Ritornare alla Piazza
18.03.2004
di
Sergio Zavoli
Ogni tanto
qualcuno mi esorta a credere che Silvio Berlusconi, quando sembra
improvvisare, ha già in mente l'effetto ultimo, quello voluto, di quanto
dice. Avendo fatto qualche esperienza nel mondo della comunicazione la
domanda rivoltami finisce per essere questa: “Secondo lei, è un fatto
mediatico, caratteriale, politico, culturale o psicologico?”. Sono
dell'idea che il non sottovalutare anzitutto l'aspetto mediatico
gioverebbe assai più del menar scandalo dinanzi alla presunta incontinenza
del Premier. Non è necessaria una particolare acutezza, o malizia, per
intravedere nella sua facondia, aspra o suadente a seconda della
circostanza, l'applicazione di una vecchia regola, universalmente
consacrata dalla Tv: “Se dirai quello che penso, che sento e che voglio,
tu sarai me e io te!”.
Si tratta, per
dirla un po' a spanne, di intercettare pezzi di un'opinione pubblica che
non si sente rappresentata, e di farla propria; quanto al rischio di
urtare un'altra parte del Paese, è sufficiente aver pronto un repertorio
di smentite, messe a punto e minimizzazioni che, senza disperdere i
consensi incamerati, ridurranno via via, sino a vanificarli, gli effetti
negativi dell'esternazione.
Secondo altri,
invece, essa esprime, semplicemente, ciò che l'esternatore pensa e in cui
crede, essendo inimmaginabile che un uomo dimostratosi capace di
attraversare una foresta di regole per costruire un impero economico di
quella dimensione e natura - uscendone, almeno finora, quasi indenne - si
lasci sfuggire, come in un bar, il giudizio espresso, lo ricorderete, su
Mussolini e le vacanze imposte ai nemici più risoluti del suo regime. Un
uomo come Berlusconi - con quell'intuito, ma anche di quella esperienza -
potrebbe gettarsi in un argomento del genere se non contasse di cogliere
il pensiero, e persino il sentimento, di quanti vivono con l'animo voltato
indietro, sapendo di poter poi ridimensionare il “caso” facendolo
banalizzare, fino a sterilizzarlo, dalle sue puntuali guardie mediatiche?
E magari senza avere calcolato di sottrarre “argomenti difficili” persino
a qualche alleato mettendosi - a petto nudo, per così dire - dalla parte
di chi la pensa in quel modo? Ma poi, che cosa gli potrebbe costare - a
parte una momentanea protesta civile e culturale - la difesa di un “lato
umano”, come la... bonomia da cui il Duce ogni tanto era preso nei
confronti soprattutto di comunisti, socialisti e anarchici, cui offriva,
con irrefrenabile magnanimità, villeggiature in luoghi climaticamente
miti, dal paesaggio riposante, in hotels a cinque stelle frequentati dal
bel mondo internazionale, ostriche e Chablis a un cenno della mano, per
poi ridimensionare una irenica visione della dittatura attraverso i suoi “prêt-à-penser”,
sempre pronti a pensare, e a chiarire, le vere intenzioni del leader
massimo? Oppure l'accusa ai politici - della sinistra, preciserà - che non
si capisce come possano avere la casa al mare o in montagna, e comprare la
barca, se non rubando? Che cosa c'è di riprovevole nel ripeterlo se è un
nostro cavallo di battaglia, dicono i qualunquisti di lungo corso? Gli
oppositori, invece, sottovalutando questi umori che covano sottotraccia,
si lasciano ingannare dalla pretesa “sconsideratezza” del Premier per
denunciarla, a pieni polmoni, come la misura ancora una volta palese del
credito accordabile al titolare del governo in carica.
Ed ecco che la
polvere pirica - accesa qua e là da un maestro, a parte l'evidente
concretezza, anche di fuochi artificiali - suscita una grande,
accattivante meraviglia in chi ama quello spettacolo, e al tempo stesso
provoca un temporale di sdegni, rifiuti e reprimende che invadono il
Parlamento, i mass-media e l'opinione pubblica, offrendo alla strategia
pirotecnica del “grande comunicatore” la più straordinaria e infallibile
propagazione dell’“effetto luminoso” cui un “mago delle luci” possa
aspirare! È una vera ingenuità credere che a ogni denuncia delle sue
“sconsideratezze” diminuisca il consenso accordato al destinatario di quei
gratuiti contributi mediatici.
Non occorre
essere uno psicologo, un sociologo, un mass-mediologo, o uno studioso del
consenso, per sapere che “enfatizzare l'errore - come scrive Edgar Morin -
riduce e persino inverte, anziché ingrandire, la valenza dell'errore”. È
il caso dell'intervento del Primo ministro nel corso della “Domenica
Sportiva”, che aveva trasformato una questione “milanista” in un problema
universale: elevando lo “spirito vincente” del Milan da querelle
contingente, e a pelo d'erba, a una disputa alta, ontologica e sempiterna.
Se la minoranza, anziché gridare subito allo “scandalo”, lasciasse
galleggiare nel silenzio le esternazioni - se cioè non le usasse, a sua
volta, per tener viva un'opposizione bisognosa d'essere rinfocolata come
la brace - non le verrebbe addebitato di non saper gareggiare con chi, al
contrario, usa la comunicazione “a freddo”, con una quantità di risorse
opinabili, in sé, ma riconducibili a un progetto perfettamente calcolato.
Se poi, come è accaduto, c'è chi ipotizza che il Premier parlerà anche al
Festival di San Remo, e denuncia a priori il carattere ancora una volta
“improprio” dell'uso televisivo, contribuisce gratuitamente all'impresa di
tener viva per giorni e giorni, su tutti i mass-media, l'immagine del
leader della C.d.L.
Il balzo dell'Auditel durante la performance della “Domenica Sportiva” non
era stata una bella lezione mediatica? “Vedrete che gli daranno la parola
anche a San Remo!”, si scriveva da ogni parte. E forse c'era chi
immaginava davvero che per alzare l'ascolto televisivo fosse lecito fare
di tutto - di più sarebbe parso impossibile - perché l’“evento”,
deprecabile finché si vuole, avesse a verificarsi. Persino nel “Processo
di Biscardi” è bastato lanciare la voce che il Premier volesse dimettersi
da presidente del Milan - per non alimentare altre polemiche! - perché, in
attesa della telefonata presidenziale, si parlasse per quasi un'ora
esclusivamente di un'ipotesi, interpellando con un sondaggio il Paese “sul
nulla”, dal momento che il Premier aveva pensato di ottenere molto di più,
stavolta, dal farsi desiderare. Un altro coniglio estratto dal cilindro!
Anzi, due: perché l'ipotesi del “Processo”, nel frattempo, aveva raggiunto
l'Inghilterra dove, secondo la tradizione, si erano messe subito in moto
le scommesse! C'è chi sostiene, per la verità, che il silenzio è spesso la
miglior risposta: senza scomodare Susan Sontag, con la sua “Estetica del
silenzio”, non ho difficoltà a crederlo; del resto, Paul Wátzlawicx, il
guru che studia la pragmatica della comunicazione umana, ha divulgato la
massima secondo cui “tacere significa sempre qualcosa”. E ciò vale anche
per i politici. Il silenzio, infatti, non è sempre, e in assoluto, la fine
della parola: spesso è la sua eco, ha un significato esclamativo e
ammonitore, con una facoltà rivelativa che può dire persino più del
replicare, specie considerando che le cosiddette gaffes del Presidente del
Consiglio sono, in realtà, l'innesco di un circuito a pronto e a lungo
rilascio, come per le medicine, nell'opinione della gente.
Tempo fa una battuta di Silvio Berlusconi sui giornali “che pochi leggono,
mentre tutti vedono la Tv”, forse per solidarietà con la carta stampata
venne presa alla stregua di una “sconsideratezza” da dover subito mettere
in risalto e respingere. È stato Umberto Eco a far notare che si poteva
far carico a Berlusconi di tante cose, compresa una certa arroganza, ma
non certo di aver detto una sciocchezza. La politica e la cultura di
sinistra indulgono spesso a queste semplificazioni e persino a queste
ingenuità. Mettendo insieme tutte le tirature dei giornali italiani,
infatti, si raggiunge una cifra incomparabilmente lontana da quella di
coloro che guardano soltanto la televisione. Calcolando, inoltre, che solo
una parte della stampa italiana critica il governo in carica, e che Rai
più Mediaset sono diventati la voce, più o meno univoca, del potere
dominante, la conclusione di Eco - secondo cui Berlusconi aveva ragione
nel ritenere che il problema è controllare la televisione, e i giornali
dicano quel che vogliono - aveva ed ha un suo, gravemente iniquo,
fondamento.
Il vantaggio di non lasciarsi condizionare dalla sindrome del
“berlusconismo” - con una reattività, non di rado, pavloviana - è quello
di permettere che le obiezioni dei cittadini sorgano da loro stessi, cioè
dalla società civile, con riflessioni, confronti, giudizi meno sospetti di
faziosità, più durevoli ed efficaci. La minoranza stenta a capire che dal
precipitarsi sull'avversario per contrastarlo e zittirlo con la militanza
di giornata ottiene, in genere, lo scopo di rendere più chiara e distinta,
perché più adescante e abrasiva, la voce della provocazione. Le repliche
degli oppositori - anziché esaurirsi nel clamore di denunce diversamente
motivate, frutto di una politica non univoca - dovrebbero trovare una loro
funzione positiva utilizzando concetti e parole che spieghino le proprie
idee, anziché sottolineare quelle altrui. E, nei casi politicamente
imprescindibili, affidandosi a “speakers” di particolare autorevolezza che
interpretino, di volta in volta, un atteggiamento comune. Ma questo è il
punto: per far ciò in modo efficace bisognerebbe opporre, di volta in
volta, un'idea semplice e sostanzialmente condivisa. Mettere il piede
nella vecchia tagliola della “sinistra, al solito, disunita”, offrendosi
all'accusa di non saper comunicare con un'idea certa e comune, fornisce il
destro per ritorcere un'accusa di inaffidabilità. Non si tratta di porre
mano a una chiarificazione fondata sulla premessa di un sincretismo
formale, opportunistico e tattico, ma su idee via via aperte, approfondite
e convenute, che abbiano la natura per durare, non per sopravvivere di
volta in volta.
È infine
inspiegabile che non ci si accorga come una “provocazione” porti allo
scoperto i problemi e i nervi degli oppositori, anziché quelli del
“provocatore”! Così, quando il Presidente del Consiglio esterna sulle
tasse è fuorviante, e può essere persino controproducente, rifugiarsi nei
sondaggi per sapere se la maggioranza gli crede ancora come nel 2001: ben
più importante sarebbe comunicare come e perché la minoranza si prenderà
la rivincita nel 2006! Non dicendo che Tremonti è inaffidabile, ma che
cosa s'intende opporre, e per quali ragioni, alla politica economica del
centro-destra. Piuttosto che “giocare di rimessa”, direbbe un allenatore
di calcio, andrebbe curata “la fonte del gioco”, illustrando la propria
progettualità piuttosto che dedicarsi al discredito di quella altrui. Non
va dimenticato che gli ultimi governi della sinistra seppero fare molte
cose importanti che però non seppero comunicare, indipendentemente dal non
avere avuto dalla loro, come oggi ha il Polo, la parte stragrande della
Tv. E qui, prima o poi, occorrerà domandarsi se non sia venuto il momento
di non aspettare che tutto venga dalla televisione. Anche perché siamo
ancora lontani dal 2006, e se ci si dovesse basare sull'esperienza forse
resterebbe più tempo, paradossalmente, per fare nuovi errori che per
emendarsi dei vecchi! Si tratta cioè di domandarsi se il tempo, fino alla
scadenza naturale della legislatura, non sia addirittura troppo lungo per
tenere unita la “lista Prodi”, cioè la premessa fondamentale di una così
complessa partita politica. Quella “lista” non dovrebbe corrispondere a
una specie di holding in cui ciascuno fa la guardia alla rispettiva
identità, ma un insieme di valori convenuti che si danno la stessa voce,
in cui l'unità sia, prima, una virtù collettiva, e poi una passione, o un
interesse, singoli. Quanto all'attenzione dei cittadini, essa va
sollecitata - più che alimentando il “berlusconismo”, con il suo
stillicidio quotidiano - sulla base di un'organica riflessione intorno a
come comunicare programmi e valori certi. Occorre contrastare l'equazione
politico-numerica di governo e maggioranza denunciando fatti concreti e
offrendo prospettive di soluzione ai problemi con cui devono ogni giorno
fare i conti soprattutto i giovani, le donne, i pensionati, chi ha un
lavoro precario, o non lo trova, o lo ha perduto; in definitiva, quanti si
sentono minacciati dall'impoverimento e da un domani incerto, ma anche
indifferenti alle formule, in verità assai logore, della politica
“politicante”, specie dovendo immaginare come andrà affrontata la crisi
che stiamo attraversando partendo dall'analisi di un mondo che cambia,
ormai, nello stesso momento in cui lo stiamo pensando. I punti di
riferimento non sono più le sistemazioni teoriche, ma le capacità di
essere nuovi ben al di là del “berlusconismo” e dell’“anti-berlusconismo”,
con una immaginazione capace di fissare essa stessa le prossime regole del
gioco.
La tragedia spagnola non ci ha anche detto che tutto, prima o poi, può
essere e diventare diverso? L'opposizione parlamentare, schiacciata nelle
due Camere, non è già maggioranza nel Paese? E non ci si dovrà impegnare a
dar voce, sin d'ora, a questa possibilità, comunicandola nel modo più
semplice e chiaro?
Umberto Eco
immagina, paradossalmente, di riempire le città di uomini-sandwich, che
dicano le cose come una volta, quando “scendere in campo” voleva ancora
dire “andare in piazza”, senza per questo strizzare l'occhio alla
rivoluzione. Il grande semiologo ci richiama a una cultura politica
affidata a modi di comunicare meno ideologici, più liberi e chiari,
rivolti a una società sempre più informatizzata, ma sempre meno informata:
nel presupposto che la complessità non debba essere un alibi per ridurre i
problemi, ma neppure la giustificazione per enfatizzarli. Alla cultura
della perentorietà andrebbe risposto con quella della dimostrazione, che
ha il respiro calmo di chi ha maturato, nelle sue diversità, un impegno
comune. Altrimenti, i prossimi due anni li trascorreremo con l'idea che il
fiume della storia sia sempre lì ad aspettarci, fermo e paziente; ogni
volta nell'illusione di poter ricominciare tuffandoci in un'acqua che non
è più la stessa, mai, per nessuno.