Piazza Loggia 2005
Discorso di Giovanni Bachelet in Piazza della Loggia 28 Maggio 2005
28-5-05
Saluto tutti i cittadini e le autorità presenti in
questa piazza, e ringrazio Manlio Milani e l’associazione dei familiari dei
caduti di piazza della Loggia per avermi voluto invitare a questo
anniversario.
Milani mi ha spiegato che l’invito era in nome di un
comune, anche se diverso, destino; mi ha pregato di presentarvi qualche
ricordo di mio padre, anche lui morto presto, ma in un attentato di altro
tipo, venticinque anni fa. È una generosa tradizione, quella di coinvolgere
nella memoria caduti e vittime di tutte le battaglie democratiche del nostro
Paese. Grazie.
Al momento dell’invito Milani non sapeva che i miei
suoceri abitano a pochi passi da casa sua qui a Brescia, né che la
professoressa Banzi, una dei caduti di questa strage, era professoressa di
francese di mia cognata; né che Cesare Trebeschi e Franco Salvi erano
carissimi amici di mio padre. Franco Salvi, il partigiano cristiano, ma
anche il politico che –se crediamo al memoriale– aveva espresso a Moro
terribili dubbi all’indomani della strage di Brescia.
Quando nel 1976 papà e Franco Salvi passeggiavano su e
giú per ore lungo via Ricciotti, sotto il portone di casa nostra, in un
pomeriggio di sole, non sapevo di che cosa stessero parlando. Papà me lo
disse la sera: Moro mi vuole candidare al Consiglio Superiore della
Magistratura. E ha mandato Franco a dirmelo perché sa che per me Franco si
butterebbe nel fuoco, e io per lui. Che cosa gli hai detto? Che ci penserò
bene. Ci pensò bene, e, anche incoraggiato da noi figli, allora entusiasti
di Moro e Zaccagnini, disse di sí.
Papà era talmente poco retorico e cosí tranquillo, che
il valore e la difficoltà di alcune sue decisioni, in alcuni casi le
decisioni stesse, le ho apprezzate solo dopo, apprendendole dai suoi amici e
colleghi dell'Università, dell'Azione Cattolica, del Consiglio Superiore
della Magistratura. Il coraggio d'impegnarsi senza risparmio nel lavoro,
nell'associazionismo, e alla fine, con una certa riluttanza, in politica e
nelle Istituzioni. Il coraggio, pur essendo un esperto di diritto
amministrativo, di non fare mai soldi attraverso consulenze (questo me l'ha
spiegato una volta un suo collega). Il coraggio di avere a che fare con la
magistratura in un tempo in cui ne ammazzavano parecchi (per i magistrati la
vita non è mai stata facile), e di rifiutare la scorta, anche dopo la strage
della scorta di Moro nel 1978. Ma tutto senza clamori e senza sparate.
Un ricordo, per capire che tipo era: in quegli anni non
si riusciva a celebrare il primo processo alle Brigate Rosse, perché i
cittadini chiamati a formare la giuria popolare fornivano via via
certificati medici o altri documenti per essere esonerati da un incarico
che, secondo i minacciosi proclami dei brigatisti, sarebbe costato loro la
vita. Finalmente qualcuno accettò. Io e papà guardavamo insieme la
televisione quando uno di questi eroi civili, un cittadino di Torino, fu
intervistato con la consueta delicatezza e psicologia: "Ma lei non ha letto
le minacce di morte dei terroristi? non ha paura?" Lui rispose "La paura ce
l'ho, ma me la tengo." Mio padre mi disse allora (e quante volte ci ho
ripensato poi): ecco, questo non è un trombone, questo è un vero uomo.
Permettetemi di ricordare insieme a mio padre, morto
venticinque anni fa, anche Sandro Pertini, del quale ricorre il quindicesimo
anniversario ed è per me inseparabile dal ricordo degli ultimi anni di mio
padre, quelli appunto del Consiglio Superiore della Magistratura. Il
“vecchio rimbambito che scambia i corridoi del Quirinale con le trincee
della Resistenza” e il “culo di pietra” che merita solo un “cuore di
piombo”, come Pertini e mio padre vennero rispettivamente definiti in
altrettanti comunicati delle Brigate Rosse, si stimavano e si trovarono bene
insieme.
Ricordo quando arrivai trafelato dall’aeroporto,
dall’America, quel tremendo 13 febbraio del 1980. In certi momenti stentiamo
a credere a quello che ci è stato detto. Entrando a casa trovai Pertini
seduto sul divano del nostro salotto, vicino al professor Amaldi, con mia
madre e mia sorella. Capii ancora una volta che era proprio vero: papà non
c’era piú. L’anno prima papà si era salvato: sotto il suo ufficio l’ordigno
dei NAR non era esploso. Ma stavolta era proprio morto.
In quegli stessi anni altri politici (oggi vivi e
vegeti, spesso ancora sulla breccia) coniavano e diffondevano lo slogan “né
con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Anche allora, infatti, per diversi
motivi, una parte del bel mondo politico si faceva beffe della legalità e
del senso dello Stato; e finiva, anche allora, per prendersela coi
magistrati, colpevoli di teoremi indimostrabili ed artefici di persecuzioni
politiche a senso unico. Dàlli ai magistrati! Che invece, insieme al
sindacato, per negligenza della politica, furono l’unico e l’ultimo argine
in molte alluvioni che rischiavano di travolgere la democrazia. Allora come
oggi. Anzi, benché il contesto sia molto diverso, sono a volte le stesse
persone, gli stessi politici, gli stessi avvocati (ieri scapigliati, oggi
governativi) a prendersela coi magistrati.
Pertini invece, magari con una semplicità che
veniva ridicolizzata in qualche salotto buono, si schierava, senza
circonlocuzioni, dalla parte della legge: era evidente a tutti che stava
dalla parte dei giudici e dei carabinieri e non apprezzava l’opera dei ladri
e degli assassini. Questo dovrebbe essere ovvio per chi si trova al
vertice della Repubblica; ma a quanto pare non lo era nemmeno allora, se,
nel 1985, Pertini si trovò a dover ricordare al ministro De Michelis, reduce
da una stretta di mano in pubblico con Oreste Scalzone a Parigi, che lui,
Pertini, non avrebbe mai stretto la mano a un latitante che, per evitare il
carcere, era scappato dall’Italia. Pertini era stato esule; per questo gli
era impossibile confondere un esule con un latitante, come invece capitava e
capita ad altri.
Nel ricordare Pertini, papà, gli eroici sindacalisti e
cittadini democratici caduti qui a piazza della Loggia, c’è un unico,
gravissimo dubbio che mi assale. Se valga per tutti quanto disse con
disprezzo una rivista di quegli anni: se “il nostro caro Pertini, nella
demagogia dello Stato assurto a Giovanni XXIII della Repubblica”, quello che
anche da Presidente si paga coi soldi suoi il biglietto dei viaggi privati,
non sia servito solo “come falsa coscienza, come foglia di fico” di un Paese
irrimediabilmente corrotto e pasticcione. Mi chiedo, in questi momenti di
sconforto, se sia valsa la pena di vivere, e in alcuni casi di morire, per
un Paese che guazza sempre nell’imbroglio e nel complotto, e, anziché il
meglio delle radici cristiane e socialiste, laiche e liberali della
Resistenza e della Costituente, continua a mettere insieme il peggio del
clericalismo, del post-comunismo e della massoneria, il peggio di Arlecchino
e Pulcinella. Il peggio del peggio, insomma, magari in nome del realismo,
del bene comune, perfino del riformismo; magari in modo tale da far sembrare
rimbambiti o ingenui (a seconda dell’età) quelli che lottano per un’Italia
giusta e pulita, per un’Italia normale.
Ma scaccio il dubbio e rispondo di no. Non è
stata una foglia di fico, è stata la fionda di Davide.
Lottare, anche in pochi, quando sembra impossibile
vincere, è in ogni tempo un utile, anzi insostituibile servizio alla libertà
e alla giustizia, alla verità e alla pace. È stata efficace, anzi
decisiva la lotta dei partigiani come Pertini o Franco Salvi contro il
fascismo. E negli anni tremendi delle bombe, degli attentati terroristici,
dello scandalo Lockheed, della loggia P2, dell’esplosione della mafia, sono
stati cruciali il servizio di Pertini, Moro o mio padre ai vertici della
Repubblica, la responsabile eppure implacabile opposizione di Berlinguer, il
coraggio di magistrati e giornalisti come Walter Tobagi, del quale ricorre
oggi il venticinquesimo anniversario, la vigilanza democratica di sindacati
e cittadini, qui a Brescia e in tutta Italia.
I sacrifici richiesti dal coraggio non sono serviti
solo a salvare l’anima di chi li faceva. Traguardo peraltro non
disprezzabile: proprio Pertini disse una volta al Papa, in cima a una
montagna nevosa, “sono ateo ma, se c’è il Paradiso, ci andrò anch’io”. E
disse bene, secondo me.
Questi sacrifici sono serviti anche al bene di
tutti. Hanno mostrato che, nei momenti difficili, pochi giusti coraggiosi
sono sufficienti a inceppare la macchina del consenso al male, a risvegliare
le coscienze, a salvare un intero Paese; hanno
mostrato che la politica non è solo intrallazzo, ma può essere anche, come
disse una volta il papa Paolo VI, la piú alta forma di amore e di servizio
del prossimo; hanno cosí restituito speranza e fiducia nella politica,
quella vera, ad un’intera generazione che allora aveva vent’anni, la mia
generazione; e in alcuni di essi, fra cui me, alimentano ancora, trent’anni
dopo, il coraggio e la voglia anzitutto di lavorare
onestamente, senza pestare i piedi degli altri ma anche senza piegare la
schiena; alimentano l’amore per la Repubblica e la Costituzione, anche oggi
vilipese e oggetto di un diverso, ma non meno pesante attacco; consentono di
pronunciare ancora parole come libertà, giustizia, verità e pace, senza né
vergognarci quando ci guardiamo allo specchio in bagno (come dice il
professor Sylos Labini), né sentirci rimbambiti o ingenui.
Sento come un privilegio e una responsabilità
grande quella di professare questi valori e trasmetterli ai figli,
affidando loro, insieme alla memoria del nonno Vittorio assassinato a
cinquantaquattro anni, anche quella di Pertini partigiano e Pertini
presidente, anche quella degli eroi di Piazza della Loggia, anche quella di
tutti i testimoni e i caduti della democrazia, da Aldo Moro all’ultimo
poliziotto, all’ultimo carabiniere.
Con questo patrimonio di memoria alcuni dei
nostri figli – non c’è bisogno che siano in molti,
anche per il presente ed il futuro bastano pochi giusti e coraggiosi
– attraverseranno, illuminandolo, il buio che, nonostante gli sforzi di
ottimismo, io temo di vedere all’orizzonte, ancora per qualche tempo, in
Italia e nel mondo.