Progetti e studi di architettura

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MERCATI

 

I negozi

La bottega medievale, come la conosciamo da qualche rarissimo e malandato specimen del XII e del XIII secolo ma assai meglio dalla ampia documentazione letteraria e figurativa, non differisce, essenzialmente, da quella romana, né molto si muta, in tutto il mondo occidentale, fino alle soglie del Seicento.
L'ambiente si conserva piccolo, qualche volta dotato di retrobottega o di soppalco, la grande apertura verso strada sostituisce alla piattabanda l'arco ribassato o acuto, per ritornare all'architrave nel Quattrocento. L'apertura su strada, come nella romanità, é in parte chiusa, in basso, dal muretto-davanzale che funge da banco di vendita, così che il cliente rimane di solito sulla strada senza bisogno di entrare, come si rileva, fra l'altro, da un particolare del "Buon Governo" affrescato da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo comunale di Siena (secolo XIV), dalla tavoletta di Scuola gaddiana rappresentante la bottega di S. Eligio orafo, dalle trecentesche miniature lombarde del "Theatrum Sanitatis" (Roma, Bibl. Casanatense).
La suppellettile interna doveva ridursi a mensole di legno immurate e a qualche rudimentale armadio e cassone o cassapanca; in qualche caso, e più spesso nel secolo XV, l'arredamento interno - bancone e scansie - accenna a una organizzazione più complessa, quasi sempre di carattere modesto, come nella gioielleria fiamminga di cui ci rimane una preziosa e minuziosa testimonianza in una miniatura di Alessandro Bening.
Sembra da escludere che si continuasse l'uso delle decorazioni dipinte, all'antico modo pompeiano, ove non si voglia considerare la abituale presenza di immagini sacre. Le merci che scarsamente si potevano esporre sul muricciolo esterno, venivano più spesso sospese all'architrave, all'arco o a travetti appositamente sistemati. Frequentemente un tettuccio, come la antica pergola, sporgeva a protezione degli avventori.
Eccezionalmente si usarono anche botteghe a doppia apertura, ossia bifore, ed é a credere che qualche lusso si riscontrasse solo raramente, come nella bottega di farmacista quattrocentesco raffigurata in una lunetta del Castello di Issogne. Di una cena grandiosità é la farmacia due-trecentesca, la "Lobia Viridarii", dell'Ospedale di Pisa, coperta da sei grandi volte a crociera, e particolarmente veneranda - se é vero che Dante la frequentò - la spezieria fiorentina del Canto al Diamante, sede, dal 1266, dell'Arte di Calimala.
Carattere particolare, specialmente a Firenze e Venezia, ebbero, nel Tre e nel Quattrocento, le botteghe degli artisti, carattere particolare perché dorare di laboratori, talvolta anche grandi come quello veneziano dei Bellini, non perché sostanzialmente differissero dalle altre con le quali condividevano chiaramente il carattere artigianale e commerciale.
Le botteghe del Ponte Vecchio di Firenze, benché più volte restaurate e rifatte, costituiscono una viva testimonianza della bottega tre-quattrocentesca, mentre il Ponte di Rialto a Venezia ce ne offre una, più schietta, per il Cinquecento. Per il secolo XVI porremmo anche ricordare la bellissima farmacia dell'Ospedale Serristori a Figline Valdarno, quella della "Pia Opera di S. Corona" in Milano che il Luino affrescò nel 1520, quella "Alla colonna e mezza" in Venezia dove la farmacia Ponci a Santa Fosca offre già un superbo esempio di incipiente barocco.
Anche cinquecentesca é la geniale sistemazione operata dal Vignola in Bologna, sulla Piazza Maggiore, quando fra il 1565 e il 1568 fuse nel Palazzo dei Banchi le molte case e casette ove dal 1412, i banchieri tenevano le loro botteghe.
Fuori d'Italia potremmo citare, per rutti, l'esempio ancora goticizzante della "Vieille Boucherie", o "Antica Macelleria", compiuta fra il 1501 e il 1503 da Herman de Wagemaker in Anversa.
É specialmente il murare della società e del costume, e sono i più ampi e complessi e liberi rapporti sociali che provocano, nel Settecento, la graduale trasformazione della bottega nel moderno negozio. Ci si avvia a passare da un fenomeno ancora del tutto connesso con l'artigianato e con il piccolo commercio a un organismo un poco più anonimo, e cerro meno pittoresco, ma più adatto alla civiltà industriale che stava, allora, nascendo. Un diverso e più audace intuito commerciale, le sollecitazioni di una rincrudita concorrenza, una più larga diffusione del benessere e quindi uria aumentata domanda, lo stesso gusto della raffinatezza proprio del Settecento, inducono mutamenti e ampliamenti sempre più impegnativi.
A Venezia, la sartoria e la bottega da cale aspirano agli splendori della dimora patrizia, aspirazioni di cui ancora, nonostante le trasformazioni ottocentesche e le umiliazioni inflitte dal tempo, balena qualche traccia nel vecchio Florian, come in Roma al "Greco", e, fino a una ventina d'anni sono, a Torino nelle sale sette-ottocentesche del Caffè S.Carlo. Il Settecento ci ha lasciato anche qualche preziosa farmacia rivestita tuttora di cupe e intagliate scansie in cui sfavillano vecchie terraglie dei Grue, o di Savona, o di Nove. Potremmo citare, per gli elegantissimi mobili e la preziosa suppellettile, quella fondata nel 1706 da Girolamo Mantuani a Venezia in Calle Larga S. Marco, senza ricorrere a quella vivacemente dipinta da Pietro Longhi (Venezia, Accademia), e porremmo ricordare, per il loro arredamento settecentesco, quella "dell'ospedale Maggiore di S. Giovanni e della Città di Torino", quella grandiosamente costruita a Napoli nel 1749 presso l'Ospedale degli Incurabili, e quella deliziosamente rococò aperta a Wurzburg presso l'Juliusspital nel 1765.
Certo il massimo della raffinatezza e della magnificenza, nel Settecento, é raggiunta dal Gersaint, mercante d'arte che aveva bottega a Parigi sul Pont-Notre-Dame all'insegna "da Grand Roy", e riuscì a inalberare come targa esterna del suo negozio un capolavoro di Aintoine Watteau raffigurante l'interno della sua quadreria.
I negozi e, in genere, i pubblici esercizi, non murano molto nel corso dell'Ottocento, certo oggi non sarebbe facile documentarsi in proposito, fuor delle vecchie litografie, non fosse per qualche raro caso come quello del neoclassico Caffè Pedrocchi (1816-31) di Giuseppe Japelli a Padova o quello - poco più in ritardo - del ristorante "Del Cambio" in Torino, o per qualche farmacia che ancora conservi l'arredamento "Secondo Impero" come quella, "Della Consolata", in Torino, oppure le memorie o le scansie romantiche come la Guffanti-Curioni di Como o la Pelli di Lugano.
È soltanto a partire dal 1925-30 che l'aspetto del negozio - ormai diventato un motivo principale di pubblicità - diventa, di anno in anno, mutevole come un vestito che si cambi ogni stagione.
Fra i primi negozi intesi modernamente porremmo citare la "Macelleria" esposta nella III Biennale di Monza (1921) da Felice Casorati, il caffè Craja (1930) di Baldessari-Figini-Pollini, il "Vitrum" di Giuseppe Terragni a Como, il negozio di ortica a Losanna di Alberto Sartoris, quello "Parker" (1934) di Marcello Nizzoli e Edoardo Persico e quello dell'"Istituto Ottico Viganò" di Asnago e Vender (1935) a Milano, più per la sua singolarità che per il suo valore esemplare, potremmo ricordare il negozio "Morris" di Wright a S. Francisco, e quelli "Olivetti" di Ugo Sissa a Roma e di Belgioioso-Peressutti-Rogers a New York.