Il silenzio dei vescovi sull'Italia
24-03-04
Bartolomeo Sorge S.I.
Non c'è dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo
malessere per il silenzio dei vescovi sulla grave situazione del Paese. Di
quando in quando questo disagio è affiorato sulle pagine dei giornali,
finché ultimamente è esploso anche sulla stampa cattolica. Nel numero di
ottobre 2003 di Jesus, il mensile di cultura e attualità edito dai
Periodici San Paolo, è apparsa una lettera aperta dell'on. Franco Monaco,
già presidente dell'Azione Cattolica ambrosiana dal 1986 al 1992 e
attualmente vice-capogruppo della Margherita alla Camera dei Deputati:
"Cari vescovi, perché tanto silenzio sull'Italia?"(Jesus, 10 [2003] 6 s.).
Dando voce a uno stato d'animo diffuso, Franco Monaco evidenzia "cinque
punti di sofferenza" che rendono critica la situazione attuale del Paese,
ne rendono incerto il futuro e, proprio per questo, esigerebbero una
chiara parola dei vescovi. Questi "punti" sono: il disprezzo aperto della
legalità; il rischio di un conflitto senza sbocco tra istituzioni e parti
sociali; il venir meno del ruolo europeista e di promozione della pace che
l'Italia finora ha sempre svolto; l'egemonia del "pensiero unico"
neoliberista, cioè di una visione puramente mercantile della politica; la
concentrazione patologica dei mass media e dell'informazione in poche
mani. Perché su questi punti i vescovi tacciono? Nessuno chiede loro di
darne un giudizio politico, che spetta al laicato, ma una chiara
valutazione etica. Ai vescovi si chiede cioè che illuminino le coscienze
sia dei politici, sia dei fedeli affinché le riforme necessarie si
compiano in modo responsabile, nel rispetto dei valori etici e del bene
comune. Ciò è tanto più importante oggi, quando chi governa non cessa di
ripetere che vuole "cambiare il Paese". Nulla da dire sul come?
Per comprendere il senso del dibattito, occorre chiarirne gli elementi
principali: 1) il silenzio dei vescovi oggi; 2) i loro insegnamenti di
ieri; 3) il ruolo del laicato.
1. Il silenzio dei vescovi oggi
Tutti sappiamo come, alla vigilia delle consultazioni elettorali,
giungesse immancabile e puntuale il comunicato dei vescovi per ricordare
ai cattolici il grave dovere di andare a votare, di votare "bene" e di
votare "uniti". Gli interventi della CEI cominciarono a rarefarsi sotto i
pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. In seguito si fecero sempre
più radi e sfumati, a misura che cresceva di intensità e di visibilità il
servizio apostolico di Giovanni Paolo II. Finché si finì col lasciare
praticamente al Papa il compito di intervenire. Ciò apparve in modo
evidente al Convegno ecclesiale di Loreto (1985), quando fu Giovanni Paolo
II (e non i vescovi) a richiamare i cattolici italiani alla storia del
Paese e a esortarli a rimanere fedeli all'"impegno unitario" in politica (cfr
L'Osservatore Romano, 12 aprile 1985, n. 8). Dopo di allora, il Papa
intervenne più volte sull'impegno sociale dei cattolici italiani,
affrontando il tema perfino in una lettera scritta ad hoc ai vescovi ("Le
responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell'attuale momento
storico", in L'Osservatore Romano, 13 gennaio 1994).
Solamente nel 1995, in occasione del Convegno ecclesiale di Palermo,
furono dette - ancora una volta dal Papa - le parole che molti avrebbero
desiderato ascoltare dai vescovi qualche anno prima, quando l'unità dei
cattolici nella DC già era divenuta anacronistica sia sul piano storico (a
causa delle trasformazioni avvenute nel Paese), sia sul piano teologico
(dopo le acquisizioni teologiche e pastorali del Concilio Vaticano II).
"La Chiesa - disse Giovanni Paolo II a Palermo - non deve e non intende
coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come
del resto non esprime preferenze per l'una o per l'altra soluzione
istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell'autentica
democrazia" ("Allocuzione ai Convegnisti", in L'Osservatore Romano, 24
novembre 1995, n. 10). Con queste parole il Papa di per sé richiamò un
principio generale, universalmente valido; tuttavia quel monito
autorevole, rivolto direttamente alla Chiesa italiana dopo 50 anni di "collateralismo"
con la DC, assumeva evidentemente un significato particolare. Si trattava,
dunque, di applicare alla mutata situazione del Paese il principio
generale enunciato dal Papa. A Palermo però nessuno ci provò. Ci si limitò
a ripetere le sue parole, senza fare commenti.
Fu il card. Martini - qualche giorno dopo - a intervenire sul silenzio dei
vescovi, richiamandosi appunto al monito del Papa. Il 6 dicembre 1995, nel
discorso di sant'Ambrogio (C'è un tempo per tacere e un tempo per
parlare), disse testualmente: "la Chiesa non deve tacere perché [in
Italia] è in gioco la sopravvivenza dell'ethos politico. Non è la Chiesa
come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi
della democrazia". E il Cardinale indicò esplicitamente i principali
pericoli che la democrazia oggi corre nel nostro Paese, di fronte ai quali
- ribadì - i vescovi non possono tacere. La Chiesa - esemplificò il
Cardinale - non può rimanere neutrale o muta nei confronti di una cultura
politica che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli;
nei confronti di una logica decisionistica che cerca di estorcere il
consenso per via plebiscitaria; dinanzi al diffondersi di un liberismo
utilitaristico che fa del profitto, della efficienza e della competitività
un fine, a cui subordina le ragioni della solidarietà; in presenza di una
politica che si rifà a una logica conflittuale inaccettabile, secondo cui
chi vince piglia tutto e chi perde è solo un nemico da eliminare (cfr
MARTINI C. M., "Chiesa e comunità politica", in Aggiornamenti Sociali, 2
[1996] 170).
Quel discorso dell'Arcivescovo di Milano è un chiaro esempio di come,
senza compromettersi in scelte di parte, estranee alla loro missione
religiosa, i vescovi devono e possono intervenire a formare la coscienza
dei fedeli, esprimendo un giudizio morale sui "punti di sofferenza" della
democrazia nel nostro Paese. "Non è dunque questo un tempo di
indifferenza, di silenzio - concludeva il Cardinale - e neppure di
distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza. Non basta dire che non
si è né l'uno né l'altro, per essere a posto; non è lecito pensare di
poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno, l'uno o l'altro a
seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo in cui occorre
aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole
scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella
concezione dell'agire politico che esse implicano. Non è in gioco la
libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell'uomo; non è in gioco il
futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia" (ivi, 171).
Certo, giustamente i vescovi si preoccupano di mantenersi equidistanti da
ogni schieramento politico, non solo perché ciò è richiesto dalla natura
religiosa della loro missione, ma anche per evitare che il pluralismo dei
cattolici, legittimo in politica, produca lacerazioni e divisioni nella
vita della comunità ecclesiale. Tuttavia, la necessaria equidistanza dagli
schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle
implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il
silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i
modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente "democratici",
si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all'uno
o all'altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole
scelte. Ora, le cose non stanno così. La coerenza dell'agire cristiano non
riguarda soltanto il comportamento personale di fronte alle singole
scelte; il cristiano dovrà anche interrogarsi sulla coerenza oggettiva di
un progetto politico, preso nel suo insieme. Infatti, - disse Giovanni
Paolo II a Palermo - non si può "ritenere ogni idea o visione del mondo
compatibile con la fede", né si può dare "una facile adesione a forze
politiche o sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente
attenzione, ai principi della Dottrina sociale della Chiesa" ("Allocuzione
ai Convegnisti", cit., 10).
Dunque, oggi, il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della
situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi
dall'illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la
Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si
confrontano. È sempre valido l'ammonimento di san Gregorio Magno: come "un
discorso imprudente trascina nell'errore, così un silenzio inopportuno
lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i
pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano
dire liberamente ciò ch'è giusto" (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77,
30).
2. Gli insegnamenti di ieri
Mentre si avverte il peso del silenzio di oggi, è opportuno però
richiamare i numerosi interventi passati della CEI sulla situazione
italiana. Alcuni di essi, nonostante risalgano a vari anni fa, mantengono
una straordinaria attualità. Perciò, bisogna riconoscere che il silenzio
dei vescovi, in ogni caso, è relativo. Come non ricordare - per esempio -
il documento del Consiglio Permanente della CEI: La Chiesa italiana e le
prospettive del Paese (23 ottobre 1981), quello firmato dall'intero
episcopato italiano su Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e
Mezzogiorno (18 ottobre 1989) o il messaggio della Presidenza della CEI
sulla Presenza unita dei cristiani nella vita sociale e politica (30
giugno 1993)?
Soprattutto appare di straordinaria attualità la Nota pastorale della
Commissione ecclesiale "Giustizia e Pace": Educare alla legalità, del 4
ottobre 1991. Si direbbe scritta oggi. Dopo aver richiamato sommariamente
le ragioni della crisi della politica italiana (n. 7), la Nota denuncia i
pericoli che la democrazia corre nel nostro Paese, a motivo della perdita
di tensione etica. Il primo rischio - essa afferma - è che "le leggi, che
dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di
promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli
interessi comuni", a causa del prevalere di poteri e interessi forti,
finiscano col trasformarsi in "leggi "particolaristiche" (cioè in favore
di qualcuno)" (n. 8). Come non pensare all'abuso al quale oggi assistiamo,
da parte di chi ha il potere, di emanare leggi destinate chiaramente a
tutelare interessi particolari (o addirittura personali) del leader e dei
suoi sostenitori?
In secondo luogo, la Nota denuncia il pericolo che la democrazia in Italia
degeneri in "populismo", per cui "il parlamento corre il rischio di essere
ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo
esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee
legislative" (ivi). È esattamente quanto sta accadendo oggi. Come non
pensare alla presente delegittimazione dell'attività parlamentare (spesso
bloccata da disegni di legge blindati e sottratti al necessario
dibattito), e anche di altre fondamentali istituzioni dello Stato, in
seguito ai continui attacchi alla Magistratura, alla Corte costituzionale,
alla stessa Presidenza della Repubblica? E che dire della delegittimazione
di altre essenziali forme di rappresentanza democratica, come nel caso dei
sindacati?
Infine, la Nota punta il dito contro una classe politica che, "con il suo
frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, […] annulla reati e sanzioni
e favorisce nei cittadini l'opinione che si possa disobbedire alle leggi
dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi
giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli
altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della
legge" (n. 9). Come non pensare a quanto accade oggi, quando l'attuale
classe dirigente si serve del potere legislativo per sottrarsi alla
giustizia, emanando leggi ad hoc per garantirsi l'immunità (come la legge
che depenalizza il falso in bilancio e il "lodo Schifani" per sospendere i
processi alle più alte cariche dello Stato)? Quale senso della legalità e
dello Stato si potrà mai diffondere nel Paese, di fronte a simili
comportamenti della classe politica?
Perché non richiamare quegli insegnamenti, oggi che le storture allora
denunciate si sono ulteriormente accentuate, come già fece la Commissione
ecclesiale "Giustizia e Pace" in occasione di Tangentopoli, con la Nota:
Legalità, giustizia e moralità, del 20 dicembre 1993? Il silenzio sui
"punti di sofferenza" appare dunque inspiegabile ed è difficile
controbattere a quanti avanzano il sospetto che la profezia sia frenata
dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il
bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici (si
tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori
o dei buoni-famiglia).
3. Il ruolo del laicato
In ogni caso, anche nell'ipotesi che i vescovi escano dalla loro afasia,
ben poco servirebbero le loro parole senza la presenza in Italia di un
laicato consapevole delle proprie responsabilità. Gli stessi laici, mentre
giustamente chiedono ai Pastori di non tacere di fronte ai gravi
interrogativi suscitati dell'attuale situazione del Paese, si interroghino
però seriamente per vedere che cosa essi stessi possono e devono fare.
Infatti - spiega il Concilio Vaticano II - dai loro Pastori "i laici si
aspettino luce e forza spirituale. Non si aspettino, però, che i loro
Pastori siano sempre esperti a tal punto che, a ogni nuovo problema, anche
a quelli più gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che
proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi,
piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e
prestando fedele attenzione alla dottrina del Magistero" (Gaudium et spes,
n. 43).
In altre parole, l'orientamento dei Pastori è sì necessario, ma non potrà
mai supplire alla mancanza di maturità spirituale e di competenza
professionale dei laici impegnati in politica. Dopo oltre cent'anni di
Dottrina sociale della Chiesa e dopo oltre cinquant'anni di vita
democratica in Italia, non dovrebbe essere difficile distinguere un
programma politico dall'altro, coglierne la differente ispirazione ideale
e le implicazioni etiche, giudicarne la consonanza o meno con gli ideali
cristiani.
D'altra parte, i criteri fondamentali dell'agire cristiano in politica
dovrebbero essere noti a tutti. Non è certamente necessario che i vescovi
ribadiscano la legittimità del pluralismo politico dei cattolici, dopo che
Paolo VI - rifacendosi al Concilio Vaticano II - ha insegnato a chiare
lettere che "nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà
vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni
possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi"
(Lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 50). Parimenti, i fedeli
laici dovrebbero sapere bene che pluralismo non è sinonimo di
indifferentismo; che i diversi programmi politici non si equivalgono; che
l'ispirazione cristiana non funge solo da coscienza critica, respingendo
quanto vi può essere di negativo in una cultura politica o in un programma
di partito, ma funge soprattutto da stimolo propositivo e creativo,
spingendo cioè alla realizzazione di una società ispirata alla visione
cristiana della vita e della storia.
Applicando questi criteri alla situazione italiana di oggi, i fedeli laici
responsabili possono già da soli trarne le conclusioni operative.
Non c'è dubbio, invece, che sia necessario un chiarimento da parte dei
vescovi sulle implicazioni etiche e sociali delle filosofie politiche dei
due poli. Di fronte al dilagare della cultura neoliberista (che è
all'origine dei "punti di sofferenza" ricordati all'inizio), come esimersi
dallo spiegare le ragioni per cui essa è lontana dall'insegnamento sociale
della Chiesa? Perché tacere sulla responsabilità morale e storica di quei
cattolici che, pur soffrendo e sforzandosi di "migliorare" leggi che sono
in contrasto con la cultura cristiana, finiscono poi col votare il
programma neoliberista, contribuendo così a costruire un modello di
società, non solo difforme dalla Dottrina sociale della Chiesa, ma
incapace di risolvere i problemi di una Italia "a due velocità", perché fa
ricadere sui più deboli il peso maggiore di riforme destinate a premiare i
più forti? I dati più recenti dimostrano che non si tratta affatto di un
pregiudizio dei "comunisti", come si vuole far credere. Secondo l'ultimo
Rapporto Italia dell'Eurispes, le famiglie italiane che non ce la fanno ad
arrivare alla fine del mese, un anno fa erano il 38,7%, oggi sono il
51,2%.
Perché, infine, i vescovi non intervengono a sostenere tanti fedeli laici
impegnati (anche attraverso significative esperienze di formazione sociale
e politica) a trovare una forma nuova di presenza adeguata alle sfide
attuali, senza rimpianti per il passato, per edificare insieme con tutti i
"liberi e forti" una democrazia compiuta?
In conclusione, il dibattito sul silenzio dei vescovi, affrontato nei suoi
veri termini, non solo non è irrispettoso, ma anzi può risultare proficuo
e può suscitare quel soprassalto di coraggio evangelico di cui oggi ha
bisogno tutta la Chiesa italiana, Pastori e laici insieme.