Riceviamo e volentieri pubblichiamo l'editoriale di
Padre Sorge all'indomani delle Europee.
17/7/04
Una lettura politica del voto del 13
giugno
Bartolomeo Sorge S.I.
La coincidenza in Italia delle elezioni europee con quelle amministrative
parziali di metà legislatura non poteva non dare un peso politico alla
consultazione del 12-13 giugno scorso. Erano chiamati alle urne 50 milioni
di cittadini per eleggere 78 rappresentanti al Parlamento europeo, e più di
35 milioni dovevano pure rinnovare le amministrazioni di 63 Province e di
4.519 Comuni (di cui 30 capoluoghi di Provincia e 233 con più di 15.000
abitanti); infine, un milione e mezzo di cittadini era chiamato a eleggere
il Presidente e il Consiglio Regionale della Sardegna. Anche le sole cifre
facevano comprendere l'impatto inevitabile che le elezioni avrebbero avuto
sulla vita politica del Paese. Sulla base dei risultati, cercheremo di
rispondere ad alcune questioni di cui più si discute nel dopo-voto. Chi ha
vinto? Che pensare di un'Assemblea costituente dell'Ulivo? C'è spazio a
Strasburgo per un nuovo gruppo parlamentare "riformista"? Come hanno votato
i cattolici?
1. Alcuni dati significativi
a) L'affluenza alle urne in Italia è stata pari al 73,1% (nel
1999 era stata del 70,8%): una percentuale alta, rivelatrice di una tensione
politica quale si è avuta solo in pochi altri Stati dell'Unione. Infatti, la
media generale dei votanti per il Parlamento di Strasburgo è stata: 45,3%
nell'insieme dei 25 Stati membri, 49,0% nei vecchi 15 Paesi, e 26,4% nei 10
Paesi entrati da ultimi nell'Unione.
b) In Italia i risultati del voto europeo hanno messo in luce un sostanziale
equilibrio tra i due schieramenti in cui è diviso il nostro sistema
politico: 45,4% e 36 seggi al centro-destra (FI, AN, UDC, Lega Nord,
Socialisti Uniti); 45,5% e 37 seggi, cioè un decimale e un seggio in più, al
centro-sinistra (Uniti nell'Ulivo, Verdi, PDCI, Di Pietro-Occhetto, PRC).
Tuttavia, all'interno delle due coalizioni, si sono verificati importanti
mutamenti di equilibrio.
Nel centro-destra: FI crolla al 21,0% (aveva il 25,2% nelle europee 1999 e
il 29,5% nelle politiche 2001); AN, a spese di FI, rimane stabile all'11,5%
(aveva il 10,3% nel 1999, insieme con il "Patto Segni", e il 12,0% nelle
politiche 2001); la Lega Nord raggiunge il 5,0% (aveva il 4,5% nel 1999, e
il 3,9% nel 2001); anche l'UDC cresce a spese di FI e ottiene il 5,9% (aveva
il 4,8% nel 1999 e il 5,6% [CCD+CDU+Democrazia Europea] nel 2001).
Nel centro-sinistra: la lista Uniti nell'Ulivo si ferma al 31,1%, mentre i
tre partiti che la compongono (DS, Margherita e SDI) - il cosiddetto
"triciclo" -, quando si erano presentati da soli, ciascuno con la propria
lista, avevano raggiunto insieme il 32,2% nel 1999 e il 33,3% nel 2001. Da
non sottovalutare sia il consolidamento dell'area radicale del
centro-sinistra (Verdi, PDCI, Rifondazione Comunista) che, aggiungendo la
lista Di Pietro-Occhetto, ottiene il 13,1% (aveva l'8,1% nel 1999 e il 12,8%
nel 2001), sia l'affermazione di Rifondazione Comunista che ottiene il 6,1%
(aveva il 4,3% nel 1999 e il 5,0% nel 2001).
c) Il primo turno delle elezioni amministrative italiane vede il netto
successo del centro-sinistra: vince in Sardegna (strappando la Regione al
centro-destra); conquista 38 delle 63 Province (3 vanno al centro-destra);
ottiene la maggioranza in 18 capoluoghi di Provincia su 30 (6 vanno al
centro-destra, che perde Bologna, Padova e Bari). Il ballottaggio in 22
Province e 6 capoluoghi di Provincia, comunque vada, non potrà ribaltare il
verdetto del 12-13 giugno.
2. Chi ha vinto?
Il referendum del 1993 ha introdotto in Italia il sistema
maggioritario uninominale. Il bipolarismo che ne è derivato è ben lungi dal
realizzare quella democrazia compiuta (o dell'alternanza) a cui mirava la
riforma elettorale. Infatti, il maggioritario uninominale è gestito con
mentalità proporzionale, e i due poli sono in realtà due coalizioni di
partiti culturalmente disomogenei che stanno insieme soprattutto per vincere
le elezioni. Così il sistema non funziona.
Lo si è visto chiaramente il 12-13 giugno, quando contemporaneamente si sono
svolte le elezioni europee con il sistema proporzionale e le elezioni
amministrative con il maggioritario uninominale. Da qui nasce lo scarto tra
il risultato del voto europeo a livello nazionale e quello del voto
amministrativo a livello locale. A livello nazionale, con Berlusconi
capolista in tutte le circoscrizioni, FI ha ottenuto alle europee un
risultato di 3 punti più alto rispetto a quello ottenuto nelle
amministrative; specularmente, AN e UDC si sono avvantaggiate più a livello
locale che a livello nazionale. Basti per tutti il caso emblematico delle
amministrative in Sicilia, dove il partito di Berlusconi (che a livello
nazionale cala dell'8,5%) perde più di 15 punti (dal 36,7 % al 21,5 %),
mentre AN (stabile a livello nazionale) sale in Sicilia di circa 4 punti
(dal 10,7% al 14,5%), e l'UDC (che a livello nazionale raggiunge il 5,9%)
tocca nell'isola il 14,0% senza più il sostegno di Democrazia Europea (D'Antoni).
La lezione politica è chiara: la personalizzazione del leader, se rende più
omogenei i risultati a livello nazionale, non riesce però a evitare sbalzi
anche grandi a livello locale. Questo fenomeno è confermato anche dai
risultati del centro-sinistra: se nel nome di Prodi raggiunge la parità con
il centro-destra a livello nazionale (anzi vince, seppure di poco), la
vittoria invece diviene molto netta (con sbalzi, però, di entità diversa)
nelle amministrative a livello locale, dove l'influsso del leader si fa
sentire in forma ridotta e meno diretta.
Perciò, per rispondere alla domanda: "chi ha vinto?", più che contare i
voti, è importante rilevare quale schieramento è più radicato nel
territorio. Ora, che il centro-sinistra sia maggiormente radicato nella
società italiana appare chiaro, se si confrontano i risultati del 12-13
giugno con quelli delle consultazioni elettorali immediatamente precedenti:
il centro-sinistra cresce in misura lenta ma costante, passando dal 43,2%
nel 1999 al 44,8% nel 2001, al 45,5% nel 2004; mentre il centro-destra
oscilla dal 46,3% nel 1999 al 52,2% nel 2001, al 45,4% nel 2004, seguendo le
oscillazioni del leader al quale si appoggia molto più che alle realtà vive
del territorio. A tal punto che la sostanziale tenuta del centro-destra a
livello nazionale, grazie alla visibilità mediatica di Berlusconi, non ha
impedito poi che FI - il partito stesso del leader - crollasse a livello
locale, dove la sua organizzazione è carente e il partito non è radicato in
modo significativo nella società civile.
Ecco perché il 31,1% ottenuto dalla lista Uniti nell'Ulivo (quasi un terzo
dell'elettorato) si può considerare un risultato notevole, nonostante sia
mancato l'effetto di "valore aggiunto" che molti si attendevano. Un italiano
su tre ha creduto al progetto che essa esprime. È senz'altro un buon inizio.
Il fatto poi che il centro-sinistra, pur vincendo, sia rimasto al di sotto
delle attese può servire a ricordare che non è ancora tempo di raccolta, ma
di semina. Pertanto, il vero lavoro del dopo-voto è di continuare a credere
nel progetto vincente e di proseguire con coraggio il cammino intrapreso.
3. Un'Assemblea costituente dell'Ulivo?
All'indomani delle elezioni, Prodi ha reso pubblica una "lettera
aperta" in cui insiste proprio su questo aspetto. Si tratta - egli scrive -
di dare continuità all'esperienza positiva della "lista unitaria"; e
propone, da un lato, di "convocare entro il prossimo autunno l'Assemblea
costituente dell'Ulivo sotto la guida di un comitato che inizi subito il
proprio lavoro", dall'altro, di aprire in Europa "un cantiere per la
costruzione di una grande casa dei riformatori europeisti" (la Repubblica,
15 giugno 2004).
Ci siano consentite in proposito alcune riflessioni. Certamente è legittimo
che i partiti della lista Uniti nell'Ulivo stringano un patto federativo tra
loro e con chiunque ci sta. Però, sarebbe sbagliato intendere l'Assemblea
costituente come un confronto tra il "triciclo" e le altre forze del
centro-sinistra che ne sono rimaste fuori. Bisogna avere il coraggio di
andare oltre l'Ulivo, il cui simbolo e il cui nome risultano inadeguati
all'operazione che si vuol compiere, perché si riferiscono a una sola parte
del centro-sinistra, per quanto cospicua. Occorre ormai puntare alla
realizzazione di una "area riformista" più ampia dell'Ulivo (si chiami essa
Polo delle solidarietà, Area popolare democratica, o con altro nome), che
abbracci tutto il centro-sinistra e sia aperta a tutti i riformatori, senza
escludere nessuno a priori: partiti, associazioni, movimenti, centri sociali
e culturali, categorie professionali e sindacali.
Si tratta di ampliare la proposta unitaria di Prodi, nella quale hanno
creduto più di 10 milioni di cittadini, e di trasformarla in un progetto
riformatore di società, in grado di coniugare efficienza e solidarietà,
fondato su valori e ideali condivisi (quelli della nostra Costituzione e del
Trattato costituzionale europeo), puntando sul medio e lungo periodo. Che
questa sia la carta vincente è confermato anche dal successo di Renato Soru,
che ha ripetuto in Sardegna il successo dello scorso anno di Riccardo Illy
in Friuli-Venezia Giulia. Più che una strategia è un progetto. Il programma
deve venire prima anche di qualsiasi logica federativa.
Dunque, è inadeguato parlare di Assemblea costituente dell'Ulivo.
Contemporaneamente alla federazione tra i partiti della "lista unitaria",
occorre proporre anche un accordo programmatico con tutte le forze che si
riconoscono nel centro-sinistra. E non si dovrà partire dall'alto, come
finora si è sempre fatto. La vittoria insoddisfacente del "triciclo" va
addebitata anche al fatto che esso è nato soprattutto per decisione dei
vertici di partito, senza un sufficiente coinvolgimento della società
civile, come questa invece chiedeva. Pertanto, l'Assemblea costituente
dell'area riformista (che - ripetiamo - va al di là del patto federativo del
"triciclo") dovrà essere convocata da tutti i partiti del centro-sinistra,
insieme ai movimenti, alle associazioni, ai centri sociali e culturali,
movendo dalle cento città e dalle Regioni. Se poi qualcuno si autoesclude
dal progetto comune, perché non lo condivide, ciò sarà dovuto solo a una
scelta propria e non a una preclusione aprioristica.
È questa una tappa obbligata per proseguire il cammino, aperto dal successo
della "lista unitaria".
4. Un gruppo parlamentare "riformista" a Strasburgo?
Per quanto riguarda - in secondo luogo - l'apertura di un
cantiere per la costruzione della casa dei riformisti in Europa, Prodi non
fa che riproporre il suo "sogno" (cfr SORGE B., "Un "manifesto" per
l'Europa", in Aggiornamenti Sociali, 1 [2004] 5-10). Egli muove dalla
convinzione che l'Italia ha un contributo specifico da recare in Europa:
perché non ripetere a livello europeo l'esperienza dell'Ulivo e della "lista
unitaria"? Infatti, la creazione a Strasburgo di un gruppo parlamentare
riformista darebbe uno slancio nuovo alla costruzione dell'Unione politica,
evitando che l'Europa allargata rimanga una mera aggregazione di Stati
nazionali, interessati a stare insieme per motivi soprattutto economici,
commerciali e finanziari.
Questa nuova iniziativa è ancor più necessaria dopo l'esito deludente delle
ultime elezioni europee. Infatti, preoccupa la forte affermazione degli "euroscettici",
che contestano il "centralismo" dell'Unione, la Costituzione e l'euro: in
Gran Bretagna l'UKIP (United Kingdom Independence Party), dichiaratamente
anti-europeista, ha ottenuto il 16,1%; in Francia, la lista antieuropea di
Philippe de Villiers ha raggiunto il 7%; in Austria, l'antieuropeo
Hans-Peter Martin ha ottenuto il 14,0%; la stessa percentuale è stata
raggiunta in Svezia dalla "euroscettica" Junilstan; in Polonia, 24 dei 54
deputati eletti a Strasburgo sono "euroscettici", a cui si aggiungono quelli
della Repubblica Ceca, dell'Ungheria e della Slovacchia.
In questa situazione, la cosa più urgente da fare è l'impegno di costruire
l'Europa politica. Per questo va salutata con soddisfazione l'approvazione
del Trattato costituzionale, avvenuta il 18 giugno scorso. Era certamente il
passo più importante. Dopo questo avvenimento, il "sogno" di Prodi diventa
più reale: perché non creare in seno al Parlamento di Strasburgo un nuovo
gruppo parlamentare, un'"area" aperta a tutti i riformatori sinceramente
europei, al fine non solo di contrastare energicamente l'euroscetticismo, ma
di dare all'Unione politica allargata quell'anima solidale che i gruppi
parlamentari tradizionali non sono più in grado di garantire? Non ha senso
che i neoparlamentari europei del centro-sinistra, dopo essere stati eletti
uniti in Italia, si dividano in Europa tra gruppi parlamentari diversi: il
Partito Popolare Europeo, divenuto ormai un partito conservatore, il Partito
Socialista Europeo, che è sempre più un mero contenitore privo di spinta
ideale, e altri gruppi minori.
5. Come hanno votato i cattolici?
Infine non si può evitare un'ultima questione: come hanno votato
i cattolici? Ce lo dobbiamo chiedere, perché i risultati della consultazione
elettorale contengono segnali nuovi sul comportamento dell'elettorato
cattolico italiano.
La Margherita si è attestata intorno al 10,0%, subendo una forte flessione
(nelle elezioni europee del 1999, PPI, lista Dini, Democratici e UDEUR
raggiungevano insieme il 14,6%; nelle elezioni politiche del 2001, quando i
quattro partiti si presentarono uniti nel nuovo soggetto politico, avevano
mantenuto le posizioni con il 14,5%). È verosimile che la flessione del
12-13 giugno sia dovuta anche al fatto, da un lato, che l'AP-UDEUR ha corso
da sola e, dall'altro, che molti elettori hanno votato il candidato
Presidente alle provinciali (o Sindaco alle comunali) senza ripetere il
segno sul simbolo della Margherita. Comunque sia, il suo forte calo ha
prodotto due effetti: il primo è la perdita di visibilità dei riformisti
cattolici all'interno del centro-sinistra, dove l'affermazione dei DS
intorno al 20% (e della "sinistra radicale") ha spostato a sinistra il
baricentro, rendendo più ardua l'adesione delle fasce moderate all'area
riformista; l'altro effetto è che il "successo" dell'UDC (seconda forza
d'ispirazione cristiana) è sembrato più grande di quanto è, se si tiene
presente che l'UDC ottiene il 5,9%, mentre nelle europee del 1999 aveva il
4,8% e nelle politiche del 2001 il 5,6% (CDU+CCD+Democrazia Europea).
Ciononostante, è innegabile che un certo numero di neodemocristiani siano
passati da FI all'UDC, delusi da Berlusconi in cui speravano di trovare
l'erede della vecchia DC; né si può escludere che si siano aggiunti altri
cattolici provenienti da lidi diversi. L'UDC trae vantaggio dal fatto di
proporsi con una chiara identità cattolica e col mostrarsi non troppo legata
al carro di Berlusconi (e della Lega Nord), anche se poi - in nome della
"compattezza della coalizione" - finisce col votare scelte che contrastano
con la coscienza cristiana (come la legge sulla immigrazione o l'appoggio
alla "guerra preventiva" di Bush), assumendosi una grave responsabilità
morale. In fondo, l'UDC vorrebbe mantenersi super partes per poter scegliere
caso per caso come collocarsi nella battaglia politica, divenendo l'ago
della bilancia. Non era proprio questa l'arte della vecchia DC? Il
doroteismo è duro a morire.
Una parola merita, infine, l'esperienza di una terza forza d'ispirazione
cristiana: l'AP-UDEUR, nata dall'apparentamento tra Mino Martinazzoli e
Clemente Mastella. È l'ennesimo tentativo di risuscitare il centro,
destinato a fallire come già i precedenti. Infatti, l'adesione di
Martinazzoli non ha prodotto alcun effetto benefico: l'AP-UDEUR ha ottenuto
appena l'1,3%, dopo che Mastella da solo nelle elezioni europee del 1999
aveva ottenuto l'1,6%.
In conclusione, volendo dare un giudizio d'insieme sul voto dei cattolici
nelle elezioni del 12-13 giugno, si può dire che si stanno ridisegnando
sempre più chiaramente le due anime tradizionali del movimento cattolico: da
un lato, i "cattolici conservatori", eredi dei vecchi "clerico-moderati",
che sostengono il programma liberista del centro-destra, dall'altro i
"cattolici democratici", eredi dei vecchi "popolari", che si riconoscono nel
programma sociale del centro-sinistra. Questi ultimi, a differenza dei
primi, ritengono che il cristiano debba schierarsi in politica con gli
uomini di buona volontà, condividendone valori e programmi, in coerenza con
l'ispirazione cristiana, nel rispetto della laicità e del pluralismo. Certo,
è più difficile agire da cristiani all'interno di una coalizione e di un
programma formati da forze laiche diverse; si comprende dunque la tendenza
di chi preferisce separarsi dagli "altri" in nome della propria "identità
cattolica". Eppure oggi è richiesto ai cattolici il coraggio di realizzare
una forma nuova di presenza politica, più rispondente alle mutate condizioni
del mondo, senza rinunciare alla visibilità degli ideali cristiani. È
auspicabile che la Margherita divenga sempre più la palestra dove i
cattolici democratici possano esprimere la straordinaria forza progettuale
del pensiero sociale cristiano all'interno di una casa riformista comune, di
un'ampia area popolare democratica. Ne hanno bisogno oggi l'Italia e
l'Europa.