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Usi e costumi: la festa di San Sebastiano
di Paolo Cassone – Foto
d’epoca
Ø
Il lavoro e i frutti
della terra |
La festa del nostro Patrono S. Sebastiano,
fino agli anni 50, era caratterizzata
da alcune specificità ferlesi. Il periodo festivo si apriva
quindici giorni prima con il festoso scampanio de “i vespiri”: tutte le
campane della chiesa di S. Sebastiano, ogni pomeriggio, intorno alle 17.00,
suonavano a festa per chiamare i devoti al canto dei ”Vespri”. Il suono dei “vespiri”
sanciva la fine del “filuvespiri”, cioè di quel periodo di riposo dopo
il pranzo quando impazza la calura estiva. Gli artigiani, allora numerosi,
riprendevano alacremente il lavoro. Si sentiva l’aria della festa. La chiesa veniva addobbata con “l’apparatu”. Era costituito da una
serie di drappi e festoni su cui era
raffigurata la vita ed il martirio del Santo. L’apparatu veniva predisposto da un artigiano appositamente chiamato. Durante tale periodo non era raro
il caso di vedere per le strade a piedi nudi qualche devota andare in giro
con un vassoio, a questuare spiccioli, per offrire la messa solenne al Santo,
a scioglimento di voto o a ringraziamento per grazia implorata e ricevuta. La rivalità con la comunità dei
devoti di S. Antonio era notevole. In
questi anni venne fabbricato l’artistico carro trionfale della processione serale del Patrono.
Opera dell’artigiano locale Giuseppe Siracusa, devoto e facente parte del
comitato dei festeggiamenti patronali. Il 18 si teneva una grandiosa
fiera mercato del bestiame. Venivano da tutto il circondario a vendere o acquistare bestiame. Artigiani
di Vizzini, Grammichele e persino di Comiso
portavano i loro prodotti, consistenti principalmente in attrezzi agricoli, bardature per il bestiame, cordami ecc. La vigilia della festa
cominciavano le eliminatori delle corse dei cavalli che si svolgevano lanciando i cavalli al galoppo lungo il
corso Vittorio Emanuele sino alla Madonna
delle Grazie. Era proverbiale tra i perdenti alle corse di Floridia dire ”a
chianata a Ferra ni videmu”: La tradizione delle corse di
cavalli a Ferla era molto antica. Paesi viciniori hanno copiato e
mantenuto tale tradizione che da noi si è fermata nel 1958, quando ci fu
qualche ferito leggero a causa di un cavallo imbizzarrito che travolse il
pubblico di fronte alla chiesa madre. Quando si svolgevano le corse,
veniva recintato il percorso,
collocando dei paletti sul ciglio della strada, in corrispondenza degli
odierni marciapiedi, su cui si legavano delle corde per non far avanzare gli
spettatori. Abbiamo letto su
documenti dell’archivio comunale che nel 1582 si svolgeva il “Palio di S.
Giacomo”. (La nostra parrocchia come è noto
è intitolata a S. Giacomo Maggiore Apostolo). La festa del patrono era una delle
occasioni dell’anno, in cui venivano annunciati ad amici e parenti i
fidanzamenti ufficiali. Era di rito la consumazione in piazza dei famosi “pezzi
duri”, gelato in vari gusti appositamente congelato. Il popolo contento elargiva le
offerte al Santo per la maggior parte in natura (frumento): meglio era andata
l’annata, più sostanziosa era l’offerta. Il comitato ingaggiava i disoccupati
che per poco prezzo portavano ai depositi il carico di frumento, dono della
generosità dei devoti. La sera della vigilia intorno alle
ventuno si svolgeva la cosiddetta “curruta
di Sammastiano”, consistente nell’apertura della nicchia del Santo e nel
suo lento avanzare verso l’altare per mezzo di argani, al grido di evviva
della folla plaudente che stipava la basilica. Molto sentita e partecipata era,
come lo è tuttora, la messa d’alba. Ragguardevole il numero di devoti
che si recava in chiesa a piedi scalzi con “’ntorce” di
varia forgia e grandezza, a seconda della grazia implorata o ricevuta, cinti
con un nastro rosso ed un mazzo di basilico “rizzu”, la varietà più
profumata. Le donne
solevano andavano scalze e spettinate. Era tradizione inneggiare al Santo con
alte grida, tre volte: all’ingresso in chiesa , al centro ed all’altare
maggiore, ai piedi del Santo. In tempi più remoti
(probabilmente prima del 1800) era
usanza che gli uomini andassero completamente nudi ed era usanza strascicare
la lingua per terra tant’è che alcuni anziani ancora oggi usano dire “fari a lingua strascinuni”
dall’ingresso fino all’altare, più
sentita era la grazia implorata o ricevuta Alla solenne uscita del Santo
sotto il sole cocente del mezzogiorno, portato a spalla dai “nudi”, si
svolgeva la cosiddetta “cavarcata”.
Consisteva nel portare a dorso delle
proprie bestie da soma la “prummisione” al santo. La
prummisione era l’offerta di grano della nuova mietitura. In genere
erano i massari ed i gabbelloti a fare questo tipo di offerte. Una lunga
colonna di muli carichi di bisacce colme di grano precedeva il santo lungo
tutto il percorso della processione. La cavalcata aveva un prologo il giorno
prima, quando veniva posta all’asta la campanella che l’aggiudicatario,
fungendo da capo per quell’anno,
suonava per scandire le soste e la
ripresa del cammino della processione. Di solito era appannaggio di massari
agiati. Col ricavato si coprivano le spese
della festa: banda e fuochi pirotecnici. L’usanza si è persa sul finire degli anni cinquanta
perché nascevano liti e qualche incidente. Ci tornano in mente i tempi della nostra
fanciullezza quando con le sole
offerte dei devoti si facevano venire due bande, si teneva un dignitoso
spettacolo e nel nostro piccolo la festa era veramente festa. Cambiano i
tempi. I ferlesi diventiamo sempre di meno, calano le offerte ed aumentano i
costi per celebrare la festa. |