d'avanguardia più entusiasmante dei nostri tempi. Nel primo caso, la mente corre subito alle opere soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, due Neurosis che in tempi non sospetti hanno sentito il bisogno di guardarsi indietro, di trovare una più intima dimensione sonica per esprimersi, rispolverando tradizioni folk e blues evidentemente latenti nel loro background. Sebbene i  dischi pubblicati a loro nome non possano dirsi capolavori indispensabili (a nostro avviso lo è però il progetto Harvestman di Von Till), hanno ben adempiuto al loro ruolo nel momento contingente in cui sono stati pensati e realizzati, fungendo da banco di prova di nuove idee che hanno contribuito al rinnovamento del suono Neurosis (unitamente alle sperimentazioni ambient dei Tribes Of Neurot) ed espletando la funzione di apri-pista per tutta una serie di artisti metal o hardcore improvvisamente riscopertisi menestrelli.
“L’hardcore è stato il punto di partenza per scoprire altri generi musicali,” spiega ad esempio Alexander Tucker, tra i migliori esponenti dell'attuale scena drone-folk, ma un tempo alle prese con l'hardcore negli Unhome. “All’epoca mi dava un’impressione di libertà, sia fisica che mentale, anche se per molti potrebbe apparire limitante. È stato attraverso l’hardcore che sono arrivato al free jazz e ai Boredoms, dopo una giovinezza spesa ad ascoltare il blues d’anteguerra, Jimi Hendrix e i Led Zeppelin.”
Se da un lato il ritorno alle radici folk-country-blues si fa via via più pressante, dall'altro esso sembra avvenire attraverso l'uso di linguaggi moderni. Così, l’imbastardimento dell’hardcore e del metal attraverso una lenta contaminazione con la drone music per perseguire nuovi traguardi trance-psichedelici, ha determinato la sostanziale trasformazione, tra gli altri, di Neurosis e Isis, conducendo di recente gli Jesu su sentieri “pop” e favorendo anche la mutazione degli Earth.
Allo stesso modo, parallelamente alla pesantezza doom di Thorr’s Hammer, Burning Witch, Teeth Of Lions Rule The Divine e Khanate, Stephen O’Malley ha portato avanti le esperienze drone di Lotus Eaters e Ginnungagap (coinvolgendo in questi ultimi il già citato Tucker), confermando così il trend di questi anni: quello che vede uno spostamento in massa di musicisti d’estrazione hardcore ed extreme-metal, verso sonorità decisamente più cerebrali, sebbene concettualmente non meno heavy del passato.
Difficile spiegare il senso di tutto questo. Al di là di un messaggio di ecumenicità della bellezza della musica (che giustamente non dovrebbe conoscere steccati tra generi), il metal che - rammodernandosi - finisce col flirtare con la musica dei campi e dei paesaggi, sembra voler dire di essere diventato esso stesso tradizione, anch'esso ormai inglobato in una vastissima Cultura dell'Umanità. La cosiddetta musica drone e la psichedelia, che attraversano tanto il metal e l'ambient quanto il country e il folk, sembrano dunque possedere un potere unificatore, sembrano fungere da collettore di culture rock apparentemente diverse, ma le une compenetrate nelle altre.

Per quanto attiene alle frange avanguardiste del rock datesi al folk, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Tutta la scena del cosiddetto free-folk che tiene banco sulle riviste "post" e di rock alternativo e di cui in larga parte discutiamo più sotto (Six Organs Of Admittance, Wooden Wand, MV & EE, No-Neck Blues Band, Jackie-O Motherfucker, Daniel Higgs, Silvester Anfang…), nasce e si sviluppa negli ambienti frequentati da musicisti cibatisi tanto del blues e del folk delle origini, quanto delle moderne interpretazioni indie dei '90 e delle trasfigurazioni operate da krautrockers come Popol Vuh e Amon Duul, i primi ritenuti non a torto progenitori del drone e dell'elettronica sperimentale. Addirittura, Jack Rose, Glenn Jones e Sir Richard Bishop, dalle fila di importanti sperimentatori noise e post-rock come Pelt, Cul de Sac e Sun City Girls rispettivamente, hanno intrapreso carriere solista dedicate a re-immaginare, spesso in chiave drone-psych, la musica per chitarra acustica a 6 e 12 corde di John Fahey, Leo Kottke e Robbie Basho, in alcuni casi spingendosi a livello espressivo persino oltre i loro inarrivabili maestri. Persino Keiji Haino, principe nero della chitarra rumorista e sperimentale, ha recentemente sentito il bisogno di cimentarsi col repertorio blues più puro e grezzo in due album – uno acustico, l'altro elettrico – ugualmente intitolati “Black Blues” e contenenti gli stessi brani guardati da angolazioni diverse.
Dai chitarroni heavy del metal al noise più spigoloso all'intensità primitiva del suono acustico, il passo è evidentemente più breve di quanto possa sembrare, a dimostrazione del fatto che il linguaggio della musica è uno, e che, per quanto possa fare grandi giri, il cerchio è infine destinato a chiudersi.

 

 

Gli Earth di Dylan Carson possono ritenersi i padri putativi della drone music applicata al metallo pesante. In piena era grunge, i paesaggi sonori dipinti in dischi-cardine come il capolavoro "Earth 2" erano troppo arditi persino per chi era avvezzo al rock alternativo della Sub Pop, la label che li proponeva. Complice il rinnovato interesse verso sonorità psichedeliche espanse e il tributo di gruppi come Mogway, Jim O'Rourke e Autechre (vedi la bella raccolta "Legacy Of Dissolution" su No Quarter Records), da poco tempo gli Earth sono usciti da uno stato di ibernazione volontario, ma prendendo le distanze dai loro discepoli. Avranno pensato: abbiamo immaginato il metal del futuro, adesso re-inventiamo le tradizioni musicali del passato.
Nel recente "Hex; Or Printing In The Infernal Method", Dylan Carlson applica quindi le sue consolidate formule drone al country rock, e qualcuno ha già accostato il risultato all'Ennio Morricone delle colonne sonore spaghetti-western e alla già citata soundtrack di "Dead Man". In effetti, nel disco le chitarre ruggenti fanno capolino solo in un paio di occasioni (a volte addolcite da effetti lap-steel), mentre in "Land Of Some Other Order" o nel breve miraggio di "Left In The Desert" sembra proprio di trovarsi in mezzo ad una "Cowgirl In The Sand" disciolta nell'acido, disperatamente aggrappata a sparuti tocchi di batteria, ma destinata a perdersi irrimediabilmente in lunghi e inquietanti arpeggi di chitarra.
I nove brani strumentali di "Hex" assomigliano a bozzetti di paesaggi desertici che l'ascoltatore completerà a suo piacimento, immaginando cactus rossi sotto tramonti di ghiaccio, come in balia degli effetti del peyote. Un album a suo modo bucolico e altamente suggestivo, coi tempi di un road movie di Wenders o Gus Van Sant e la stessa qualità cinematografica di un Ry Cooder.
Col recente “Hibernaculum” gli Earth hanno confermato il nuovo corso intrapreso interpretando tre brani del loro repertorio heavy in stile drone-country. Incredibilmente, il nuovo vestito cucito addosso alle canzoni calza loro a pennello. Non solo: la cornice agreste di “Ouroboros Is Broken”, “Miami Morning Coming Down” e “Coda Maestoso In F (Flat) Minor” mette in risalto anche una certa malinconia di fondo che in mezzo ai chitarroni a cui eravamo abituati era passata quasi del tutto inosservata.
La trasformazione può dunque dirsi completa. Adesso, quella di Dylan Carlson e soci è musica di frontiera a tutti gli effetti. Una colonna sonora per grandi spazi, interiori e non, con tutto il suo carico di storie disperate, di colpe da espiare, di brutti incontri al crocicchio, forse soltanto immaginati in un sogno acido che induce ad un torpore profondo. Carlson suona in modo minimale, ma ogni nota ha un peso specifico notevole, sottolineato dagli interventi di mellotron, organo e trombone. In chiusura, l’epopea drone-western di “A Plague Of Angels”, finora disponibile solo su un esauritissimo LP split coi SunnO))). Nel DVD allegato, invece, un documentario di Seldon Hunt girato durante il tour europeo del 2005, con interviste ed estratti dal vivo. I tempi della narrazione sono lenti, com'è giusto che sia.

Quel che Dylan Carlson fa al country, Steve Von Till dei Neurosis ha fatto invece alla musica del folklore europeo. Col suo vocione alla "Mark Lanegan da fine del mondo", in passato ha proposto album solisti di discreta fattura, in cui ha sposato la cifra ambientale dei Tribes Of Neurot e dei Neurosis con quella del folk apocalittico.
Stavolta, però, per firmare i brani di “Lashing The Rye” ha scelto la sigla Harvestman, segno che qui non agisce da protagonista, ma da strumento teso a veicolare una musica che esiste da sé: quella tradizionale inglese, scozzese e irlandese, che Von Till propone senza il suo contributo vocale, facendosi fantasma dietro alla spessa coltre di suoni.
L'artista interpreta tutto secondo il lessico post-metal della band-madre, ma rinunciando al contributo ritmico. A scandire il tempo sono invece l’oscuro pulsare mantrico delle sue chitarre (elettriche e acustiche), sparute vocals femminili (“Surround Me”) e i suoni algidi e manipolati di synth, piano, cornamuse e violini. In bilico tra psichedelia, dark ambient, folk apocalittico e drone music, “Lashing The Rye” sprofonda in una nebbia di riverberi e distorsioni insistite (“Scarborough Fair”), oltre la quale si dispiegano paesaggi sonori pregni di misticismo e magia.
Harvestman sembra raccontare di luoghi fatati come Stonehenge o di “sogni di una notte di mezza estate”. Altre volte, impaurisce, descrivendo misteriosi spiriti delle foreste.
Il suo è un suono ancestrale: il suono di bianche scogliere, di campi verdi a perdita d’occhio, della furia degli elementi (“The Thunderer”). E ancora, quello di notti inquiete e solitarie (“The Burning Of Tara”), del mistero infinito del cosmo riflesso nelle acque placide di un lago (“Over Nine Waves”) e dell’avvicendarsi delle stagioni della vita. Un disco-capolavoro che ribadisce il carattere esplorativo della musica di Von Till con e senza i Neurosis, e che rinsalda il legame con la cultura "primigenia" di un passato in cui Uomo e Natura erano in equilibrio.
Da ascoltare mentre “tutto scorre”.

 

JACKIE O-MOTHERFUCKER

Il nostro breve excursus nella rivisitazione in senso psichedelico della musica delle radici continua con le note dei Jackie-O Motherfucker, un collettivo di musicisti irriverenti (il nome rimanda ad una Kennedy molto amata) e ogni volta diverso, con l’unica eccezione dei fondatori Tom Greenwood e Nester Bucket. Negli anni si sono divertiti a realizzare dischi sempre diversi, molto spesso ostici. Occasioni per sperimentare coi suoni dell’elettronica, del free jazz e del noise, aiutati da strumenti costruiti artigianalmente. I primi dischi dei Nostri non possono che definirsi ostici, per via di una volontà avanguardista che travolge ogni idea di melodia e struttura. Il culmine del processo de-costruzionista è in "Fig. 5", in cui allo stesso tempo vengono gettati i semi di un post-rock folkeggiante finalmente adatto ai palati di molti. Così, il recente “Flags Of The Sacred Harp” conquista con facilità i patiti del neo-folk, ma anche chi segue le ultime evoluzioni drone della psichedelia.
Jackie-O Motherfucker usano le musiche tradizionali del Sacred Harp (un repertorio di salmi e inni religiosi americani) a base di soul, blues, country, folk e gospel in contesti tenuemente lisergici e in continua espansione. In “Rockaway” o la splendida “Hey! Mr Sky” prevalgono dolci melodie vocali accompagnate da eleganti tocchi di violoncello, steel guitar e tintinnii di cimbali, mentre nei 16 minuti di “Spirits” e “The Louder Roared The Sea” l’anima folk dei Jackie-O Motherfucker assume proporzioni mistiche, e la trama musicale si sfilaccia poco a poco per ricomporsi in forma di mantra psichedelici a base di droni e rumori.
Jackie-O Motherfucker elevano cosmicamente una musica prettamente “terreste”, ri-plasmando la tradizione country-folk americana similmente a quanto fatto da Harvestman e dagli ultimi Earth. E per certi versi anche dai seminali Slint omaggiati in “Good Morning Kaptain”, titolo che compariva pressappoco uguale nel loro famoso “Spiderland”.

 

ALEXANDER TUCKER

Dalla cerchia dei Jackie-O Motherfucker proviene anche Alexander Tucker, musicista nato e cresciuto nel Kent e certamente influenzato da umori e colori della Terra d'Albione. Un'Inghilterra fotografata nella sua dimensione più rurale e magica, avvolta nei misteri druidici e nelle brume autunnali che si raccolgono sui campi di grano, o che circondano certe dimore ottocentesche che si dicono infestate da oscure presenze.
Tucker è riuscito a replicare questo clima mistico-esoterico nel suggestivo drone folk dalle qualità “fantasmatiche” di “Old Fog” e “Furrowed Brow”, i due album dati alle stampe dalla ATP Recordings.
“L’ispirazione per ‘Old Fog’ è venuta da molte direzioni diverse,” informa Tucker. “Allora ascoltavo molto noise neozelandese, i Fursaxa e l’album ‘Oar’ di Skip Spence (primo batterista dei Jefferson Airplane, poi fondatore dei Moby Grape e infine avviato ad una breve carriera solista all’insegna del folk psichedelico e oscuro – nda), ma mi sono fatto influenzare anche dalle incisioni di Gustave Doré e dai fumetti di Mat Brinkman. E ho pensato spesso a case abbandonate, polvere, ragnatele e fenomeni di poltergeist.” Non è un caso che Tucker si dica influenzato dai comics, essendo egli stesso un bravo fumettista underground, dal tratto minimale e rozzo, eppure fortemente evocativo: sue le cover dei propri dischi, ma anche quella del full-length dei Wolfmangler (di cui diciamo altrove) e dei Ginnungagap di Steve O’Malley.
Proprio l'incontro con O'Malley, forse il personaggio più importante dell'odierno movimento metal d'avanguardia, ha contribuito alla sua consapevolezza artistica in modo determinante. “O’Malley ascoltò un brano di soli vocal drones a tiratura limitata, intitolato ‘Gathering’, e dopo mi contattò attraverso un amico comune per chiedermi di suonare insieme. Così registrammo per due giorni interi presso i Southern Studios.”
L’artista inglese ha quindi finito per esibirsi dal vivo insieme a Sunn O))), Jackie-O Motherfucker e Bardo Pond; esperienze che hanno sicuramente affinato la sua visione folk, poi riversata nei solchi del bellissimo “Furrowed Brow”. “Un incrocio tra David Crosby, i Neurosis e Terry Riley,” lo ha definito Tucker stesso, mentre altri hanno addirittura tirato in ballo una definizione suggestiva e disorientante come quella di “doom folk”.
Senza avallare la creazione di nuovi termini descrittivi, basterà dire che “Furrowed Brow” è uno straordinario affresco di folk psichedelico adagiato su melodie in perenne tensione, dove trame acustiche elaborate vengono ora aggredite da potenti droni di chitarra elettrica mind-expanding (“Superherder”), ora accarezzate da armoniche effettate, surreali tocchi di pianoforte e clarinetto (“Spout Of Light”), e un uso mai invasivo dell’elettronica.
Una musica che ha il sapore dell’epifania, del risveglio dei sensi, ma senza insopportabili cliché hippie. Piuttosto, quella di Tucker è musica del disagio. Si tiene alla larga dalla folk-tronica da salotto, tutta fiori e conchiglie, e invece punta dritta verso lidi sinistri e brumosi, alla maniera degli Harvestman o del folk apocalittico.
Tucker ha anche mandato a memoria la lezione del krautrock meditativo di Popol Vuh, rifuggendo da forme e strutture canoniche. “Pannemaker Doms” e “Broken Dome” (i momenti più alti della raccolta) sono infatti pura astrazione free-jazz, tele in cui i colori/suoni si affastellano gli uni sugli altri in un continuo divenire psichedelico, tra bisbigli, luccichii e tintinnii. Altrove, invece, l’artista inglese fa perno sulla sua voce, fredda e distante, per descrivere scenari di solitudine interiore (“Rotten Shade”) che si traducono in sublime poesia lunare.

 

Six Organs of Admittance

All'appello non potevano di certo mancare i Six Organs Of Admittance di Ben Chasny, da anni in prima fila nel proporre una nuova mistica folk imbevuta di psichedelia drone. Il ritorno di Chasny (dopo le ottime produzioni firmate insieme ai Comets On Fire) è stato uno degli eventi più attesi del 2006 da parte degli appassionati di musica lisergica, ed anche questa volta c’è stato di che godere.
“The Sun Awakens” è lavoro appena più oscuro e mistico che nelle ultime occasioni, complice un uso massiccio della chitarra elettrica, come era già successo in un capolavoro di qualche anno fa intitolato "Dark Noontide". In “Bless Your Blood” la sei-corde di Chasny si erge però luminosa come il sole, illuminando le fiabesche melodie folk e una voce profonda, ma al contempo rifiutando lo scontato ruolo da solista che altri le avrebbero offerto. In genere, preferisce fungere da ingrediente essenziale per ottenere un amalgama lisergico inebriante, a cui contribuiscono anche l’organo, il gong e percussioni discrete.
I frutti più acidi li dà invece nell’orientaleggiante “Attar” e nella cantilena indiana di “Black Wall”, deturpate in coda da bordate d’elettricità palpabile. Il capolavoro è “River Of Transfiguration” (con Al Cisneros degli Om al basso), 23 minuti di trance esoterica dalla bellezza accecante, profonda in toni e colori, ricca nella trama e dalle grandi proprietà psichedeliche. Un risveglio totale dei sensi, finalmente spurgati e tesi verso l’infinito.

 

ENTRANCE

Entrance è Guy Blakeslee, un rocker con la passiona per il blues più viscerale. Ha all’attivo svariati album pressoché acustici che gli hanno valso l’accostamento col folkman per eccellenza dei nostri giorni, Devendra Banhart, oltre che il plauso di critica e pubblico.
Sia "The Kingdom Of Heaven Must Be Taken By Storm" che "Wandering Stranger" offrivano all'ascolto un folk irrorato di psichedelia, a volte esibita platealmente come in certe cose del Syd Barrett solista o di Roky Erickson, a volte nascosta nelle pieghe di un suono acustico che proprio nell'enfasi dell'esecuzione trovava modo di farsi stordente, fumoso, lisergico. Con l'aiuto al piano di Paz Lenchantin (la stessa che ha suonato sul primo A Perfect Circle e poi negli Zwan di Billy "Smashing Pumpkins" Corgan), Blakeslee si cimenta in una manciata di originali e di illuminate cover (di Towens Van Zandt, Skip James, Bob Dylan), omaggiando con citazioni esplicite i suoi numi tutelari: Charlie Patton, Robert Johnson, Blind Willie McTell e Blind Lemon Jefferson.
L'ultimo lavoro, “Prayer Of Death” è però una piccola rivoluzione, dato che torna su quei “soliti tre accordi” con chitarre elettiche, sitar, slide, organo, campane, synth e violini. Il risultato è un suono blues orchestrale e barocco, dalle tinte dark e intriso d’echi psichedelici anni ’60. L'ideale per assecondare il clima tetro dell’album, incentrato sul tema della morte e della caducità della vita.
“Dormi col ricordo della morte, e svegliati col pensiero che non vivrai a lungo,” consiglia un mistico orientale citato nel booklet. Blakeslee gli fa eco con liriche che descrivono il travaglio interiore di chi si confronta con la grande mietitrice senza neppure il conforto della fede.
“Grim Reaper Blues” è quello che dice il titolo; la ballad “Pretty Babe” gioca con le stesse visioni simboliche e i tragici presagi che informano la poetica di Nick Cave, citato anche nello swamp-blues lento e doloroso di “Lost In The Dark”, con Blakeslee che canta con voce vibrante e limpida contro arrangiamenti così carichi di vapori psych da anestetizzare i sensi.
La title-track, invece, è una vera “preghiera di morte” per sole vocals e chitarra che si espone nuda e vulnerabile di fronte al mistero più grande di tutti. Blakeslee quasi piange, e noi con lui.

 

"Il mio colore preferito è il giallo. Quando lavoro coi colori a matita, ad olio o ad acqua, il giallo è il colore che attiva tutti gli altri. Solo quando lo introduci, gli altri colori prendono vita e l'intero dipinto si trasforma. Ritengo davvero che il giallo sia il colore di mezzo, cioè che stia tra tutte le cose. Per me è anche il più potente. Il nostro stesso sole è etichettato come un 'sole giallo', sebbene possa assumere tante diverse tonalità."
Daniel Higgs non si smentisce mai. Con poche parole, spese quasi a caso su un argomento relativamente interessante quale il ruolo del colore giallo nella tavolozza di un pittore, è riuscito a raccontare molto di sé, del suo pensiero e della sua arte, sfiorando con leggerezza naif argomenti profondi e importanti.
Chi è Higgs? Forse faremmo prima a dire chi e cosa non è, dati gli innumerevoli fronti su cui l'artista americano è attivo da sempre. Con un look da lupo di mare, svariati anelli alle dita e tatuaggi colorati su buona parte del corpo, Higgs è innanzitutto il cantante e motore lirico dei Lungfish, storica band della Dischord con alle spalle 18 anni d'attività e una pletora di dischi post-punk (tutti di discreta fattura) su cui il Nostro ha sfogato il suo illuminato non-sense attraverso versi semplici, ma potentemente descrittivi.
Higgs è anche un apprezzato e ricercato tattoo-artist e un pittore di fama. Dal nulla, è riuscito a creare una propria cosmogonia pseudo-mitologica, dove le immagini deformate di divinità mesopotamiche diventano proiezioni di un inconscio in cui è sepolto il ricordo della Morte e la verità sul mistero della Vita. Come in William Blake, i disegni assumono carattere magico e simbolico, descrizioni di un mondo ancestrale e primitivo che si rivela ad Higgs per vie sconosciute e che ha indotto molti a definirlo uno sciamano. I continui riferimenti a simboli di morte (soprattutto teschi, ma anche creature mostruose come quelle sulla copertina di "Tentacles Of Whorror" dei black-metallers Leviathan, o psico-magiche come quella che campeggia su "Jug Fulla Sun" dei doomster Spirit Caravan) si accompagnano ad immagini di occhi spalancati e indagatori, aperti su dimensioni oltre il reale che spaventano tutti tranne Higgs. Che infatti li dipinge con colori accesi e vitali, quasi psichedelici, e con un tratto minimale ed elegante.
Senza dubbio si tratta di visioni pescate da un pozzo interiore, ispirate da un'idea di religione e religiosità fuori dai canoni. In molti dei suoi testi, infatti, le figure di Cristo e Satana vengono riassunte nelle fattezze del "Signore del Mistero perfetto, il senza nome che tutto pervade, il fruttifero utero di miriadi di realtà", come lo definisce l'artista. Allo stesso modo, i suoi animali antropomorfi (e viceversa) conciliano gli opposti: uomo e bestia, maschio e femmina, natura organica e inorganica. Higgs stesso si descrive come un "interdimensional song-seamstress", intraducibile gioco di parole per ribadire la provenienza aliena della sua musica. Higgs come Austin Osman Spare o Alejandro Jodorowsky, dunque; non fosse altro che per la necessità del Nostro di usare i canali più svariati per esprimersi.
Lo stesso primitivismo mistico che informa la sua poetica, infatti, lo si ritrova anche nella musica dei Lungfish, che insiste sugli stessi accordi ed arrangiamenti spartani di chitarra, basso e batteria tali da ridurre chi ascolta in stato d'ipnosi. Daniel Higgs è il primo ad esserne rapito, se è vero che dal vivo si produce in una gestualità assolutamente istintiva e incomprensibile, benché attraente e sicuramente provocatoria. "Credo che sia soltanto provocazione," ha spiegato il musicista, "è qualcosa di implicito per via del mio look e del modo in cui mi muovo. Penso che un sacco di gente non capisca, ma che gli piaccia guardarmi. Anch'io non capisco fino in fondo, ma è qualcosa di molto importante per me... il mio interesse principale nella band è quello di danzare. Perché di danza si tratta, sebbene di una tipologia differente. Non so cosa ne pensi la gente. A volte li vedo sorridere, altre volte li vedo disgustati o imbarazzati. Dal canto mio, cerco di tenere la mente aperta alla musica e ai modi in cui essa mi spinge a muovermi, anche se ovviamente avverto certe limitazioni imposte dal modo in cui sono fatto fisicamente.”
Detto del Higgs artista visuale e improvvisato derviscio sulle note dei Lungfish, resta da dire del musicista solitario, autore di album strani e psichedelici, spesso frutto dell'improvvisazione e pertanto composti con l'ausilio di una strumentazione scarna, per non dire povera.
"Magic Alphabet", per esempio. Pubblicato nel 2004 dalla Dischord, il disco contiene elecubrazioni e mantra psych-folk creati soltanto con una jew's harp, ossia il nostro scacciapensieri! Il suo capolavoro è, almeno per il momento, il recente “Ancestral Song”, album psych-folk in cui il Nostro riversa per intero la sua poetica folle e visionaria e che alcuni addirittura considerano l'album freak-folk definitivo, quello con cui tutti sono chiamati a fare i conti.
Dall’iniziale “Living In The Kingdom Of Death” fino alla conclusione di “Time-Ship Of The Demogorgon”, è tutto un susseguirsi di melodie semplici ed ipnotiche suonate in punta di chitarra, accompagnate da un salmodiare scarno e tremolante che si pianta nel cervello di chi ascolta e non lo molla più. In “Moharsing And Schoenhut”, il Nostro s’inventa addirittura uno strumentale  per solo piano giocattolo e scacciapensieri, mentre in “Thy Chosen Bride” la chitarra assume toni fantasmatici, rincorrendo all’infinito mille rivoli acustici.
Nel 2007 è la volta dello sperimentale "Atomic Yggdrasyl Tarot", che esce accompagnato da un libro cartonato con 48 pagine zeppe di dipinti e rebus linguistici. Higgs ha cioè realizzato dei tarocchi coloratissimi ed astratti, che come per magia sembrano trovare senso e forme definite nei titoli che li accompagnano e nel modo in cui sono scomposti dall'autore. Alcuni esempi? Le lettere di "Bible" stanno per "Belief Is Blasphemy Lovingly Encoded", quelle di "Atom" per "All Time Obeys Me", ed "Eden" per "Everything Dies Even Now". Questi aforismi, tra gioco fanciullesco e profonda riflessione, sono la chiave per accedere ai molti mondi di Higgs, ritratti in forme e colori cangianti e che si mescolano tra loro in un perenne orgasmo. La musica, molto meno accondiscendente che in "Ancestral Songs", accompagna in questa esperienza rivelatrice attraverso un chaos di banjo, scacciapensieri, chitarre acustiche ed elettriche, piano, synth e rumori assortiti che sembrano azzannarsi tra di loro, ma che alla fine lasciano il posto ad un senso di pace. Entropia e armonia, d'altronde, fanno rima.

 

 

"Un nostro amico insegna in una scuola d’arte per bambini. Una volta ha suonato per loro il nostro LP, invitandoli a disegnare i suoni e la musica che sentivano… uno di loro disegnò alcune strane creature chiuse in gabbia, con accanto la frase ‘Aiuto, voglio morire impiccandomi…’”
Per quanto shockante, l’aneddoto raccontato dai Silvester Anfang contiene un’innegabile verità: la loro musica genera davvero visioni d’un’oscurità profonda e terribile. In essa si materializzano i demoni dell’inconscio, come durante una seduta psicoterapica. Del collettivo belga colpisce non tanto la capacità di sondare certi abissi e di portare a galla paure ataviche, quanto il fatto che vi riesca attraverso suoni psichedelici che, sulla carta, dovrebbero concedere sensazioni di quiete interiore, onirismo e abbandono estatico. Invece, quella dei Silvester Anfang è un’aggressione subdola e deliberata, con l’obiettivo di annegarci in paure ataviche e recondite. Un “timor panico” esplicitato sin dalla copertina del LP di debutto, “Satanische Vrede”, dove una certa esaltazione naturalistico-pagana va a braccetto col più tipico immaginario black metal. Pan e Satana finalmente riuniti.
La musica? Un miscuglio tra il krautrock degli Amon Düül bucolici (quelli di “Paradieswarts Düül” e "Sandoz In The Rain", per intenderci), il folk psichedelico, il drone e l’improvvisazione. I più li hanno inquadrati sbrigativamente nella cornice del cosiddetto freak-folk, ma i Silvester Anfang, ben consci della carica “dark” della loro musica, preferiscono un appellativo di propria creazione: funeral folk.
“L’idea del funeral folk nacque di notte, al termine della nostra prima, leggendaria session,” spiega Per. “Era passata da poco mezzanotte e Edgar, Hellvete ed io sedevamo sul divano, esausti dopo un’ora passata a suonare drone. Improvvisamente, uno di noi disse che sarebbe stato opportuno inviare le nostre porcherie a qualche piccola label belga. L’unico problema era il nome da scegliere. Avevamo già deciso di chiamare Chainsaw Gutsfuck e Per & Öystein altri due progetti con cui avevamo registrato, e dato che entrambi i nomi avevano a che fare con la scena black metal norvegese – il primo è il titolo di un brano dei Mayhem, il secondo indica i nomi di battesimo di due suoi membri, Dead e Euronymous – decidemmo di scegliere il moniker di ogni nostro gruppo ispirandoci a band come Mayhem e Burzum. Iniziai ad elencare alcuni pezzi dei primi, e optammo per Silvester Anfang, come la famosa intro sul loro debutto. Hellvete aggiunse che avremmo avuto bisogno di una definizione che identificasse la nostra musica, così trasformò ‘Funeral Fog’ dei Mayhem in ‘funeral folk’, e il resto è storia.”
La messinscena a base di capre, falci e cappucci da Ku Klux Klan (realizzati con fodere di cuscini, a guardar bene!) sulla copertina di “Satanische Vrede” è dunque espressione di un perverso senso dell’umorismo, non certo di un maldestro tentativo di apparire cattivi. “Penso che molta gente prenda troppo sul serio la propria musica,” continua Per, “non sopporto questi artisti che ad ogni domanda rispondono cose del tipo ‘Il pensiero che si cela dietro ai miei lavori… bla bla bla.’ Fare gli idioti è molto più divertente, io la penso così. E poi, senza gente del genere non avremmo avuto GG Allin, Mentors, Butthole Surfers, Headmeat… la lista è infinita.”
Mayhem, GG Allin, Butthole Surfers: i Nostri sembrano avere gusti musicali particolarmente vari e soprattutto distanti da quanto poi proposto sotto l’insegna del funeral folk. “Sono il metallaro del gruppo,” dice Per, “e gli album che mi hanno fatto desiderare di suonare in una band sono innanzitutto “Kill ’Em All” dei Metallica e “Show No Mercy” degli Slayer. Quando li ascoltai avevo solo 12 o 13 anni, ma mi piacciono ancora oggi. Più tardi, all’età di 18 anni, iniziai a pasticciare coi software, dopo avere ascoltato Aphex Twin, Derrick May e un sacco di produttori house.”
Edgar ,invece, è partito da lidi diversi: “Ho iniziato a credere veramente nella mia musica dopo avere scoperto che molti gruppi lo-fi e post rock suonavano le stesse cose. Il black metal l’ho scoperto con 20 anni di ritardo e grazie a Per. Quando ancora non lo conoscevo, lo vedevo a scuola e pensavo fosse un cretino con un pentagramma al collo. Lui invece mi immaginava come un idiota punk rock. È finita che adesso condividiamo entrambi le stesse passioni.”
Hellvete, a dispetto del nickname, è cresciuto ascoltando indie rock. “Gruppi come Guided By Voices, Pavement e Sebadoh mi hanno spinto ad imbracciare la chitarra, ma ovviamente ho apprezzato anche il post rock dei Mogwai e un gruppo seminale come gli Slint.”
Anche P.I.666, entrato a far parte dei Silvester Anfang dopo averli conosciuti ad un concerto degli sludgers Thee Plague Of Gentlemen, si distingue per un certo eclettismo: “Iniziai ascoltando Rage Against The Machine e Cypress Hill, poi scoprii Sparklehorse, My Morning Jacket e Sigur Ros. Oggi mi appassionano il garage-psych rock, il delta blues più oscuro e il black metal norvegese.”
Musicisti con gusti musicali tanto vari non potevano non sentire la necessità di esprimersi su più fronti. Ecco perché seguendo le direttive degli stessi artisti agiscono altre entità dai nomi curiosi. I già citati Chainsaw Gutsfuck e Per & Öystein, innanzitutto, ma anche Mollenhauer (progetto per soli flauti!), December, Geitevuyst e Blodklod.
Per racconta: “I Chainsaw Gutsfuck sono nati per gioco, quando Edgar e Hellvete si incontrarono nella soffitta di quest’ultimo per registrare un po’ di rumore con ciò che avevano a disposizione e con l’intenzione di inviare il risultato a qualche piccola label, solo per vedere quanto lontano sarebbero andati. Invece, Per & Öystein siamo io ed Edgar. Eravamo annoiati, così decidemmo di suonare drone music per un paio d’ore.  È il progetto funeral folk in cui riversare tutta la nostra idiozia.”

Sotto la bandiera funeral folk c’è anche spazio per un paio di progetti solisti: “L’omonima one-man band di Hellvete è una delle cose migliori del nostro catalogo. Lui usa il suo laptop per registrare brani oscuri e bellissimi, molto ossessionanti, mentre Edgar Wappenhalter è qualcosa di completamente diverso, folk paragonabile a quello di Six Organs Of Admittance. Non penso sia difficile distinguere tra i vari gruppi, perché ognuno di loro ha un proprio sound.”

Intanto, per i Silvester Anfang è tempo di venire allo scoperto. L'occasione è data dalla pubblicazione di un secondo vinile (in realtà contenente materiale precedente a quello di "Satanische Vrede") per la Eclipse intitolato "Echte Vlaamse Geiten" e del primo CD per la Aurora Borealis, "Kosmies Slachtafval", contenente due lunghe e bellissime jam registrate lo scorso Novembre sotto l'influsso delle atmosfere invernali.
Qui la magia riesce loro meglio che altrove, complice un uso abbondante e sapiente di tastiere cosmiche che assicurano un trip mentale di tutto rispetto. Intorno ad esse, il tintinnare di chitarre acustiche spesso sopraffatte da quelle elettriche, in un continuo sturm und drang. E ancora, percussioni e piatti smorzati a tessere una trama melodica che rapisce i sensi, ricca com’è di sfumature e di intriganti dettagli sonori. In questi solchi, il microcosmo pagano dei Nostri sembra riflettersi nello specchio nero e macrocosmico dello spazio infinito, per restituirci una visione del mondo finalmente completa e armoniosa, benché oscura e pregna di mistero.

 

VOICE OF THE SEVEN WOODS

Una promessa mantenuta, quella di Rick Tomlinson. Sono anni che ci serve su piatti d'argento il suo folk psichedelico strumentale, ricco di spezie orientali e robuste dosi d'elettricità, ma solo adesso giunge un album sulla lunga distanza a confermarne la grandezza. Il disco esce per la fidata Twisted Nerve e si intitola come la sua band, Voice Of The Seven Woods. Che in realtà proprio una band non è: Tomlinson è infatti affiancato dal bravo Chris Walmsley alla batteria, ma è il giovane inglese a suonare tutto il resto (chitarre acustiche ed elettriche, sitar, oud, percussioni, piano) sobbarcandosi la maggior parte del lavoro.
D'altronde è la sua visione, la sua idea di psych-folk. Una musica tradizionale e dal sapore classico, ma costruita in modo avvincente e che si rifiuta di prestarsi al gioco delle categorizzazioni. Nonostante il fingerpicking di prim'ordine sfoggiato in numerose occasioni, Tomlinson non appartiene alla scuola faheyana, oggi tornata alla ribalta grazie ad una manciata di chitarristi prodigiosi. In effetti, "Valley Of The Rocks" e "The Smoking Furnace" sembrano omaggiare proprio il maestro di Takoma; o meglio ancora Robbie Basho, per la forza spirituale che traspare dalle tracce. Ma si tratta solo di un ingrediente nella ricca ricetta di Voice Of The Seven Woods. Neppure è possibile parlare di una piena adesione ai modelli free-folk che vanno per la maggiore, e che i Voice Of The Seven Woods sfiorano appena. Il fatto è che Tomlinson non si pone limiti di sorta, battendo ogni via espressiva che si dimostra comoda e percorribile in modo naturale, senza forzature.
Così, in "Silver Morning Branches" addirittura canta, con una delicatezza unica, una melodia triste e dolorosa, prima risucchiata nei mulinelli di chitarra acustica a seguire, e infine restituita alla sua scabra essenza. La successiva "Second Transition", invece, inizia con delle rifrazioni chitarristiche interrotte da una pausa: un secondo di silenzio assoluto, astutamente calcolato per sorprendere l'ascoltatore col successivo, lunghissimo assolo hendrixiano. Parte come se già ci trovassimo nel bel mezzo del baccanale elettrico, in una di quelle jam d'altri tempi in cui la chitarra sembra sollevarsi da terra e spiccare il volo. Sullo sfondo, il sitar fa da contrappunto, mentre la batteria si muove robusta e lontani vocalizzi corali intervengono a sottolineare la grandeur del pezzo. Stupendo! Della stessa febbre è vittima "Underwater Journey", che in una manciata di minuti sintetizza la lezione di Ash Ra Tempel e Amon Düül, maestri del krautrock più free e ipnotico. 
All'inizio della raccolta, invece, "Sand And Flames" accosta linee meditative di chitarra acustica a percussioni orientali; un piccolo gioiello di psichedelia esotica, un miraggio colorato che presto si concretizza nell'oasi felice di "Satai Nova" e nella sfrenata danza del ventre di "The Fire In My Head", ideale sottofondo per baci voluttuosi con dee dalla pelle dorata all'ombra di palmizi. Il capolavoro di Voice Of The Seven Woods va però cercato all'altro capo del disco, tra le pieghe della lunga "Return From Byzantium", una corsa allucinata di batteria e basso pulsanti, in fuga da poderose ondate acustiche che minacciano tempesta. Un inseguimento a perdifiato, con stupendi giochi armonici e arrangiamenti lussuriosi. È il manifesto artistico più bello di Rick Tomlinson, che in un sol colpo esce dall'ombra dell'underground e si becca in faccia la luce dei riflettori e il meritato plauso di tutti.

 

 

DISCOGRAFIA CONSIGLIATA:

 

 

WOODEN GUITARS
JACK ROSE, SIR RICHARD BISHOP, STEFFEN BASHO-JUNGHANS E JAMES BLACKSHAW

C'era una volta John Fahey, un americano di Takoma che, mentre il mondo impazziva per il rock'n'roll, il jazz modale e quello "free", compiva un percorso a ritroso, esplorando le possibilità espressive della chitarra acustica, senza l'aggiunta di ulteriori strumenti. "Unaccompanied guitar", fu scritto all'epoca. Eppure, ascoltando dischi capolavoro come "Fare Forward Voyagers" e "America" non era possibile immaginare suono più ricco e completo, d'una pienezza e intensità prodigiose. Merito non soltanto del fingerpicking magistrale del Nostro, ma anche della sua capacità di raccontare, col solo ausilio di una manciata di corde, luoghi, persone, storie e umori che appartenevano all'immaginario americano, alla sua cultura più intima e profonda.
Per un popolo "giovane" e che non vantava radici importanti  nell'antichità, quella era con tutta probabilità l'espressione più alta della propria identità sociale e culturale. La chitarra diveniva il tempio greco, il foro romano, la piramide egizia. E Fahey ne traeva fuori suoni incredibili, ora torbidi ora cristallini, organizzati in strumentali brevi e scarni, oppure in torrenziali tour de force, dei veri e propri raga. Se Hendrix stravolgeva l'uso della sei-corde elettrica tracciando le linee guida di tutto il rock moderno, Fahey estraeva la modernità dal classico, delineandola in un concetto più sfuggente, sicuramente meno appariscente, ma altrettanto significativo. Insieme a lui erano altri grandi musicisti: Leo Kottke, Robbie Basho, Peter Lang, Michael Chapman, Peter Walker, Sandy Bull...
Quarant'anni dopo, e nonostante di acqua sotto i ponti del rock ne sia passata parecchia, quelle chitarre di legno sono tornate a far sentire la loro voce naturale e imperiosa proprio nell'ultimo decennio. A suonarle sono soprattutto musicisti d'estrazione avanguardista, spesso coinvolti precedentemente in progetti noise, ma c'è anche qualche anima davvero giovane. Quest'ultimo è il caso di James Blackshaw, 25enne dal tocco magico che in "O True Believers" e sul nuovo "The Clouds Of Unknowing" inanella una serie di raga dai colori cangianti, come quelli di una Natura descritta nei suoi aspetti più magici e fatati, in brani come "The Elk With Jade Eyes", "Spiralling Skeleton Memorial" e "Running To The Ghost", suonati in solitudine o con l'accompagnamento di un violino spiritato.
Di quello che suonano i moderni John Fahey è stata data una definizione affascinante, per quanto forse riduttiva: "deltadelica", con ovvio riferimento al blues del delta. Il termine
fu coniato dai tipi dell'americana Locust Records per sottolineare le proprietà psych di un suono, quello della chitarra acustica a 6 e a 12 corde, primitivo e ipnotico. L'occasione era quella della pubblicazione della loro compilation manifesto "Wooden Guitar", contenente i contributi di quattro straordinari musicisti: Sir Richard Bishop, Tetuzi Akiyama, Steffen Basho-Junghans e Jack Rose.

Se il giappones Tetuzi Akiyama è il chitarrista dallo stile più criptico e minimalista, Sir Richard Bishop è con ogni probabilità quello più estroverso e versatile. Viene fuori dalle fila dei Sun City Girls, formazione folk-noise d'avanguardia dell'Arizona con una bella storia di sperimentazioni alle spalle, ma il suo debutto solista è ben altra storia. Uscito per la Revenant Records, etichetta fondata da John Fahey e a cui l'artista ha dedicato i suoi ultimi anni di vita, "Salvador Kali" si fregia di un titolo che mette in luce ad un tempo le stravaganze di Bishop e la sua passione per l'Oriente misterioso. Nei solchi del disco, invece, insegue chimere folk-blues dal sapore andaluso ("Pedro's Last Ride" "Burning Caravan"), e addirittura si butta a precipizio in una traccia per solo piano, "Al-Darazi", lunga ben 14 minuti.
Il successivo "Improvika", primo capitolo della serie "Wooden Guitars" che la Locust ha dedicato ai partecipanti della storica compilation, Sir Richard Bishop offre il suo lato più oscuro, rinunciando a buona parte della solarità che da sempre contraddistingue le sue armonie e facendo emergere altre passioni. Il Nostro è infatti un ricercatore e collezionista di mappe e antichi libri di esoterismo, misticismo e magia. Così, ad episodi di breve durata ed in linea con la precedente produzione come "Skull Of Sidon" e "Cryptonimus", l'artista affianca brani dalle strutture imponenti e improntati all'improvvisazione quali "Rudra's Feast", Gnostic Gem" e "Tripurasundari", che sfoggiano un fingerpicking d'intensità disumana senza lesinare in melodie.
Il successivo "Fingering The Devil", uscito in tiratura limitata nella serie Latitudes della Southern Records (insieme a lavori di Ginnungagap, Grails e tanti altri), è però al momento il suo lavoro più conosciuto e apprezzato. Merito di un approccio più sereno e pacato, dove il lato sperimentale della sua musica viene mitigata da un prorompente flavour gitano ("Abydos") che rende più fruibile la proposta e allo stesso tempo permette al Nostro di dare prova della sua bravura esecutiva anche in sede live (l'album è stato infatti registrato dal vivo in studio).
Tutto è frutto dell’improvvisazione, ma quel che più sconcerta è la mancanza di qualsiasi preparazione tecnica di Bishop. “Non ho mai ricevuto lezioni da nessuno,” rivela il musicista, “e non ho mai imparato a leggere la musica. Non conosco le regole, e mi sta bene così. Comunque, ho rubato senza vergogna molte idee dagli artisti che mi anno ispirato, riuscendo ad amalgamarle in un mio personale sistema musicale non ortodosso. Su di me hanno avuto un grande impatto Django Reinhardt, Les Paul, Jimmy Page, Ali Akbar Khan, Jimi Hendrix, Wes Montgomery, Ravi Shankar… e la lista potrebbe continuare.”
Trascorso quasi un decennio dal debut “Salvador Kali”, Sir Richard Bishop è recentemente tornato con due bei dischi. In "While My Guitar Violently Bleeds" (ancora su Locust), il chitarrista prova ad ampliare una volta per tutte il suo spettro sonoro. In “Zurvan” gioca con le dita sul manico della chitarra in modo meno appariscente del solito, mentre altrove aggiunge un tocco di elettronica che ben si sposa al flavour orientale delle sue composizioni, trasformando “Smashana” in avvolgente drone music dal respiro oscuro e pesante. Il miglior Bishop è però quello del capolavoro “Mahavidja”, 25 minuti di improvvisazione su un tappeto raga indiano con finale pirotecnico che non sacrifica l’espressività in favore della tecnica e mostra quanto “heavy” possa suonare una chitarra acustica. Così Bishop ama descrivere il contenuto del disco: "Il primo è un pezzo per sola chitarra acustica che comincia in modo innocente, per poi prendere velocità e rivelare il suo tema portante. L’ultimo è un lungo brano simile ad un raga, con chitarre acustiche e tamburi. In mezzo c’è del drone-noise psichedelico per chitarre elettriche che suona in modo diverso rispetto al mio materiale precedente. È musica per una cerimonia di cremazione… o almeno è quello che vado dicendo in giro. Riesci a sentire il puzzo della carne bruciata? Io sì.”
“Polytheistic Fragments”, fuori col marchio Drag City, è forse addirittura superiore. Il programma qui offerto è simile a quello del debut “Salvador Kali”, eccetto che per un maggiore amalgama tra le passioni per raga indiani, flamenco e folk-blues dalle tinte psych-drone. Avvicinare mondi così distanti e mettere insieme i frammenti religiosi e culturali del titolo non è impresa facile, ma Bishop si dimostra capace di raccontare tanto la placida vita americana di provincia (“Tennessee Porch Swing”) quanto l’India spirituale (“Rub’Al Kali”). Oppure di affiancare il quasi surf giocoso di “Canned Goods And Firearms” all’improvvisazione di “Free Masonic Guitar”; il breve esperimento di “Cemetery Games” alla lunga epopea pianistica di “Saraswati”; la serena contemplazione paesaggistica di “Ecstasies In The Open Air” alle malinconie autunnali di “Quiescent Return”. Più che volere mettere in evidenza maestria e versatilità, Bishop sembra dirci – da vecchio saggio barbuto qual è – che Dio va cercato negli opposti, in culture lontane dalla nostra come nel giardinetto di casa. Che il perché di ogni cosa è in quel puzzle di cui ci tocca mettere insieme i frammenti durante la nostra esistenza. Cominciate da questo.

Il berlinese Steffen Basho-Junghans (che ha aumentato l'estensione del suo cognome in omaggio all'idolo Robbie Basho e al maestro zen Matsuo Basho) ha anch'egli pubblicato un lavoro sulla collana "Wooden Guitar" della Locust, "The Last Days Of The Dragon", quasi una summa del suo stile chitarristico severo e sofisticato al contempo. Ma prima e dopo si collocano altri bellissimi e importanti album che lo segnalano come il più accreditato esponente della scuola di Takoma in terra europea.
Se gli esordi risentono ancora dell'influsso faheyano, pur lasciando intravedere una perizia tecnica forse addirittura superiore a quella dei suoi illustri maestri, i dischi più recenti lo mostrano alla ricerca di una dimensione propria, raggiunta infine in opere come "Rivers And Bridges" e "Late Summer Morning", mentre "7 Books" e "Waters In Azure" ne fanno conoscere il lato più sperimentale e al limite del minimalismo.
Non impetuoso e viscerale come Jack Rose, né teatrale e irriverente come spesso è Bishop, Basho-Junghans mette in mostra uno stile personalissimo, sicuramente meno appariscente, tutto giocato su trame all'apparenza semplici, ma in realtà piene di dettagli sfuggenti all'orecchio inesperto e prodighe di emozioni impareggiabili per quello educato e attento. Com'è ovvio, ai raga del Nostro spetta di diritto l'appellativo di "psichedelici". Nel fluire delle note s'avverte infatti quella ricerca dell'anima, quel sondare abissi interiori in estremi atti di meditazione che è propria della musica psichedelica e che conferisce alle composizioni di Basho-Junghans una grande profondità spirituale.

Il più famoso dei figli di Takoma è l'americano Jack Rose. Un musicista dal nome semplice e dall'aspetto dimesso, eppure è uno tra i chitarristi più dotati della nuova scuola acustica. Se nell'accostarsi alla materia Steffen Basho-Junghans mostra il distacco di un maestro e Sir Richard Bishop i modi dell'intrattenitore che non si prende sul serio e non ha grandi verità da svelare (e invece forse sì), Rose sembra ben più coinvolto emotivamente nei raga psichedelici che scrive e improvvisa, quasi fossero uno strumento divino di ascesi e purificazione. 
Al di là delle atmosfere blues (vedi la cover di Robert Johnson "Dark Was The Night, Cold Was The Ground" sul debut "Red Horse, White Mule") e di quelle appalachiane che vengono fuori dai brani più classici - dove il nostro riversa il suo amore per gli sterminati paesaggi, i fiumi che li solcano e le storie di solitudine ambientate nell'America più rurale e periferica (la splendida "Now That I'm A Man Full Grown", sull'ultimo "Kensigton Blues") - c'è in Jack Rose una buona dose di misticismo, un afflato tutto religioso. 
La copertina di "Raag Manifestos", disco live registrato in svariate occasioni, raffigura un momento di epifania celestiale e vocazione angelica, e le note contenute nell'album rimandano al capolavoro di Fahey, "Fare Forward Voyagers". Anche qui il linguaggio è quello di raga americanizzati, dalle incredibili proprietà psichedeliche, per di più suonati con una foga che fa spavento. Rose aggredisce letteralmente le corde nell'iniziale "Black Pearls From The River", e soprattutto in "Hart Crane's Old Boyfriends", così sottolineando la sua partecipazione emotiva ad un racconto che dal titolo sa di peccato e perdizione. Ma la cura spirituale e la redenzione sono dietro l'angolo, lungo una strada certamente non lastricata d'oro ("Road"), ma quel che conta è la meta. Anche "Crossing The Great Waters" potrebbe dunque essere una metafora religiosa, mentre "The Tower Of Babel" poggia esplicitamente su argomenti biblici e la conclusiva "Blessed Be Thy Name Of The Lord" chiude su note riconcilianti.
"Raag Manifestos" è forse il disco più bello di Jack Rose, colto nella dimensione a lui più congeniale, quella live. Ma è anche il più difficile. Il Nostro vi suona con le viscere, prima ancora che con le dita, e spesso e volentieri la musica si fa oppressiva e oscura oltre l'immaginabile. "Kensington Blues", contenente registrazioni effettuate in presa diretta e senza ripensamenti, è invece più educato e sereno. Suona quasi come una personale antologia per laptop e chitarra a 6 e 12 corde, e difatti un paio di brani apparivano già in precedenti release, seppure in versioni diverse. Rose li ha rivisitati alla luce di una consapevolezza tutta nuova, di un senso della misura che dona eleganza, ma che smorza parzialmente la carica dirompente di certe sue cavalcate furibonde, dove le note si accavallano le une sulle altre fino a formare dei mantra stordenti e quasi drone. 
Artista perennemente insoddisfatto, umile e disponibile, spesso in tour (anche accanto al collega Glenn Jones, di cui consigliamo il malinconico debut "This Is The Wind The Blows It Out"), dotato di uno stile che fonde la visione di Fahey, la spiritualità di Basho e la poesia agreste di Kottke, forse Jack Rose deve ancora scrivere il suo capolavoro definitivo, ma intanto è senza dubbio la voce acustica più forte, bella e amata tra le nuove "wooden guitars".

 

 

DISCOGRAFIA CONSIGLIATA:

 

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