Usi e costumi: il lavoro e i frutti della terra

di Paolo Cassone – Foto d’epoca

 

 

Ø         Gli uomini e le cose

Ø         Il lavoro e i frutti della terra

Ø         San Giuseppe

Ø         Il ciclo della Pasqua

Ø         Feste e fistini

Ø         La festa di San Sebastiano

Ø         La ricorrenza dei defunti

Ø         Il Natale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amuninni all’aria ca u massaru spagghia   - Fino agli anni sessanta nel vecchio campo sportivo, che gli anziani chiamavano  u chiano di S. Maria”, da metà giugno e sino ai primi di agosto i nostri  contadini accatastavano i covoni “i legna”. Dopo la mietitura, a dorso di mulo venivano trasportati  dai poderi. Ogni trazzera ed ogni viottolo di campagna  era percorso da colonne di muli ed asini che portavano i covoni di grano, orzo e fave all’aria. L’aria era quello spazio nel vecchio campo sportivo dove venivano “pisati i legna”, cioè i covoni sparsi in cerchio venivano fatti pestare,  in un continuo girotondo da muli ed asini “mpaiati   guidati dal contadino con la “zotta” in mano ed al canto  di arie estemporanee elaborate all’istante.

Seguiva poi la fase della separazione del raccolto dalla paglia e dalla pula detta  “spagghiari”. Sovente nascevano questioni per accaparrarsi il posto, perché  si  inondava di paglia il raccolto già pulito del vicino o perché le bestie sporcavano o addentavano i covoni. Nel complesso era un’atmosfera gioiosa e gaia. La sera si stava tutti insieme, erano canti e balli. Ora è nostalgia di quel tempo in cui meno presi dal consumismo eravamo più uniti e con una nostra specificità  popolaresca.

 

“Chi ci vieni  a favaraggi”. Era il grido con cui all’uscita di scuola, molti anni fa, si cercava compagnia per andare nelle campagne vicine al paese a riempirsi le tasche di bagolari, piccolissimi frutti neri e dolciastri, più nocciolo che polpa. Si andava a gruppi e si spolpavano dai rami, riempiendo  le enormi tasche dei pantaloni. I ragazzi si riempivano la bocca masticando e inghiottendo la scarsa polpa e tenendo in bocca tutti i noccioli che poi con un “cannuolo” (cerbottana) venivano lanciati o tirati agli altri ragazzi, agli uccelli e alla  lucertole. Giochi infantili in mancanza della televisione che allora cominciava a diffondersi. Non c’erano cartoni animati a tutte le ore!

 

A  S. Martino sa ‘ncingna u vino nuovu. Fino ad una quarantina di anni fa erano ancora molti i vigneti nel nostro territorio. Molte erano le famiglie che avevano la botte con il vino di produzione propria. I vigneti più rinomati erano quelli della zona detta del Montitto.

Abbiamo memoria visiva della spremitura dell’uva che, portata dentro i cosiddetti cufini  a dorso di mulo, nel palmento di Motta, ubicato in fondo alla via Garibaldi, (oggi in completo stato di abbandono ed in rovina), veniva pestata da tale Giuseppe Serratore. Costui aveva i piedi coperti con delle calze di cotone lavorate appositamente dalle donne anziane con degli aghi particolari che chiamavano “firretti”, e si sorreggeva con una fune pendente dalla trave del tetto.

Esisteva in via Carmine “ a putia o  vino da gna’Tanuzza”. Qui era il ritrovo dei poveri cristi che non frequentavano i bar e amavano bere il bicchiere di vino in compagnia, accompagnandolo con uova bollite o prodotti salati come ngiove salate, olive nere condite e pepate, per stuzzicare la sete. Sovente qualcuno prendeva la sbornia e veniva accompagnato a casa tra l’ilarità generale e la rabbia dei familiari.

 

Un’altra gemma delle nostre contrade: una varietà particolare di “rìunu” ovvero origano – la specie “Origano onites” - in Italia cresce spontanea  solamente nei territori collinari  della provincia di Siracusa. Ha un aroma molto carico. In cucina è usata per insaporire e aromatizzare le vivande. Ha particolari proprietà farmacologiche  specialmente antispasmodiche, espettoranti. In questo periodo giunge a completa fioritura. Un tempo erano molti coloro che si dedicavano alla raccolta di quest’erba che poi essiccavano e portavano ai mercati cittadini. Perché non si riesce a valorizzare e dare la giusta importanza a questo dono che madre natura ci ha elargito?

 

Giungono a maturazione nel mese di settembre i dolcissimi fichi d’India. Frutto ricco di vitamine, soprattutto la C, e delizia del palato. Le nostre contrade ne sono ricche. Peccato che non trovino la giusta collocazione nel mercato e che la sua produzione a livello di esportazione sia snobbata dai nostri agricoltori. Certi furbi dei paesi della marina vengono a depredare le nostre campagne per poi vendere il frutto rubato in città.

Ci tornano  in mente  gli anni della nostra infanzia quando quasi in ogni casa si cuoceva la mostarda di “ficupara”  ed il profumo inondava i vicoli. Posta ad asciugare nei piatti grandi o nelle formelle di ceramica caltagironese sopra le “ncannate”, formavano oggetto di piccoli furti da parte dei monelli. Essiccata, era una leccornia per i bambini durante i mesi invernali.

 

Un prodotto tipico del territorio di Ferla sono le noci. Fino a non molti anni fa al mercato della “Ucciria” di Palermo in questo periodo si udiva gridare “i nuci da Ferra ”. Ci è stato raccontato da un emigrato, che negli anni 60 gli è capitato di vedere esposto in un negozio a Torino un cartello con su scritto: “Noci di Ferla”.

Ricordiamo che negli anni della nostra infanzia si udiva per le strade il grido: “cu avi nuci ca mi ’ccattu”, erano i commercianti che venivano da lontano ad acquistare le noci del nuovo raccolto, già asciugate e pulite dalla buccia verde, che poi portavano nei mercati cittadini ed oltre lo stretto.

Intorno agli anni ‘60 e ‘70 molti alberi di noci furono distrutti, perché commercianti di legname illusero i contadini col buon prezzo con cui acquistavano gli alberi da abbattere. In questi ultimi anni la produzione è aumentata grazie anche alla crescita degli alberi giovani ed al nuovo ripopolamento.

Abbiamo molte volte segnalato ad addetti ai lavori  l’opportunità di richiedere il marchio di zona di origine per questo prodotto della nostra terra, ma nessuno si è interessato.