I Comuni
Nel Duecento la vita politica dei comuni italiani fu caratterizzata da un
inestricabile intreccio di lotte tra fazioni nobiliari, tra nobili e popolo, tra
guelfi e ghibellini. Nel secolo successivo il quadro complessivo del mondo
comunale italiano restò piuttosto turbolento e confuso, ma si resero evidenti
alcune nuove tendenze di fondo.
Il ruolo delle corporazioni mercantili e artigianali crebbe con il formarsi di
un nucleo di grandi mercanti e imprenditori, il "popolo grasso" che fu il
protagonista della storia economica e sociale delle città italiane nel Trecento.
Benché risentisse certamente della crisi economica complessiva, questo ceto
economico seppe fronteggiarla meglio di ogni altro, specializzandosi in prodotti
di lusso come le sete o di elevato contenuto tecnico come le armi.
Compresso tra la grande nobiltà da un lato, il "popolo minuto" dei piccoli
artigiani e salariati dall'altro, il ceto mercantile, sul piano politico, favorì
sovente l'ascesa alla signoria di una famiglia della vecchia nobiltà. Ciò
garantiva normalmente la pace interna della città, la fine delle lotte di
fazione e il controllo delle rivendicazioni popolari, ma portava anche con sé lo
svuotamento delle istituzioni comunali. Un governo signorile si instaurò a
Verona con gli Scaligeri, a Ferrara con gli Este, a Milano con i Visconti, a
Padova coi Da Carrara... A Firenze, invece, una ristretta oligarchia di
mercanti di parte guelfa conservò per tutto il Trecento gli ordinamenti
comunali: la città ebbe così una vita politica vivace, se non tumultuosa, e finì
coi diventare agli occhi degli intellettuali italiani il simbolo della libertà
repubblicana.
li Trecento vide anche una sorta di selezione fra le città comunali italiane:
molte delle città minori della pianura padana entrarono nell'orbita politica ed
economica di Milano e lo stesso accadde in Toscana a favore di Firenze, che
venne gradualmente assumendo una preminenza economico politica cui corrispose un
vero e proprio primato artistico e letterario.
Il sud d'Italia, fallito il progetto di Federico lI, perse la sua unità: la
parte continentale del regno restò agli Angioini filoguelfi, mentre la Sicilia
si consegnò agli Aragonesi filoghibellini. Nel corso della prima metà del
Trecento, e in particolare sotto il regno di Roberto I d'Angiò il Regno di
Napoli era la maggior forza politica italiana, potendo contare su un ingente
gettito fiscale e avvantaggiandosi dell'alleanza con il papato avignonese, con
il regno di Francia e con le città guelfe del nord d'Italia. Ma il governo angioino favorì i ceti feudali piuttosto che quelli mercantili e borghesi: la
crisi della seconda metà del secolo colse così il regno napoletano povero di
iniziative ed energie economiche, con un'agricoltura intensiva che perdeva
posizioni a favore di quella estensiva e della pastorizia transumante, mentre i
mercati meridionali venivano occupati dagli imprenditori settentrionali e
fiorentini.
Il Rinascimento
Se il Duecento vide l'affermarsi di una letteratura in volgare, il Trecento fu
il secolo fondamentale per l'affermarsi di una tradizione letteraria italiana:
la Commedia dantesca, il Canzoniere di Petrarca e il Decamerone di Boccaccio
costituirono i grandi modelli ai quali tale tradizione si sarebbe di lì in
avanti rivolta.
Giotto
e Dante, i due giganti del primo Trecento,: entrambi godettero già nel loro tempo di una fama e di un primato
indiscussi; seppero imporre, ciascuno nel proprio campo, un linguaggio non più
dialettale o locale e furono gli iniziatori di due tradizioni, figurativa e
letteraria, che possiamo ormai definire italiane.
La grande fase di rinnovamento artistico e culturale che si dispiegò nel
corso del Quattrocento e di buona parte del Cinquecento, e che viene
abitualmente ricordata come "umanistico rinascimentale", va collocata sullo
sfondo dei complessi processi di cambiamento che inaugurano l'età e la cultura
moderne.
La
ripresa dell'economia europea dopo la crisi trecentesca, ripresa segnata dal
ruolo propulsivo dei grandi commerci e accompagnata dalla formazione di una
nuova classe dirigente urbana, un patriziato economicamente dinamico e al tempo
stesso colto e raffinato; l'età dei grandi viaggi e delle scoperte geografiche,
che aprono quella fase di mondializzazione dell'economia europea che
caratterizza il mondo moderno e contemporaneo; sul piano della religione e dei
valori, fa frattura aperta dalla Riforma protestante nel corpo della cristianità
occidentale; infine, sul piano politico, la formazione dello stato moderno,
sorto sulle ceneri dell'universalismo politico da un lato e della frantumazione
feudale dei poteri dall'altro.
Il Rinascimento in Italia
Mentre in Francia, Inghilterra e Spagna le
monarchie realizzavano un'opera di unificazione territoriale e di accentramento
politico, erodendo i poteri della feudalità laica ed ecclesiastica, del tutto
diversa fu la tendenza dell'assetto politico italiano dopo il quattrocento. Se
dal punto di vista istituzionale assistiamo alla definitiva evoluzione delle
istituzioni cittadine verso regimi signorili, caratterizzati dalla figura del
principe come centro del potere politico, dal punto di vista territoriale il
dato fondamentale è quello di una accentuata frammentazione: un dato destinato a
divenire costitutivo della realtà geopolitica italiana. Al centro nord, pochi
stati di dimensione regionale (Genova, Firenze, Milano, Venezia) e un tessuto di
piccole corti principesche, come quella dei Malatesta a Rimini o di Federico di
Montefeltro a Urbino al centro sud, due vasti organismi statali, lo Stato della
Chiesa e il Regno di Napoli. Nei domini pontifici, chiusa con il concilio di
Costanza del 1417 la lacerante esperienza dello Scisma d'Occidente, si assiste a
un processo di accentuata mondanizzazione e politicizzazione dell'apparato ecclesiastico e al tentativo di costruzione di uno stato centralizzato, con
particolare riguardo all'organizzazione del prelievo fiscale. Nel Regno di Napoli, unificato dal 1442 sotto la dinastia aragonese, la ricchezza commerciale, culturale e artistica della capitale è
accompagnata da quegli elementi di arretratezza nelle strutture economiche e nei
rapporti sociali (strapotere della feudalità baronale, crescente debolezza della
monarchia, scarsa propensione delle classi dirigenti al l'imprenditorialità)
che ne mineranno gravemente le possibilità di sviluppo.
Nell'Italia centrosettentrionale la vita politica quattrocentesca fu mossa
essenzialmente dalla ricerca, da parte degli stati maggiori di una posizione egemonica, e dall'opposizione di ogni singolo stato al predominio di uno
degli altri. Di qui i conflitti, le temporanee alleanze, i rovesciamenti di
fronte che caratterizzarono tutta la prima metà del secolo, fino alla pace di
Lodi (1454), che ebbe l'effetto di interrompere una lunga stagione di guerre, ma
anche quello di bloccare la situazione politica italiana entro un insuperabile
particolarismo.
Firenze e i Medici
Modello esemplare delle vicende delle "città stato" italiane è, in questo
periodo, ancora una volta Firenze. Nella città, da cui una congiura lo aveva
cacciato, rientra nel 1434 Cosimo de' Medici. Benché ostenti una vita da privato
cittadino, è un vero e proprio signore: protegge le lettere e le arti, tratta da
pari a pari con principi italiani e stranieri; lascia in vita le antiche
istituzioni repubblicane, ma pone alla loro guida uomini a lui fedeli. Alla sua
morte, nel 1464, dopo la breve parentesi di mediocre dominio del figlio Piero, è
il nipote Lorenzo (1449 - 1492) a reggere lo stato, realizzando una forte
concentrazione del potere. Per la sua capacità di garantire un sostanziale
equilibrio nelle relazioni fra gli stati italiani e per la sua politica di
mecenatismo culturale, Lorenzo si afferma come figura di primo piano nella
seconda metà del secolo. Equilibrio, moderatismo, mecenatismo, uniti a
un'autonoma e ardita politica estera, sono i tratti di quella signoria dei
Medici che accompagna e promuove una delle più significative stagioni della
cultura fiorentina e italiana. Il Rinascimento, spartiacque fondamentale
nella storia della cultura e dell'arte moderna, muove i suoi primi passi qui,
nel raggio di poche centinaia di metri, attorno al cantiere del Duomo, tra Santa
Maria Novella e Santa Croce.
Il Cinquecento in
Europa
Il XVI secolo fu un periodo di grandi trasformazioni economiche, sociali,
politiche, religiose, che minarono profondamente l'assetto tradizionale
dell'Europa. La scoperta del continente americano e la costituzione dell'impero
coloniale spagnolo spostarono progressivamente verso l'Atlantico l'asse politico
economico del vecchio continente. L'apertura dei nuovi mercati coloniali diede
un enorme impulso ai commerci; si svilupparono in questo periodo le manifatture
moderne, che lavorando per mercati lontani non erano più controllate dalle
corporazioni cittadine. I sovrani spagnoli e portoghesi, che avevano bisogno di
ingenti capitali per armare le flotte da inviare nelle Americhe, favorirono lo
sviluppo del credito e determinarono le fortune dei grandi banchieri europei. Lo
sviluppo economico aumentò la mobilità sociale e sconvolse la rigida struttura
delle classi tradizionali.
Il XVI secolo fu quindi un momento di realizzazione e affermazione
degli stati nazionali, ma fu anche il periodo in cui, per l'ultima volta,
l'Europa
visse un sogno imperiale che sembrava reincarnare quello del Sacro romano impero carolingio. Nel 1519, all'età di diciannove anni, Carlo d'Asburgo ereditò un
impero "su cui non tramontava mai il sole". Con il nome di Carlo V il giovane
diventò signore di mezza Italia, delle Fiandre e dei Paesi Bassi, re di Spagna e
delle immense colonie americane, sovrano della Germania. L'aiuto di banchieri
come i Fugger fu essenziale a Carlo per corrompere i grandi elettori tedeschi e
convincerli a nominarlo imperatore. Agli occhi dei contemporanei, comunque,
l'episodio non era contraddittorio con il mito politico e religioso dell'unione
di tutta la cristianità sotto un solo pastore. Il progetto politico di Carlo V
prevedeva infatti la rinascita di un impero universale cristiano, che fosse un
valido baluardo contro l'espansionismo turco, e permettesse una riforma della
Chiesa. L'imperatore era particolarmente sensibile al problema. Suo precettore
era stato infatti Adriano di Utrecht, seguace della devotio moderna, una
corrente religiosa che vedeva nel raccoglimento, nella meditazione personale e
nella lettura individuale delle Sacre Scritture il mezzo più idoneo per
raggiungere Dio. Adriano divenne papa col nome di Adriano VI. Il suo brevissimo
pontificato (1522 - 23) fu tutto improntato a uno sforzo di riconciliazione tra i
principi cristiani. Di fronte alle nuove realtà nazionali l'impero si rivelerà
però anacronistico: proprio l'enorme estensione e le diversissime fisionomie dei
vari stati rendevano impossibile un'amministrazione unitaria e un controllo
attento.
Per la massa della popolazione europea invece questi furono anni di grandi
difficoltà economiche, che spesso sfociarono in rivolte. L'inflazione colpì
l'economia europea durante tutto il Cinquecento, e fu un fenomeno così rilevante
che gli storici parlano di una vera "rivoluzione dei prezzi". L'enorme afflusso di
metalli preziosi dalle Americhe provocò la svalutazione delle monete; a questa
si aggiunse la scarsezza dei prodotti di sussistenza, che scatenò la
speculazione, facendo lievitare il costo della vita.
Nonostante l'aumento della produzione agricola, il cibo continuava a essere
insufficiente: la popolazione, soprattutto nelle grandi città, raddoppiò o
addirittura triplicò nel giro di pochi decenni, rendendo inadeguato qualsiasi
incremento produttivo.
La nascente borghesia invece fu particolarmente avvantaggiata da una simile
situazione di mobilità e di cambiamenti. Non solo l'espansione dei mercati la
favorì economicamente: il processo di formazione degli stati nazionali la rese
un'alleata preziosa dei sovrani, contro le spinte autonomistiche della nobiltà.
Il consolidamento degli stati nazionali in Francia, Inghilterra e Spagna fu
affidato dai sovrani alla classe emergente, che forniva personale in cambio del
riconoscimento sociale e della libertà dai vincoli feudali.
Il Cinquecento in
Italia
Con l'inizio del Cinquecento, l'Italia diviene il terreno di uno scontro
politico militare che ha per oggetto il predominio sulla penisola e che si apre
con la calata di Carlo VIII, re di Francia, nel 1494. A essa seguono le
spedizioni, sempre francesi, di Luigi XII nel 1500 e 1513, e poi di Francesco I
nel 1515.
Nei primi decenni del Cinquecento, l'Italia è ancora uno dei paesi più floridi e
ricchi, punteggiato da città vivaci e da corti che sono altrettanti centri di
cultura, un paese all'avanguardia della vita artistica e, in parte,
anche del sapere. Ma l'intrinseca debolezza, politica e militare, degli stati
regionali lo rende il terreno di scontro delle nuove potenze nazionali e di
quella imperiale, la preda più ambita sullo scacchiere geopolitico europeo.
Nello stesso tempo, l'Italia resterà sostanzialmente esclusa dalle grandi novità
del secolo: la Riforma protestante, lo sviluppo dei commerci atlantici, le
conquiste extracontinentali. Si verrà così a creare una situazione di doppia
marginalità: rispetto ai centri politici decisionali e rispetto ai mutamenti
sociali e culturali europei. La conservazione del primato artistico e culturale
italiano dovrà fare i conti, a partire dalla seconda metà del secolo, con questa
situazione di debolezza.
In questo arco di tempo si compiono importanti trasformazioni all'interno dei
diversi stati regionali. Se Firenze, ritornata medicea nel 1512 dopo un estremo
tentativo di ripristinare le istituzioni repubblicane, riesce a destreggiarsi
nel drammatico panorama politico italiano, riducendo però le sue ambizioni alla
dimensione del piccolo principato, Milano e la Lombardia, centro strategico
della contesa franco spagnola, si trovano al centro di operazioni militari,
saccheggi, lunghe occupazioni di truppe. Conquistata dai francesi nel 1500, e
poi da loro definitivamente perduta nel 1525, Milano si avvia a entrare
nell'orbita periferica del dominio spagnolo, con pesanti contraccolpi sulla vita
economica e culturale locale. Una situazione non dissimile vive
Napoli, governata da vicerè spagnoli a partire dal 1504, che con il governo
spagnolo vede accentuarsi la caratteristica permanenza delle strutture feudali.
Un quadro diverso offrono Venezia e Roma. Venezia, benché umiliata e privata
delle possibilità di espansione in terraferma in seguito alla sconfitta di
Agnadello (1509) a opera delle forze papali, imperiali,
francesi e spagnole, riesce a mantenere un'indipendenza che la differenzierà
dalle altre unità politiche italiane. Roma conosce sviluppi che risulteranno
determinanti dal punto di vista politico e culturale e che plasmeranno in forma
nuova i caratteri anche urbanistici della città. Capitale di uno stato regionale
e insieme centro della cristianità, essa vive un'epoca di mondanizzazione e
nepotismo. Alessandro
VI Borgia (1492 - 1503), Giulio Il della Rovere (1503 - 13), Leone X de' Medici
(1513 - 21) si dedicano a una politica di rafforzamento del prestigio mondano che
comporta spese altissime e alimenta una fase di eccezionale splendore artistico
e intellettuale. La città è il luogo a cui si guarda con sconfinata ammirazione,
è il centro della vita artistica.
Il papato aveva tentato all'inizio del Cinquecento una politica di
potenza utilizzando i suoi modesti domini territoriali, le ingenti ricchezze che
raccoglieva in tutta la cristianità e il suo prestigio culturale e spirituale.
Nel 1512 papa Giulio lI, grazie all'alleanza degli spagnoli, riesce ancora a
eliminare momentaneamente la potenza francese dall'Italia e a estendere i domini pontifici su Parma. Nel 1526
papa Clemente VII (un Medici), vedendo con preoccupazione lo strapotere
asburgico, aderisce alla lega di Cognac guidata dal re di Francia Francesco I.
Ma il papato non è più l'ago della bilancia e la ritorsione di Carlo V è
terribile: l'anno dopo, nel 1527, le truppe del re di Spagna e l'imperatore
Carlo V entrano in Roma e assediano il papa, che si è chiuso in Castel Sant'Angelo.
La città, forse la più ricca e la più sfarzosa dell'Occidente, viene
orribilmente saccheggiata per nove mesi.
Con la pace di Cateau Cambrésis (1559), l'Italia entra infine nella sfera
d'influenza della potenza spagnola che ormai è egemone in Europa.
Anche la Toscana è ormai ridotta a un protettorato spagnolo. Nel 1512 a Firenze
il dominio mediceo era stato restaurato grazie alle armi spagnole. Nel 1527,
all'indomani del sacco di Roma, Firenze si ribella e instaura la repubblica. Il
nuovo regime resiste per tre anni: nel 1530 la restaurazione medicea avviene
ancora sotto il segno delle armi spagnole. Alessandro de' Medici governa
dispoticamente Firenze fino al 1537, quando cade sotto i colpi di un sicario.
Gli succede, ancora con il sostegno di Carlo V, il duca Cosimo I, che si dedica
all'organizzazione di uno stato regionale centralizzato. La sua fedeltà alla
Spagna viene premiata e nel 1555 Siena, fino ad allora indipendente, passa sotto
il dominio mediceo. Cosimo si fa anche mecenate e promotore di istituzioni
culturali: prendono avvio le collezioni artistiche che sono alla base dei musei
degli Uffizi e di Palazzo Pitti, viene sostenuta la crescita della Biblioteca Laurenziana.
Il destino politico di Firenze risulta invidiabile se viene confrontato con
quello di altri stati regionali italiani. Gli stati minori della pianura padana
sono politicamente inesistenti. Per esempio Parma, nel periodo
in cui vi operano Correggio e Parmigianino, è contesa tra francesi, papato e
spagnoli. Nel 1545 infine viene scorporata dai domini pontifici da papa Paolo
III Farnese che ne fa un ducato per la propria famiglia. La sopravvivenza della
dinastia farnesiana viene però garantita solo dal sostegno di Carlo V, che dà in
sposa una sua figlia naturale a Ottavio Farnese. Anche Milano nel corso delle
guerre d'Italia diventa oggetto di contesa, palleggiata tra francesi, svizzeri,
imperiali e spagnoli, con qualche effimera restaurazione sforzesca. Con la pace
di Cateau Cambrésis lo stato di Milano viene sottoposto alla corona di Spagna,
unitamente al Regno di Napoli e alla Sicilia.
Se Milano è in declino, Genova è in ascesa. La città, tradizionalmente alleata
della Francia, nel 1528 è passata con gli spagnoli. A ispirare questo
cambiamento è il condottiero Andrea Doria, che controlla
una delle principali flotte militari del Mediterraneo, ma sono filospagnoli
anche i maggiori uomini d'affari della città. I genovesi nella seconda metà del
Cinquecento diventano banchieri della corona spagnola e nelle loro mani passa
l'enorme flusso di metalli preziosi che dalle colonie americane si riversa
sull'Europa. Questi banchieri, organizzati nel Banco di San Giorgio, sono, anche
legalmente, i padroni della repubblica genovese: sono loro che amministrano le
finanze pubbliche e perfino un vasto territorio come la Corsica. Famiglie come i
Doria, i Grimaldi o gli Spinola sono tra le più ricche d'Europa.
L'unico stato italiano che conserva una vera indipendenza durante le guerre
d'Italia e anche dopo la pace di Cateau Cambrésis è Venezia. Mentre l'asse
geografico europeo si sposta verso l'Atlantico Venezia diventa però una zona di
frontiera, sottoposta alla duplice pressione dei turchi e degli spagnoli. Le sue
navi sono minacciate dai pirati ottomani, ma anche da quelli cristiani,
filospagnoli, organizzati in ordini cavallereschi come quello di Malta e quello
toscano di Santo Stefano. La ricchezza veneziana si basa sempre meno sul
commercio con l'Oriente: le maggiori famiglie della città lagunare acquistano
aziende sulla terraferma, favoriscono le bonifiche, si fanno costruire ville.
Sono gli anni della maturità di Tiziano, dell'affermazione di Veronese e
Tintoretto, ma è anche l'epoca di un architetto come Palladio.
La Riforma protestante
Martin Lutero
Il XVI secolo è anche il periodo in cui si consuma, in Europa, la rottura
dell'unità religiosa del cristianesimo in seguito alla Riforma protestante.
Mentre l'Europa settentrionale aderisce alla Riforma nelle varie confessioni,
luterana, calvinista o anglicana, l'Europa meridionale resta fedele al
cattolicesimo romano. Agli inizi del Cinquecento il cattolicesimo era
l'ideologia dominante e l'elemento unificante di tutti gli strati sociali e di
tutte le tendenze culturali. Nel corso dei secolo tutto il sistema di idee e di
valori entra in crisi.
Le posizioni che Martin Lutero esprime a partire dal 1517 riguardano prima di
tutto la teologia: solo Dio può salvare l'uomo, attraverso la grazia, che
riguarda il rapporto del singolo con Dio; essa non può passare attraverso vie
istituzionali come la Chiesa. Anche l'interpretazione delle Sacre Scritture è
lasciata all'individuo, e per la prima volta masse di persone possono liberamente avvicinarsi a
libri ritenuti fonti di verità assoluta. Qui il discorso di Lutero si fa
politico e mette in discussione l'autorità della Chiesa, la legittimità della
gerarchia ecclesiastica, il primato del papa.
Contro lo scandalo della vendita delle indulgenze Lutero propone un
cristianesimo nuovo, che rende l'individuo responsabile e purifica la religione
dagli aspetti meramente esteriori. Il progetto di Lutero riprendeva temi ed
esigenze di riforma che erano già stati sostenuti, all'interno del mondo
cattolico, da chi aderiva alle correnti evangeliche, all'umanesimo teologico,
alla devotio moderna. Uomini come Adriano di Utrecht, Erasmo da Rotterdam e
Tommaso Moro avevano in mente una riforma della Chiesa imperniata sulla
semplificazione dei vari aspetti della teoria e della pratica religiose. Gli
aderenti all'evangelismo, però, non erano mai giunti a una rottura aperta con la
gerarchia ecclesiastica, anzi ne facevano parte, e in posizioni di assoluto
rilievo. Proprio il distacco tra le posizioni evangeliche, spesso elitarie, e la
massa della popolazione le rendeva inefficaci rispetto alla capacità di
penetrazione delle idee luterane La Riforma fu un processo lungo e tormentato in
cui fattori sociali, politici e militari giocarono non meno di quelli religiosi
e culturali. Al desiderio di ritorno alla purezza originaria del cristianesimo
si associavano infatti le istanze di riscatto sociale dei contadini (le cui
rivolte verranno re'presse nel sangue con l'approvazione di Lutero) e le
aspirazioni nazionalistiche dei principi tedeschi contro Roma e l'impero. Questo
complesso intreccio di tensioni favorì la diffusione del luteranesimo, tra il
1520 e il 1555, in Germania, in Danimarca e nella penisola scandinava. Nello
stesso periodo anche l'Inghilterra si staccò dalla Chiesa di Roma, mentre una
nuova confessione riformata, quella calvinista, si diffuse a partire dal 1540
dalla Svizzera alla Francia, all'Olanda e alla Scozia.
L'Inquisizione
In Italia le esigenze di riforma non arrivano alla creazione di una nuova
Chiesa. Le élites intellettuali sostengono i principi della tolleranza religiosa
e del libero pensiero, finendo così per essere osteggiate sia dalla Chiesa
cattolica sia da quelle riformate. Il protestantesimo popolare nell'italia del
Cinquecento colpisce soprattutto gli aspetti rituali ed esteriori della
religione tradizionale, come la devozione verso i santi rappresentati nei quadri
e nelle statue, considerata idolatrica. I sostenitori della linea
controriformista reclamano una maggiore fermezza da parte della Chiesa romana e
delle sue gerarchie. A vincere, anzi a trionfare, sono i controriformisti. Nel
1540 papa Paolo III Farnese approva la regola della Compagnia di Gesù, un ordine
nato per difendere l'ortodossia cattolica e per diffonderla nel mondo attraverso
l'apostolato, la creazione di missioni e l'istruzione dei giovani. Nel 1542
viene istituita l'inquisizione romana con il compito di impedire le
infiltrazioni protestanti nel mondo cattolico. Fin dalle prime battute del
concilio di Trento (1545) i controriformisti riescono a far passare le loro
tesi. Nel 1559 viene compilato il primo indice dei libri proibiti, ma a questo
punto non si tratta più di una sottile lotta tra teologi: la posta in gioco
ormai è la vita. Siamo in un'epoca di intolleranza e di sospetto: la pena per
l'eretico è il rogo. Per gli evangelici italiani si aprono due vie:
l'emigrazione o il nicodemismo, cioè nascondere le proprie vere convinzioni (dal
personaggio evangelico Nicodemo, un fariseo che andò da Cristo di notte per non
farsi riconoscere dagli ebrei) e aderire esteriormente al rituale cattolico.
XVII Secolo
Nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis concluse il conflitto tra Francia e
Spagna e affidò a quest'ultima il controllo della penisola italiana. Fu la
sanzione del predominio asburgico in Europa. L'Italia si ritrovò nell'orbita del
vincitore, se non altro come trofeo della vittoria. La situazione divenne per
qualche verso favorevole: i banchieri genovesi per esempio assunsero il
controllo delle finanze asburgiche; in generale la penisola poté finalmente
godere di un periodo di pace, sotto una duplice tutela: quella politica della
Spagna e quella religiosa della Chiesa cattolica. Ma era una tranquillità
eccessiva, che confinava col torpore; per l'italia il Seicento fu un secolo
senza politica.
L'impero spagnolo, nonostante le immense ricchezze che poteva trarre dalle
colonie americane, era uno stato debole. Gli Asburgo di Spagna non avevano
saputo unificare amministrativamente neppure i territori iberici. Le spese
militari prosciugavano le finanze statali e obbligavano a una politica fiscale
estremamente vessatoria. Mancava una classe media dotata di capacità
imprenditoriali e la ricchezza si concentrava nelle mani della nobiltà e
dell'alto clero, che la difendevano con privilegi fiscali. Già agli inizi del
Seicento la Spagna era in decadenza e alla metà del secolo la supremazia
politica e militare in Europa passò decisamente alla Francia. L'Italia si trovò
così ai margini di un impero in declino e imparò a conoscerne tutti gli aspetti
peggiori: l'emarginazione economica, il fiscalismo esasperato, la strettissima
vigilanza politica, la spregiudicata difesa dei privilegi nobiliari.
Tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, il vecchio meccanismo dello
sviluppo economico italiano si inceppò definitivamente. La produzione di derrate
agricole non bastò più ad alimentare la crescente popolazione, scoppiarono le
prime carestie, a cui fecero seguito le spaventose epidemie che colpirono nel
1630 l'Italia del nord (la famosa peste manzoniana) e nel 1657 l'Italia del sud.
Molte terre, prima coltivate, vennero allora abbandonate, l'agricoltura
estensiva ebbe la meglio su quella intensiva, la pastorizia crebbe a scapito
delle colture.
Ancora più grave della crisi agraria fu quella dei commerci: l'Italia era ormai
tagliata fuori dalle grandi correnti di traffico che passavano per l'Atlantico.
Si indebolì anche il sistema manifatturiero: le regole delle vecchie
corporazioni, tenute artificialmente in vita dai governanti, erano del tutto
inadeguate alla nuova situazione economica. Le manifatture italiane producevano
in prevalenza oggetti di lusso, utilizzando procedimenti tecnici arretrati.
L'economia italiana, che aveva sempre esportato manufatti, si ridusse così a
esportare materie prime.
Per la verità la crisi demografica ed economica del Seicento colpì tutta
l'Europa: quello che conta però è la diversa capacità di reazione che i vari
stati europei mostrarono. Di fronte alle difficoltà economiche la società
inglese e quella olandese presero l'iniziativa, seppero mobilitarsi, lasciarono
via libera ai nuovi ceti borghesi, crearono nuove forme di governo parlamentare.
Nulla del genere avvenne in Italia: qui la crisi economica portò a un
rafforzamento del ceto nobiliare. I mercanti italiani reagirono alla crisi
abbandonando gli affari e acquistando terra: le aziende agrarie consentivano
loro di realizzare guadagni minori, ma più sicuri. I più ricchi di questi uomini
d'affari finirono per acquistare lo stile di vita e la mentalità della vecchia
aristocrazia e chi tra loro ne aveva la possibilità finì per acquistare un feudo
o un titolo nobiliare. Tutti insieme, vecchi e nuovi nobili, invece di fare
investimenti per migliorare la produttività del l'agricoltura, approfittarono
del loro potere politico per reintrodurre le consuetudini e il sistema
giudiziario feudali.
L'atteggiamento prevalente negli intellettuali italiani di fronte a questa
situazione fu l'adesione, l'accettazione, nel migliore dei casi un senso di
frustrante impotenza. La questione se accettare o no il potere costituito non si
poneva neppure lontanamente ai teorici italiani della politica. Casomai il
problema era se il "savio", ossia l'intellettuale, dovesse occuparsi di
politica. E i meno asserviti dei "savi" propendevano significativamente per il
no: "di viver cauto ben s'accompagna con la purità delI'animo", proclamava il
napoletano Torquato Accetto, autore di un trattato dedicato alla Dissimulazione
onesta. E chi cauto non era rischiava di finire come Giordano Bruno, mandato al
rogo nel 1600; o come Tommaso Campanella che restò in carcere trent'anni; o come
Galileo Galilei che venne ripetutamente inquisito dal Sant'Uffizio.
Il "viver cauto" divise le scienze tra
quelle ad alto rischio, come l'astronomia (che non ebbe più cultori
in Italia); quelle moderatamente pericolose, come la fisica, praticata da molti
allievi di Galilei tra cui Torricelli; e quelle tranquillamente maneggiabili,
come la biologia, che con Malpighi vide un grande sviluppo nel corso
del Seicento.
Di fatto però nel Seicento l'Italia diventò progressivamente un luogo sempre meno
adatto al libero esercizio di un'attività di pensiero.
La maggiore ricchezza della Chiesa, la sua accresciuta determinazione
nell'imporre il credo cattolico si tradussero anche in un incremento della
committenza ecclesiastica. Tra il 1560 e il 1660 la maggior parte delle chiese
italiane venne restaurata, modificata, arricchita di decorazioni, di nuove
quadrerie di nuove cappelle e oratori. Fu uno sforzo economico e artistico senza
precedenti, che toccò tutta la penisola e Roma in particolare.
Fin dal pontificato di Sisto V (1585 - 90), Roma fu trasformata urbanisticamente
ad maíorem Dei et Ecclesiae gloriam: nelle intenzioni dei papi la città doveva
diventare agli occhi di tutti il simbolo magniloquente della cattolicità. Il
mecenatismo di Clemente VII, Paolo V, Gregorio XV e Urbano VIII confermò il ruolo
primario di Roma quale centro di diffusione artistica. Roma diventava ora di gran lunga la maggiore consumatrice e produttrice
d'arte in Italia, non si trattava più di una corte locale, ma del centro
della maggiore organizzazione culturale del mondo; e, infine, la Chiesa non
era più una parte di Roma, essa informava di sé l'intera città. Accanto alla
grandiosa realizzazione della basilica di San Pietro e della sua piazza,
proliferarono iniziative più diffuse e non meno spettacolari: la costruzione di
palazzi, cappelle, la costituzione di raccolte da parte delle grandi famiglie
del l'aristocrazia pontificia.