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  Ultimo aggiornamento: 02-02-05

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Cattolici e democrazia: la 44a Settimana Sociale

 

Dal 7 al 10 ottobre si terrà a Bologna la 44a Settimana Sociale dei cattolici italiani su «La Democrazia: nuovi scenari e nuovi poteri». Dati il tema e il momento storico in cui se ne parla, sarà impossibile fare un discorso astratto, senza confrontarsi con la situazione concreta del Paese. Lo stesso Documento Preparatorio (DP), predisposto per guidare i lavori, pur affrontando il tema prevalentemente in termini teorici, non è privo di riferimenti alla situazione italiana.
Quella della democrazia, infatti, è una crisi complessa e i cattolici non la possono ignorare: «L’impegno dei cristiani su questi temi rientra nella loro vocazione a edificare la città terrena, a rendere ragione della fecondità della fede nell’esercizio dei ruoli sociali e istituzionali nei vari ambienti in cui essi sono chiamati a vivere» (DP, n. 2). A Bologna, quindi: 1) si dovranno individuare anzitutto gli aspetti più pericolosi della crisi; 2) cercare quindi proposte di soluzione; 3) esprimere infine un giudizio sulle riforme in corso o in progetto.

1. Una crisi pericolosa
Nessuno dubita che la democrazia sia il sistema migliore di governo: «In discussione non è dunque il valore in sé della democrazia, ormai decisamente acquisito, ma le modalità del suo esercizio di fronte a una serie di nuove aspettative e di rischi che rendono urgente adoperarsi responsabilmente e concretamente per la sua ripresa e il suo consolidamento» (DP, n. 3). Le trasformazioni profonde del nostro tempo, aprendo nuovi scenari, impongono di ridefinire i delicati equilibri su cui si regge il sistema democratico: il rapporto tra libertà personale ed esigenze del bene comune; tra governabilità e autonomia dei corpi intermedi; tra rispetto della legalità e solidarietà.
La crisi presente della democrazia è strutturale, non meramente congiunturale; alimenta perciò la conflittualità sociale e favorisce la nascita di «poteri forti». In pratica, se i detentori del potere economico o di quello massmediatico o di quello scientifico-tecnologico dicono che una certa legge non si può e non si deve fare, nessuna forza politica riuscirà mai a condurla in porto. Nasce qui la domanda di fondo: se la convivenza civile non poggia su valori comuni condivisi, su che cos’altro si potrà far leva per costruire una democrazia partecipativa? Ecco perché l’aspetto più grave è che si sia dissolto «quell’ethos collettivo che è l’humus indispensabile per la definizione delle regole che devono governare le relazioni sociali […]. L’assenza di un forte referente etico nella società fa correre alla democrazia il pericolo di asfissia spirituale, la fa diventare […] una democrazia “senza anima”, destinata in quanto tale a regredire» (DP, n. 9).
È esattamente quanto accade nel nostro Paese, dove la democrazia è sempre più «formale», e sempre meno «sostanziale»: non si riesce cioè a coniugare libertà ed equità sociale, né a garantire a tutti in misura uguale il rispetto dei diritti fondamentali. Questa crisi era stata già annunciata, anni fa, dal documento della Commissione Giustizia e Pace della CEI: Educare alla legalità (4 ottobre 1991).
La prima conseguenza — vi si leggeva — è il prevalere di interessi particolari o corporativi; e ciò porta «ad aumentare il numero delle leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno), […] vanificando così le istanze di chi non ha voce né forza» (n. 8). Quello che il documento della CEI non poteva immaginare è che un giorno quasi tutti i poteri forti (legislativo, esecutivo e gran parte di quello economico-finanziario e dell’informazione) si sarebbero concentrati nelle mani di una sola persona, con la conseguenza che le leggi «particolaristiche» avrebbero avuto per oggetto gli interessi personali del leader e dei suoi sostenitori.
Un’altra conseguenza devastante, annunciata dal documento della CEI, è oggi sotto gli occhi di tutti: il populismo. Il DP di Bologna affronta questo problema, ma si limita ad ammettere — con la «diplomazia» tipica dei testi ufficiali — che «l’odierno stato della democrazia nel nostro Paese (ma anche in altri Paesi occidentali) presenta aspetti di somiglianza con tale situazione». Afferma invece con chiarezza che il populismo, mentre «da una parte concorre a delegittimare il sistema rappresentativo, favorisce dall’altra la tendenza a passare sopra alle regole e alle procedure della politica e ad assumere comportamenti ispirati al qualunquismo ideologico e al pragmatismo. L’esito è l’attestarsi su posizioni di “democrazia maggioritaria”, rinunciando a fare il passo verso la “democrazia inclusiva” — altra dimensione costitutiva di una democrazia compiuta —, che si rivolge indistintamente a tutti i cittadini, non esclusi coloro che compongono la minoranza» (n. 12). Ora, se questo è il populismo, in Italia è realtà già in atto: non ci sono soltanto «aspetti di somiglianza».
È auspicabile quindi che almeno a Bologna le cose si chiamino con il loro nome. Perché temere di dire che il Parlamento italiano è ridotto, sempre più spesso, a mero strumento di ratifica di decisioni e di accordi presi al di fuori delle sue aule (magari in luoghi di villeggiatura come Lorenzago)? Perché tacere il fatto che i rappresentanti del popolo sono obbligati sempre più frequentemente a votare senza discutere (legati dal voto di fiducia) non solo leggi che comportano gravi oneri per l’intera popolazione, ma addirittura riforme che modificano sostanzialmente l’architettura dello Stato? Perché non dire apertamente che la «applicazione, in senso puramente formale, del principio di maggioranza, con il pericolo della sistematica penalizzazione delle minoranze» (DP, n. 5), non è solo un rischio teorico in Italia, dove le forze minoritarie di opposizione e le diverse forme di rappresentanza democratica della società (a cominciare dai sindacati) sono sistematicamente delegittimate? Perché parlare di possibile progressiva deriva nell’applicazione del «principio di maggioranza», quando ci troviamo di fronte a una vera «dittatura della maggioranza»? Del resto, se la crisi non fosse così grave, non si giustificherebbe l’invito pressante del DP a «ripensare il modello» (cfr n. 13): cioè, a restituire un’anima alla democrazia; a riequilibrare i rapporti tra potere politico e poteri forti; a ridefinire i canali della partecipazione politica.

2. Restituire un’anima alla democrazia
Per superare questa crisi pericolosa, occorre fare unità su valori comuni condivisi. Restituire un’anima alla democrazia è difficile, ma non impossibile. Infatti, i valori su cui convergere non li dobbiamo inventare. Si trovano già nei primi articoli della nostra Carta costituzionale e nell’art. I-2 del Trattato costituzionale europeo: libertà, giustizia, uguaglianza, solidarietà, sussidiarietà, legalità.
Il vero problema dell’unità sui valori nasce quando si passa dall’astratta enunciazione alla loro applicazione alle situazioni concrete; infatti, «emergono spesso posizioni divergenti (talora persino contrapposte) sia a riguardo del significato che si attribuisce a ciascuno di essi, sia (soprattutto) della collocazione che viene assegnata a essi nell’ambito del sistema gerarchizzato cui si fa riferimento» (DP, n. 15). Degli stessi valori si danno cioè interpretazioni diverse, alla luce delle due culture politiche che oggi si contrappongono in Italia: il neoliberismo e il solidarismo (o riformismo solidale).
Il DP sembra non dare troppo peso alle differenze tra queste due culture. Ritiene infatti che — nonostante il carattere che si vorrebbe prevalentemente formale della concezione liberale di democrazia (intesa cioè più come un insieme di regole che di contenuti e, più specificamente, di valori) —, neppure la cultura neoliberista può «misconoscere l’esigenza dell’appello a un quadro di valori, quali l’irriducibilità della persona allo Stato, la non totale identificazione tra Stato e società civile, il pluralismo, la rappresentanza, la partecipazione al potere e la sua limitazione; valori che fanno parte della definizione della sua stessa formalità» (n. 17).
È auspicabile che a Bologna si prenda atto in forma più realistica delle divergenze che ci sono tra la concezione individualistica di libertà (intesa come possibilità di scegliere e di fare ciò che si vuole, con l’unico limite del rispetto della libertà altrui), propria della cultura liberale, e la concezione di libertà, propria della cultura solidale e della dottrina sociale della Chiesa, per la quale invece la libertà personale ha sempre una responsabilità sociale. Perché non dire chiaramente che la concezione liberale della legalità (come mera osservanza formale delle regole) si differenzia profondamente dalla concezione solidale di ispirazione cristiana, secondo cui la necessaria osservanza delle regole va sempre integrata da una solidarietà responsabile? Il bene comune non è la somma del bene di individui, che vivono uno accanto all’altro pensando ciascuno solo a se stesso. La società umana non è un agglomerato di atomi incomunicabili, ma una comunità di persone legate tra loro da strette relazioni familiari, sociali, economiche, culturali e spirituali. Il «bene comune», dunque, trascende quello dei singoli individui ed è insieme di ciascuno e di tutti (cfr GIOVANNI XXIII, Mater et Magistra, n. 65 [ed. Queriniana]).
Di fronte a queste differenze obiettive, è chiaro che per convergere su una piattaforma comune di valori, non basta condividerli in astratto.Valori quali la difesa della vita, la tutela della famiglia, la giustizia sociale, la protezione dell’ambiente, la sicurezza contro ogni forma di violenza e di disagio sociale sono mete comuni a cui tendere, sebbene in forma graduale, attraverso il dialogo, avvicinandosi il più possibile all’ideale, nel rispetto della laicità della politica e delle regole democratiche.
Pertanto, per restituire un’anima al nostro sistema democratico, occorre cercare insieme piste concrete che consentano alle diverse posizioni di trovare gradualmente punti comuni di convergenza. Chiudersi nel rifiuto di collaborare e di dialogare, per non mettere in pericolo la propria identità, porterebbe solo a irrigidimenti sterili e controproducenti. La ricostruzione di un ethos condiviso passa dunque attraverso «la creazione, all’interno della società, di spazi di comunicazione che favoriscano il confronto tra soggettività individuali e sociali diverse e consentano, mediante un franco e onesto dialogo, di rintracciare, al di là della diversità dei sistemi etici, un terreno di convergenza attorno a una comune piattaforma di valori» (DP, n. 19). Ecco perché non c’è posto per un nuovo «blocco cattolico».

3. Potere politico e «poteri forti»
Se per dare un’anima alla democrazia è necessario ripartire dai valori, tuttavia — trattandosi di crisi strutturale — occorre anche ristabilire un rapporto corretto tra potere politico e altri «poteri forti», primi fra tutti quello economico-finanziario, quello della informazione e quello scientifico-tecnologico.
Sul rapporto tra politica e potere economico-finanziario resta valido quanto rileva il DP: «Il liberismo, lasciato a se stesso, lungi dal garantire la libertà del mercato — libertà che coincide con la possibilità di accesso al mercato di un numero sempre più ampio di soggetti — genera forme di concentrazione e di monopolio che riducono al minimo la concorrenzialità e rivestono un carattere autoritario. La divaricazione tra democrazia ed economia di mercato è diventata, in questi ultimi anni, ancor più evidente rispetto al passato, soprattutto se si considerano le crescenti disuguaglianze economico-sociali e la maggiore consapevolezza dell’importanza che ha oggi la promozione dell’uguaglianza dei punti di partenza (o delle condizioni di base) come uno dei fini principali della democrazia» (n. 23).
Il limite della economia di mercato sta nel fatto che essa, pur essendo in grado di produrre ricchezza, non ha però in sé gli strumenti per ripartirla in modo equo. Da qui la necessità di regole e di controlli da parte della società e del potere politico al fine di coniugare efficienza e solidarietà, pubblico e privato. Ciò è tanto più necessario nel contesto dell’attuale processo di globalizzazione. Se il potere economico prevale sul potere politico, a farne le spese sono anzitutto le classi e i ceti sociali più deboli. Infatti, il primo a entrare in crisi è il mondo del lavoro, come accade in Italia, dove «la necessità di inserire elementi di flessibilità per arginare il calo di competitività del nostro Paese ha provocato lo sviluppo di contratti a termine e di figure professionali scarsamente tutelate e soggette a un forte grado di instabilità lavorativa» (DP, n. 26). A Bologna, dunque, bisogna spiegare bene perché è illusorio parlare di crescita della occupazione, quando in realtà aumentano soprattutto i posti di lavoro precario, e non in virtù di un programma organico di sviluppo, ma a motivo della convenienza che le imprese hanno di assumere manodopera a tempo determinato per trarne vantaggi momentanei. Occorre pure spiegare che non serve a nulla ridurre le tasse, se per farlo si tagliano le spese sociali e i trasferimenti agli Enti locali. Un problema analogo di chiarezza è necessario per il sistema finanziario: «Il fatto che il potere aziendale, almeno nelle grandi imprese, sia esercitato da pochi e che il potere decisionale sia sempre più concentrato nelle mani degli azionisti di maggioranza provoca un’evidente riduzione della presenza dei valori democratici legati alla difesa degli azionisti di minoranza e alla trasparenza delle comunicazioni finanziarie» (DP, n. 25). I recenti scandali (Cirio, Parmalat…) insegnano.
Un ulteriore problema è il rapporto tra il potere politico e quello dei mass media: «Lo sviluppo della vita democratica è infatti spesso gravemente compromesso dall’interferenza dei media, che possiedono un enorme potere di manipolazione, in vista sia della produzione del consenso, sia della determinazione degli obiettivi da perseguire nell’azione politica» (DP, n. 27). Questa difficoltà obiettiva è più grave in Italia, dove — in regime di duopolio televisivo — sia il polo pubblico, sia quello privato sono nelle stesse mani di chi detiene il potere politico. Si spiega allora come sia potuta passare una «legge Gasparri», che — pur contenendo alcune cose buone — finisce però col favorire il polo privato, soprattutto per quanto riguarda la raccolta e la distribuzione delle risorse pubblicitarie, e riporta la RAI sotto il controllo del Governo, con un pericoloso salto all’indietro in tema di libertà e di pluralismo dell’informazione.
Infine, il potere politico dovrà fare i conti con un altro «potere forte»: «una sorta di neoscientismo che, oltre a vantare la pretesa di una radicale neutralità della scienza e della tecnica — è questa la ragione della esclusione di qualsiasi interferenza etica —, si propone quale criterio interpretativo dell’intera realtà, riducendo tutto alle logiche della funzionalità e dell’utile ed espropriando l’uomo della propria identità interiore» (DP, n. 30). Si pone, cioè, il problema del controllo sociale sulle scelte scientifiche e tecniche, non per interferire nell’autonomia della ricerca, ma per valutarne gli effetti sulla convivenza civile.
Come si vede, in tutti questi conflitti, ritorna sempre quello di fondo tra cultura politica neoliberista e cultura politica solidale. Riuscirà la Settimana Sociale di Bologna a esprimere un giudizio obiettivo su quale delle due culture è la più idonea a ristabilire l’equilibrio tra potere politico e «poteri forti»?

4. La riforma dello Stato e delle istituzioni
La soluzione della crisi strutturale della democrazia passa, infine, attraverso le riforme istituzionali. Su questo punto appare ancora più chiara la necessità di aprirsi ai nuovi scenari, europei e mondiali.
Il DP fa il punto sulla «questione istituzionale» in Italia: «Ciò che è tuttavia finora mancato è un progetto di riforma coerente e adeguato che, oltre a garantire un maggior peso ai cittadini, assicuri una maggiore stabilità di governo e favorisca una più marcata autonomia e una maggiore articolazione dei rapporti tra centro e periferia. Sempre più urgente appare pertanto la soluzione di due nodi critici endemici tuttora al centro del dibattito, quello della “forma di governo” e quello della “forma di Stato”; nodi resi entrambi più complessi dal consolidarsi di un sistema politico a conduzione bipolare, con una crescente accentuazione del ruolo del leader, e dall’esplosione dei rapporti tra centro e periferia, dovuta alla difficoltà a seguito delle riforme già intervenute (e non completate nei rapporti tra Stato, Regioni ed enti territoriali) di trovare nel Parlamento e nelle relazioni istituzionali tra i diversi soggetti un adeguato elemento di unificazione» (n. 34).
Ovviamente non spetta alla Settimana Sociale sostituirsi ai costituzionalisti e ai politici. Tuttavia i cattolici italiani verrebbero meno a un loro grave dovere morale se a Bologna tacessero sulla devolution leghista, che mette seriamente in pericolo l’unità nazionale e la solidarietà sociale. L’appello va soprattutto ai cattolici della Casa delle Libertà: vi sono scelte sbagliate talmente gravi, sulle quali non è possibile transigere per salvare la coalizione o la legislatura. Bisogna avere l’onestà e il coraggio di rimetterle al giudizio dell’elettorato.
In conclusione, al di là dell’analisi della crisi e dei suggerimenti per superarla, il frutto più importante della 44a Settimana Sociale è che essa sia di «stimolo a un maggior impegno dei cattolici nell’ambito della vita civile e politica, perché i valori sociali, che hanno un indiscutibile radicamento nella tradizione cristiana, permeino di sé le scelte collettive di carattere sia economico-sociale sia politico-istituzionale» (DP, n. 38).

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