Cattolici e democrazia: la 44a Settimana
Sociale
Dal 7 al
10 ottobre si terrà a Bologna la 44a Settimana Sociale dei cattolici
italiani su «La Democrazia: nuovi scenari e nuovi poteri». Dati il tema e il
momento storico in cui se ne parla, sarà impossibile fare un discorso
astratto, senza confrontarsi con la situazione concreta del Paese. Lo stesso
Documento Preparatorio (DP), predisposto per guidare i lavori, pur
affrontando il tema prevalentemente in termini teorici, non è privo di
riferimenti alla situazione italiana.
Quella della democrazia, infatti, è una crisi complessa e i cattolici non la
possono ignorare: «L’impegno dei cristiani su questi temi rientra nella loro
vocazione a edificare la città terrena, a rendere ragione della fecondità
della fede nell’esercizio dei ruoli sociali e istituzionali nei vari
ambienti in cui essi sono chiamati a vivere» (DP, n. 2). A Bologna, quindi:
1) si dovranno individuare anzitutto gli aspetti più pericolosi della crisi;
2) cercare quindi proposte di soluzione; 3) esprimere infine un giudizio
sulle riforme in corso o in progetto.
1. Una crisi pericolosa
Nessuno dubita che la democrazia sia il sistema migliore di governo: «In
discussione non è dunque il valore in sé della democrazia, ormai decisamente
acquisito, ma le modalità del suo esercizio di fronte a una serie di nuove
aspettative e di rischi che rendono urgente adoperarsi responsabilmente e
concretamente per la sua ripresa e il suo consolidamento» (DP, n. 3). Le
trasformazioni profonde del nostro tempo, aprendo nuovi scenari, impongono
di ridefinire i delicati equilibri su cui si regge il sistema democratico:
il rapporto tra libertà personale ed esigenze del bene comune; tra
governabilità e autonomia dei corpi intermedi; tra rispetto della legalità e
solidarietà.
La crisi presente della democrazia è strutturale, non meramente
congiunturale; alimenta perciò la conflittualità sociale e favorisce la
nascita di «poteri forti». In pratica, se i detentori del potere economico o
di quello massmediatico o di quello scientifico-tecnologico dicono che una
certa legge non si può e non si deve fare, nessuna forza politica riuscirà
mai a condurla in porto. Nasce qui la domanda di fondo: se la convivenza
civile non poggia su valori comuni condivisi, su che cos’altro si potrà far
leva per costruire una democrazia partecipativa? Ecco perché l’aspetto più
grave è che si sia dissolto «quell’ethos collettivo che è l’humus
indispensabile per la definizione delle regole che devono governare le
relazioni sociali […]. L’assenza di un forte referente etico nella società
fa correre alla democrazia il pericolo di asfissia spirituale, la fa
diventare […] una democrazia “senza anima”, destinata in quanto tale a
regredire» (DP, n. 9).
È esattamente quanto accade nel nostro Paese, dove la democrazia è sempre
più «formale», e sempre meno «sostanziale»: non si riesce cioè a coniugare
libertà ed equità sociale, né a garantire a tutti in misura uguale il
rispetto dei diritti fondamentali. Questa crisi era stata già annunciata,
anni fa, dal documento della Commissione Giustizia e Pace della CEI:
Educare alla legalità (4 ottobre 1991).
La prima conseguenza — vi si leggeva — è il prevalere di interessi
particolari o corporativi; e ciò porta «ad aumentare il numero delle leggi
“particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno), […] vanificando così le
istanze di chi non ha voce né forza» (n. 8). Quello che il documento della
CEI non poteva immaginare è che un giorno quasi tutti i poteri forti
(legislativo, esecutivo e gran parte di quello economico-finanziario e
dell’informazione) si sarebbero concentrati nelle mani di una sola persona,
con la conseguenza che le leggi «particolaristiche» avrebbero avuto per
oggetto gli interessi personali del leader e dei suoi sostenitori.
Un’altra conseguenza devastante, annunciata dal documento della CEI, è oggi
sotto gli occhi di tutti: il populismo. Il DP di Bologna affronta questo
problema, ma si limita ad ammettere — con la «diplomazia» tipica dei testi
ufficiali — che «l’odierno stato della democrazia nel nostro Paese (ma anche
in altri Paesi occidentali) presenta aspetti di somiglianza con tale
situazione». Afferma invece con chiarezza che il populismo, mentre «da una
parte concorre a delegittimare il sistema rappresentativo, favorisce
dall’altra la tendenza a passare sopra alle regole e alle procedure della
politica e ad assumere comportamenti ispirati al qualunquismo ideologico e
al pragmatismo. L’esito è l’attestarsi su posizioni di “democrazia
maggioritaria”, rinunciando a fare il passo verso la “democrazia inclusiva”
— altra dimensione costitutiva di una democrazia compiuta —, che si rivolge
indistintamente a tutti i cittadini, non esclusi coloro che compongono la
minoranza» (n. 12). Ora, se questo è il populismo, in Italia è realtà già in
atto: non ci sono soltanto «aspetti di somiglianza».
È auspicabile quindi che almeno a Bologna le cose si chiamino con il loro
nome. Perché temere di dire che il Parlamento italiano è ridotto, sempre più
spesso, a mero strumento di ratifica di decisioni e di accordi presi al di
fuori delle sue aule (magari in luoghi di villeggiatura come Lorenzago)?
Perché tacere il fatto che i rappresentanti del popolo sono obbligati sempre
più frequentemente a votare senza discutere (legati dal voto di fiducia) non
solo leggi che comportano gravi oneri per l’intera popolazione, ma
addirittura riforme che modificano sostanzialmente l’architettura dello
Stato? Perché non dire apertamente che la «applicazione, in senso puramente
formale, del principio di maggioranza, con il pericolo della sistematica
penalizzazione delle minoranze» (DP, n. 5), non è solo un rischio teorico in
Italia, dove le forze minoritarie di opposizione e le diverse forme di
rappresentanza democratica della società (a cominciare dai sindacati) sono
sistematicamente delegittimate? Perché parlare di possibile progressiva
deriva nell’applicazione del «principio di maggioranza», quando ci troviamo
di fronte a una vera «dittatura della maggioranza»? Del resto, se la crisi
non fosse così grave, non si giustificherebbe l’invito pressante del DP a
«ripensare il modello» (cfr n. 13): cioè, a restituire un’anima alla
democrazia; a riequilibrare i rapporti tra potere politico e poteri forti; a
ridefinire i canali della partecipazione politica.
2. Restituire un’anima alla democrazia
Per superare questa crisi pericolosa, occorre fare unità su valori comuni
condivisi. Restituire un’anima alla democrazia è difficile, ma non
impossibile. Infatti, i valori su cui convergere non li dobbiamo inventare.
Si trovano già nei primi articoli della nostra Carta costituzionale e
nell’art. I-2 del Trattato costituzionale europeo: libertà, giustizia,
uguaglianza, solidarietà, sussidiarietà, legalità.
Il vero problema dell’unità sui valori nasce quando si passa dall’astratta
enunciazione alla loro applicazione alle situazioni concrete; infatti,
«emergono spesso posizioni divergenti (talora persino contrapposte) sia a
riguardo del significato che si attribuisce a ciascuno di essi, sia
(soprattutto) della collocazione che viene assegnata a essi nell’ambito del
sistema gerarchizzato cui si fa riferimento» (DP, n. 15). Degli stessi
valori si danno cioè interpretazioni diverse, alla luce delle due culture
politiche che oggi si contrappongono in Italia: il neoliberismo e il
solidarismo (o riformismo solidale).
Il DP sembra non dare troppo peso alle differenze tra queste due culture.
Ritiene infatti che — nonostante il carattere che si vorrebbe
prevalentemente formale della concezione liberale di democrazia (intesa cioè
più come un insieme di regole che di contenuti e, più specificamente, di
valori) —, neppure la cultura neoliberista può «misconoscere l’esigenza
dell’appello a un quadro di valori, quali l’irriducibilità della persona
allo Stato, la non totale identificazione tra Stato e società civile, il
pluralismo, la rappresentanza, la partecipazione al potere e la sua
limitazione; valori che fanno parte della definizione della sua stessa
formalità» (n. 17).
È auspicabile che a Bologna si prenda atto in forma più realistica delle
divergenze che ci sono tra la concezione individualistica di libertà (intesa
come possibilità di scegliere e di fare ciò che si vuole, con l’unico limite
del rispetto della libertà altrui), propria della cultura liberale, e la
concezione di libertà, propria della cultura solidale e della dottrina
sociale della Chiesa, per la quale invece la libertà personale ha sempre una
responsabilità sociale. Perché non dire chiaramente che la concezione
liberale della legalità (come mera osservanza formale delle regole) si
differenzia profondamente dalla concezione solidale di ispirazione
cristiana, secondo cui la necessaria osservanza delle regole va sempre
integrata da una solidarietà responsabile? Il bene comune non è la somma del
bene di individui, che vivono uno accanto all’altro pensando ciascuno solo a
se stesso. La società umana non è un agglomerato di atomi incomunicabili, ma
una comunità di persone legate tra loro da strette relazioni familiari,
sociali, economiche, culturali e spirituali. Il «bene comune», dunque,
trascende quello dei singoli individui ed è insieme di ciascuno e di tutti (cfr
GIOVANNI XXIII, Mater et Magistra, n. 65 [ed. Queriniana]).
Di fronte a queste differenze obiettive, è chiaro che per convergere su una
piattaforma comune di valori, non basta condividerli in astratto.Valori
quali la difesa della vita, la tutela della famiglia, la giustizia sociale,
la protezione dell’ambiente, la sicurezza contro ogni forma di violenza e di
disagio sociale sono mete comuni a cui tendere, sebbene in forma graduale,
attraverso il dialogo, avvicinandosi il più possibile all’ideale, nel
rispetto della laicità della politica e delle regole democratiche.
Pertanto, per restituire un’anima al nostro sistema democratico, occorre
cercare insieme piste concrete che consentano alle diverse posizioni di
trovare gradualmente punti comuni di convergenza. Chiudersi nel rifiuto di
collaborare e di dialogare, per non mettere in pericolo la propria identità,
porterebbe solo a irrigidimenti sterili e controproducenti. La ricostruzione
di un ethos condiviso passa dunque attraverso «la creazione, all’interno
della società, di spazi di comunicazione che favoriscano il confronto tra
soggettività individuali e sociali diverse e consentano, mediante un franco
e onesto dialogo, di rintracciare, al di là della diversità dei sistemi
etici, un terreno di convergenza attorno a una comune piattaforma di valori»
(DP, n. 19). Ecco perché non c’è posto per un nuovo «blocco cattolico».
3. Potere politico e «poteri forti»
Se per dare un’anima alla democrazia è necessario ripartire dai valori,
tuttavia — trattandosi di crisi strutturale — occorre anche ristabilire un
rapporto corretto tra potere politico e altri «poteri forti», primi fra
tutti quello economico-finanziario, quello della informazione e quello
scientifico-tecnologico.
Sul rapporto tra politica e potere economico-finanziario resta valido quanto
rileva il DP: «Il liberismo, lasciato a se stesso, lungi dal garantire la
libertà del mercato — libertà che coincide con la possibilità di accesso al
mercato di un numero sempre più ampio di soggetti — genera forme di
concentrazione e di monopolio che riducono al minimo la concorrenzialità e
rivestono un carattere autoritario. La divaricazione tra democrazia ed
economia di mercato è diventata, in questi ultimi anni, ancor più evidente
rispetto al passato, soprattutto se si considerano le crescenti
disuguaglianze economico-sociali e la maggiore consapevolezza
dell’importanza che ha oggi la promozione dell’uguaglianza dei punti di
partenza (o delle condizioni di base) come uno dei fini principali della
democrazia» (n. 23).
Il limite della economia di mercato sta nel fatto che essa, pur essendo in
grado di produrre ricchezza, non ha però in sé gli strumenti per ripartirla
in modo equo. Da qui la necessità di regole e di controlli da parte della
società e del potere politico al fine di coniugare efficienza e solidarietà,
pubblico e privato. Ciò è tanto più necessario nel contesto dell’attuale
processo di globalizzazione. Se il potere economico prevale sul potere
politico, a farne le spese sono anzitutto le classi e i ceti sociali più
deboli. Infatti, il primo a entrare in crisi è il mondo del lavoro, come
accade in Italia, dove «la necessità di inserire elementi di flessibilità
per arginare il calo di competitività del nostro Paese ha provocato lo
sviluppo di contratti a termine e di figure professionali scarsamente
tutelate e soggette a un forte grado di instabilità lavorativa» (DP, n. 26).
A Bologna, dunque, bisogna spiegare bene perché è illusorio parlare di
crescita della occupazione, quando in realtà aumentano soprattutto i posti
di lavoro precario, e non in virtù di un programma organico di sviluppo, ma
a motivo della convenienza che le imprese hanno di assumere manodopera a
tempo determinato per trarne vantaggi momentanei. Occorre pure spiegare che
non serve a nulla ridurre le tasse, se per farlo si tagliano le spese
sociali e i trasferimenti agli Enti locali. Un problema analogo di chiarezza
è necessario per il sistema finanziario: «Il fatto che il potere aziendale,
almeno nelle grandi imprese, sia esercitato da pochi e che il potere
decisionale sia sempre più concentrato nelle mani degli azionisti di
maggioranza provoca un’evidente riduzione della presenza dei valori
democratici legati alla difesa degli azionisti di minoranza e alla
trasparenza delle comunicazioni finanziarie» (DP, n. 25). I recenti scandali
(Cirio, Parmalat…) insegnano.
Un ulteriore problema è il rapporto tra il potere politico e quello dei mass
media: «Lo sviluppo della vita democratica è infatti spesso gravemente
compromesso dall’interferenza dei media, che possiedono un enorme potere di
manipolazione, in vista sia della produzione del consenso, sia della
determinazione degli obiettivi da perseguire nell’azione politica» (DP, n.
27). Questa difficoltà obiettiva è più grave in Italia, dove — in regime di
duopolio televisivo — sia il polo pubblico, sia quello privato sono nelle
stesse mani di chi detiene il potere politico. Si spiega allora come sia
potuta passare una «legge Gasparri», che — pur contenendo alcune cose buone
— finisce però col favorire il polo privato, soprattutto per quanto riguarda
la raccolta e la distribuzione delle risorse pubblicitarie, e riporta la RAI
sotto il controllo del Governo, con un pericoloso salto all’indietro in tema
di libertà e di pluralismo dell’informazione.
Infine, il potere politico dovrà fare i conti con un altro «potere forte»:
«una sorta di neoscientismo che, oltre a vantare la pretesa di una radicale
neutralità della scienza e della tecnica — è questa la ragione della
esclusione di qualsiasi interferenza etica —, si propone quale criterio
interpretativo dell’intera realtà, riducendo tutto alle logiche della
funzionalità e dell’utile ed espropriando l’uomo della propria identità
interiore» (DP, n. 30). Si pone, cioè, il problema del controllo sociale
sulle scelte scientifiche e tecniche, non per interferire nell’autonomia
della ricerca, ma per valutarne gli effetti sulla convivenza civile.
Come si vede, in tutti questi conflitti, ritorna sempre quello di fondo tra
cultura politica neoliberista e cultura politica solidale. Riuscirà la
Settimana Sociale di Bologna a esprimere un giudizio obiettivo su quale
delle due culture è la più idonea a ristabilire l’equilibrio tra potere
politico e «poteri forti»?
4. La riforma dello Stato e delle istituzioni
La soluzione della crisi strutturale della democrazia passa, infine,
attraverso le riforme istituzionali. Su questo punto appare ancora più
chiara la necessità di aprirsi ai nuovi scenari, europei e mondiali.
Il DP fa il punto sulla «questione istituzionale» in Italia: «Ciò che è
tuttavia finora mancato è un progetto di riforma coerente e adeguato che,
oltre a garantire un maggior peso ai cittadini, assicuri una maggiore
stabilità di governo e favorisca una più marcata autonomia e una maggiore
articolazione dei rapporti tra centro e periferia. Sempre più urgente appare
pertanto la soluzione di due nodi critici endemici tuttora al centro del
dibattito, quello della “forma di governo” e quello della “forma di Stato”;
nodi resi entrambi più complessi dal consolidarsi di un sistema politico a
conduzione bipolare, con una crescente accentuazione del ruolo del leader, e
dall’esplosione dei rapporti tra centro e periferia, dovuta alla difficoltà
a seguito delle riforme già intervenute (e non completate nei rapporti tra
Stato, Regioni ed enti territoriali) di trovare nel Parlamento e nelle
relazioni istituzionali tra i diversi soggetti un adeguato elemento di
unificazione» (n. 34).
Ovviamente non spetta alla Settimana Sociale sostituirsi ai
costituzionalisti e ai politici. Tuttavia i cattolici italiani verrebbero
meno a un loro grave dovere morale se a Bologna tacessero sulla devolution
leghista, che mette seriamente in pericolo l’unità nazionale e la
solidarietà sociale. L’appello va soprattutto ai cattolici della Casa delle
Libertà: vi sono scelte sbagliate talmente gravi, sulle quali non è
possibile transigere per salvare la coalizione o la legislatura. Bisogna
avere l’onestà e il coraggio di rimetterle al giudizio dell’elettorato.
In conclusione, al di là dell’analisi della crisi e dei suggerimenti per
superarla, il frutto più importante della 44a Settimana Sociale è che essa
sia di «stimolo a un maggior impegno dei cattolici nell’ambito della vita
civile e politica, perché i valori sociali, che hanno un indiscutibile
radicamento nella tradizione cristiana, permeino di sé le scelte collettive
di carattere sia economico-sociale sia politico-istituzionale» (DP, n. 38).