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De Bello Gallico
Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni
58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo
di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani
di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima
contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i
Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord
scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione
della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni
germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta
anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha
inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri,
popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra
spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione
degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le
pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia
la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo
duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo
sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è
compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono
narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di
Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio
della guerra civile.
(Testo/Traduzione)
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Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
Libro VI
Libro VII
Libro VIII
Libro VII Traduzione
1
Quando la Gallia era tranquilla, Cesare, come aveva stabilito, si reca in Italia
per
tenervi le sessioni giudiziarie. Qui viene a sapere dell'assassinio di P.
Clodio. Poi,
messo al corrente della delibera del senato che chiamava al giuramento in massa
i giovani
dell'Italia, inizia il reclutamento in tutta la provincia. Le notizie vengono
ben presto
riferite in Gallia transalpina. I Galli stessi aggiungono e inventano altri
particolari,
che sembravano adatti alla circostanza: Cesare era trattenuto dai disordini
della capitale
e non poteva certo raggiungere l'esercito mentre erano in corso contrasti così
aspri. I
Galli, già prima, afflitti di sottostare al dominio del popolo romano,
cominciano a
prendere decisioni per la guerra con maggior libertà e audacia, spronati
dall'occasione
favorevole. I capi della Gallia si riuniscono in zone boscose e appartate, si
lamentano
della morte di Accone, spiegano che la stessa sorte poteva toccare anche a loro.
Deplorano
la situazione comune a tutto il paese: promettendo premi d'ogni sorta, chiedono
con
insistenza qualcuno che apra le ostilità e renda libera la Gallia a rischio
della vita.
Innanzi tutto, dicono, si trattava di tagliare a Cesare la strada per l'esercito
prima che
venissero conosciuti i loro piani segreti. Era facile: assente il comandante in
capo, le
legioni non avrebbero osato lasciare gli accampamenti invernali, né Cesare
avrebbe potuto
raggiungerle, senza la scorta dovuta. Infine, era meglio morire sul campo
piuttosto che non
recuperare l'antica gloria militare e la libertà ereditata dagli avi.
2
Dopo tali discorsi, i Carnuti si dichiarano pronti ad affrontare qualsiasi
pericolo per la
salvezza comune e promettono di aprire, primi tra tutti, le ostilità. E siccome
al momento
non potevano scambiarsi ostaggi come reciproca garanzia, per non rendere
manifesti i propri
piani, chiedono di sancire i patti con un giuramento e una promessa, raccolte in
un fascio
tutte le insegne militari, come vuole la cerimonia più solenne secondo i loro
costumi: non
intendevano trovarsi soli, una volta dato inizio al conflitto. Allora tutti i
presenti
lodano i Carnuti e pronunciano il giuramento solenne. Fissano la data della
sollevazione e
sciolgono il concilio.
3
Nel giorno stabilito, i Carnuti, sotto la guida di Cotuato e Conconnetodumno,
uomini pronti
a tutto, al segnale convenuto corrono su Cenabo: massacrano i cittadini romani
che si erano
qui stabiliti per ragioni di commercio e ne saccheggiano i beni. Una delle
vittime fu C.
Fufio Cita, rispettabile cavaliere romano, che per disposizione di Cesare
sovrintendeva ai
rifornimenti di grano. La notizia giunge rapidamente a tutte le genti della
Gallia.
Infatti, quando si verificano eventi di una certa importanza e rilievo, li
comunicano di
campo in campo, di regione in regione con grandi clamori; gli altri, a loro
volta, odono le
grida e le trasmettono ai vicini, come accadde allora. Tant'è vero che
l'episodio, avvenuto
a Cenabo all'alba, era già noto prima delle nove di sera nelle terre degli
Arverni, ovvero
a circa centosessanta miglia di distanza.
4
Allo stesso modo Vercingetorige convoca i suoi clienti e con facilità li
infiamma.
Vercingetorige, arverno, era un giovane di grandissima potenza, figlio di
Celtillo, che
aveva ottenuto il principato su tutta la Gallia e, reo di aspirare al trono, era
stato
ucciso dal suo popolo. Non appena vengono conosciute le intenzioni del giovane,
si corre
alle armi. Gli si oppongono suo zio Gobannizione e gli altri capi, che non erano
dell'avviso di tentare l'impresa: viene cacciato dalla città di Gergovia; ma non
desiste e
assolda, nelle campagne, i poveri e i delinquenti. Raccolto un pugno d'uomini,
guadagna
alla sua causa tutti i concittadini che riesce ad avvicinare, li incita a
prendere le armi
per la libertà comune. Raduna ingenti forze ed espelle dalla città quegli stessi
avversari
che, poco prima, avevano bandito lui. I suoi lo proclamano re. Invia ambascerie
in tutte le
direzioni, esorta alla lealtà. In breve tempo unisce a sé i Senoni, i Parisi, i
Pictoni, i
Cadurci, i Turoni, gli Aulerci, i Lemovici, gli Andi e tutti gli altri popoli
che si
affacciano sull'Oceano. Per consenso generale, gli viene conferito il comando
supremo.
Assunto il potere, esige ostaggi da tutti i popoli suddetti, ordina la rapida
consegna di
un determinato contingente di soldati, stabilisce la quantità di armi che
ciascun popolo,
nei propri territori, doveva fabbricare ed entro quale termine. Si preoccupa in
particolare
della cavalleria. Accompagna lo straordinario zelo con un'assoluta
inflessibilità nel
comando; grazie alla severità dei provvedimenti tiene a freno chi è titubante.
Infatti, per
un delitto piuttosto grave condanna alla morte tra le fiamme e tormenti d'ogni
genere,
mentre per una colpa di minor entità punisce tagliando le orecchie o cavando un
occhio, e
rimanda il reo in patria, che sia di monito, per atterrire gli altri con
l'atrocità delle
pene.
5
Dopo aver ben presto ridotto con tali supplizi l'esercito alla disciplina, alla
testa di
parte delle truppe invia nelle terre dei Ruteni il cadurco Lucterio, uomo di
estrema
audacia; dal canto suo, si dirige nella regione dei Biturigi. Al suo arrivo i
Biturigi
inviano un'ambasceria agli Edui, di cui erano clienti: chiedono aiuti per poter
resistere
con maggior facilità all'attacco nemico. Dietro suggerimento dei legati rimasti
con
l'esercito per ordine di Cesare, gli Edui inviano contingenti di cavalleria e
fanteria in
appoggio ai Biturigi. I rinforzi, quando arrivano alla Loira, fiume che segna il
confine
tra Biturigi ed Edui, sostano pochi giorni e poi rientrano in patria senza aver
osato
varcare il fiume. Ai nostri legati riferiscono di aver ripiegato per timore di
un
tradimento dei Biturigi. Ne avevano, infatti, scoperto il piano: se avessero
attraversato
la Loira, si sarebbero visti accerchiati dai Biturigi stessi da un lato, dagli
Arverni
dall'altro. Avranno deciso così per le ragioni addotte ai legati oppure per loro
tradimento? Non abbiamo alcuna prova, perciò non ci sembra giusto dare nulla per
certo.
Subito dopo l'allontanamento degli Edui, i Biturigi si uniscono agli Arverni.
6
Quando in Italia gli giunse notizia dell'accaduto, Cesare, rendendosi conto che
a Roma le
cose si erano accomodate grazie alla fermezza di Cn. Pompeo, partì per la Gallia
transalpina. Appena arrivato, si trovò in grave difficoltà, perché non sapeva
come
raggiungere l'esercito. Infatti, se avesse richiamato le legioni in provincia,
capiva che
durante la marcia avrebbero dovuto combattere senza di lui; se invece, si fosse
diretto
egli stesso verso l'esercito, sapeva di non poter affidare senza rischi la
propria vita, in
quel frangente, neppure ai popoli che sembravano tranquilli.
7
Nel frattempo, il cadurco Lucterio, inviato tra i Ruteni, li guadagna
all'alleanza con gli
Arverni. Procede nelle terre dei Nitiobrogi e dei Gabali, riceve ostaggi da
entrambi i
popoli e, raccolte ingenti truppe, tenta un'incursione in provincia, verso
Narbona. Appena
ne è informato, Cesare ritenne di dover subordinare qualsiasi piano alla
partenza per
Narbona. Una volta giunto, rassicura chi nutre timori, colloca guarnigioni nelle
terre dei
Ruteni provinciali, dei Volci Arecomici, dei Tolosati e tutt'intorno a Narbona,
ossia nelle
zone di confine col nemico. Ordina che parte delle truppe della provincia,
insieme ai
rinforzi da lui stesso condotti dall'Italia, si concentrino nella regione degli
Elvi,
popolo limitrofo agli Arverni.
8
Dopo aver approntato tutto ciò (mentre ormai Lucterio era stato fermato e
arretrava, perché
riteneva pericoloso inoltrarsi nelle zone presidiate), Cesare si dirige nelle
terre degli
Elvi. Le Cevenne, monti che segnano il confine tra Arverni ed Elvi, ostacolavano
il
cammino, la stagione era la più inclemente, la neve molto alta; tuttavia, spalò
la neve per
una profondità di sei piedi, si aprì un varco grazie all'enorme sforzo dei
soldati e
raggiunse i territori degli Arverni. Piombò inatteso sui nemici, che si
ritenevano protetti
dalle Cevenne come da un muro: mai, neppure un uomo isolato, in quella stagione
era
riuscito a praticarne i sentieri. Ordina ai cavalieri di effettuare scorrerie
nel raggio
più ampio e di seminare il panico tra i nemici quanto più potevano. La voce e le
notizie,
ben presto, giungono a Vercingetorige: tutti gli Arverni, spaventati, lo
attorniano e lo
scongiurano di pensare alla loro sorte, di impedire ai Romani le razzie, tanto
più ora che
vedeva tutto il peso della guerra ricadere su di loro. Sotto la pressione delle
preghiere,
sposta il campo dalle terre dei Biturigi in direzione degli Arverni.
9
Ma Cesare si trattiene nella regione degli Arverni due giorni: prevista la mossa
di
Vercingetorige, si allontana col pretesto di raccogliere rinforzi e cavalleria.
Affida il
comando al giovane Bruto e lo incarica di compiere in ogni direzione scorrerie
con la
cavalleria, il più lontano possibile: dal canto suo, avrebbe fatto di tutto per
rimaner
lontano dal campo non più di tre giorni. Impartite tali disposizioni, contro le
attese dei
suoi si reca a Vienna, forzando al massimo le tappe. Sfrutta la cavalleria
fresca lì
inviata molti giorni prima e, senza mai interrompere la marcia né di giorno, né
di notte,
attraversa il territorio degli Edui verso i Lingoni, dove svernavano due
legioni: così, se
gli Edui gli avessero teso qualche insidia, li avrebbe prevenuti con la rapidità
del suo
passaggio. Appena giunto, invia messi alle altre legioni e le raccoglie tutte in
un solo
luogo, prima che gli Arverni potessero sapere del suo arrivo. Quando ne è
informato,
Vercingetorige riconduce l'esercito nei territori dei Biturigi e, da qui,
raggiunge e
comincia a stringere d'assedio Gorgobina, una città dei Boi, popolo che Cesare
aveva qui
stanziato sotto la tutela degli Edui dopo averlo sconfitto nella guerra contro
gli Elvezi.
10
La mossa di Vercingetorige metteva in grave difficoltà Cesare, incerto sul da
farsi: se per
il resto dell'inverno avesse tenuto le legioni concentrate in un solo luogo,
temeva che la
caduta di un popolo vassallo degli Edui potesse causare una defezione generale
della
Gallia, visto che lui non rappresentava una garanzia di difesa per gli alleati;
d'altronde,
se avesse mobilitato l'esercito troppo presto, lo preoccupava
l'approvvigionamento di grano
per i disagi del trasporto. Gli sembrò meglio, tuttavia, affrontare qualsiasi
difficoltà
piuttosto che subire un'onta così grave e alienarsi l'animo di tutti i suoi.
Perciò, incita
gli Edui a occuparsi del trasporto dei viveri e invia messaggeri ai Boi per
informarli del
suo arrivo ed esortarli a mantenere i patti e a reggere con grande coraggio
all'assalto
nemico. Lascia ad Agedinco due legioni con le salmerie di tutto l'esercito e
parte alla
volta dei Boi.
11
Due giorni dopo, giunse a Vellaunoduno, città dei Senoni- Non volendo lasciarsi
nemici alle
spalle per facilitare i rifornimenti, cominciò l'assedio e in due giorni costruì
tutt'attorno un vallo. Il terzo giorno la città gli invia emissari per offrire
la resa,
Cesare esige la consegna delle armi, dei giumenti e di seicento ostaggi. Lascia
il legato
C. Trebonio a sbrigare la faccenda e punta subito su Cenabo, città dei Carnuti,
per coprire
al più presto la distanza. Pervenuta soltanto allora notizia dell'assedio di
Vellaunoduno,
i Carnuti pensavano che le cose sarebbero andate per le lunghe e preparavano una
guarnigione da inviare a Cenabo. Qui Cesare giunge in due giorni. Pone il campo
dinnanzi
alla città, ma è costretto a rimandare l'attacco all'indomani, vista l'ora
tarda. Comanda
ai soldati di approntare il necessario per l'assedio e dà ordine a due legioni
di vegliare
in armi, temendo una fuga di notte dalla città, in quanto un ponte sulla Loira
collegava
Cenabo con la sponda opposta. Poco prima di mezzanotte i Cenabensi uscirono in
silenzio
dalla città e cominciarono ad attraversare il fiume. Appena ne è informato dagli
esploratori, Cesare invia le due legioni che, per suo ordine, si tenevano pronte
all'intervento; dà fuoco alle porte, irrompe in città e la prende: ben pochi
sfuggono alla
cattura, perché il ponte e le strade, stretti com'erano, avevano ostacolato la
fuga del
grosso dei nemici. Saccheggia e incendia la città, dona ai soldati il bottino,
varca con
l'esercito la Loira e perviene nei territori dei Biturigi.
12
Vercingetorige, non appena è messo al corrente dell'arrivo di Cesare, toglie
l'assedio e
gli si fa incontro. Cesare aveva intrapreso il blocco di una città dei Biturigi,
Novioduno,
posta lungo la sua strada. Dalla città gli erano stati inviati emissari per
scongiurarne il
perdono, la grazia. Al fine di condurre a termine il resto delle operazioni con
la rapidità
che gli aveva fruttato la maggior parte dei successi, impone la consegna di
armi, cavalli e
ostaggi. Una parte degli ostaggi era già stata inviata, al resto si stava
provvedendo; in
città si erano addentrati alcuni centurioni con pochi legionari, per raccogliere
le armi e
i giumenti. Ma ecco che in lontananza si scorge la cavalleria nemica, che
precedeva
l'esercito di Vercingetorige. Non appena gli abitanti la videro e nacque in loro
la
speranza di rinforzi, tra alte grida cominciarono a impugnare le armi, a
chiudere le porte,
a riversarsi sulle mura. I centurioni presenti in città, essendosi resi conto,
dal loro
comportamento, che i Galli avevano preso qualche nuova decisione, sguainate le
spade,
assunsero il controllo delle porte e condussero tutti i loro in salvo.
13
Cesare ordina alla cavalleria di scendere in campo e attacca battaglia; poiché i
suoi erano
in difficoltà, invia in loro appoggio circa quattrocento cavalieri germani, che
fin
dall'inizio della guerra era solito portare con sé. I Galli non riuscirono a
resistere
all'attacco e volsero le spalle: si rifugiarono presso il loro esercito in
marcia, ma
subirono gravi perdite. Di fronte alla rotta della loro cavalleria, gli abitanti
della
città, presi nuovamente dal panico, catturarono i presunti responsabili
dell'istigazione
del popolo e li consegnarono a Cesare, arrendendosi. Sistemata la questione,
Cesare si
diresse ad Avarico, la più importante e munita città dei Biturigi, posta nella
regione più
fertile: era convinto che, presa Avarico, avrebbe ridotto in suo potere i
Biturigi.
14
Vercingetorige, dopo tanti, continui rovesci, subiti a Vellaunoduno, Cenabo e
Novioduno,
convoca i suoi a concilio. Occorreva adottare, spiega, una strategia ben diversa
rispetto
al passato. Bisognava sforzarsi, con ogni mezzo, di impedire ai Romani la
raccolta di
foraggio e viveri. Era facile: avevano una cavalleria molto numerosa e la
stagione giocava
in loro favore. I Romani non avevano la possibilità di trovare foraggio nei
campi, dovevano
dividersi e cercarlo casa per casa: tutte queste truppe, di giorno in giorno, le
poteva
annientare la cavalleria. Poi, per la salvezza comune, era necessario trascurare
i beni
privati; occorreva incendiare villaggi e case in ogni direzione, dove sembrava
che i Romani
si sarebbero recati in cerca di foraggio. Le loro scorte, invece, erano
sufficienti, perché
sarebbero stati riforniti dal popolo nelle cui terre si fosse combattuto. I
Romani o non
avrebbero potuto far fronte alla mancanza di viveri o si sarebbero allontanati
troppo
dall'accampamento, esponendosi a grossi rischi. E non faceva alcuna differenza
tra
ucciderli o privarli delle salmerie, perché senza di esse non si poteva condurre
una
guerra. Inoltre, bisognava incendiare le città che, per fortificazioni o
conformazione
naturale, non erano del tutto sicure, in modo da non offrire ai disertori galli
un rifugio
e ai Romani l'opportunità di trovare viveri o far bottino. Se tali misure
sembravano dure o
severe, dovevano pensare quanto più dura sarebbe stata la schiavitù per i figli
e le mogli
e la morte per loro stessi, destino dei vinti.
15
Il parere di Vercingetorige riscuote il consenso generale: in un solo giorno
vengono date
alle fiamme più di venti città dei Biturigi. Lo stesso avviene nei territori
degli altri
popoli: ovunque si scorgono incendi. Anche se tutti provavano grande dolore per
tali
provvedimenti, tuttavia si consolavano nella convinzione di avere la vittoria
pressoché in
pugno e di poter recuperare a breve termine i beni perduti. Nell'assemblea
comune si
delibera su Avarico, se incendiarla o difenderla. I Biturigi si gettano ai piedi
di tutti i
capi galli, li pregano di non costringerli a incendiare, di propria mano, la più
bella o
quasi tra le città di tutta la Gallia, presidio e vanto del loro popolo.
Sostengono che si
sarebbero difesi con facilità grazie alla conformazione naturale della zona: la
città,
circondata su quasi tutti i lati da un fiume e da una palude, aveva un unico
accesso, molto
angusto. La loro richiesta viene accolta: Vercingetorige, in un primo momento
contrario,
aveva poi acconsentito, sia per le loro preghiere, sia per la compassione che
tutti
provavano. Si scelgono per la città i difensori adatti.
16
Vercingetorige segue Cesare a piccole tappe e sceglie per l'accampamento un
luogo munito da
paludi e selve, a sedici miglia da Avarico. Lì, mediante una rete stabile di
esploratori,
ora per ora si teneva al corrente delle novità di Avarico e diramava gli ordini.
Sorvegliava tutti i nostri spostamenti: quando i legionari si disunivano,
dovendo per forza
di cose allontanarsi in cerca di foraggio e grano, li assaliva procurando loro
gravi
perdite, sebbene i nostri, per quanto si poteva provvedere, adottassero ogni
misura per
muoversi a intervalli irregolari e seguire vie diverse.
17
Cesare pose l'accampamento nei pressi della zona che, libera dal fiume e dalle
paludi,
lasciava uno stretto passaggio, come abbiamo in precedenza illustrato. Cominciò
a costruire
il terrapieno, a spingere in avanti le vinee, a fabbricare due torri; la natura
del luogo,
infatti, impediva di circondare la città con un vallo. Quanto
all'approvvigionamento di
grano, non cessò di raccomandarsi ai Boi e agli Edui: quest'ultimi, che agivano
senza zelo
alcuno, non risultavano di grande aiuto; i primi, invece, non disponendo di
grandi mezzi,
perché erano un popolo piccolo e debole, esaurirono in breve tempo le proprie
scorte. Una
totale penuria di viveri, dovuta alla povertà dei Boi, alla negligenza degli
Edui e agli
incendi degli edifici, attanagliò l'esercito a tal punto, che per parecchi
giorni i nostri
soldati rimasero senza grano e placarono i morsi della fame grazie ai capi di
bestiame
tratti dai villaggi più lontani. Tuttavia, non si udì da parte loro nessuna
parola indegna
della maestà del popolo romano e delle loro precedenti vittorie. Anzi, quando
Cesare
interpellò ciascuna legione durante i lavori e disse che avrebbe tolto
l'assedio, se la
mancanza di viveri risultava troppo dura, tutti, nessuno eccetto, lo
scongiurarono di non
farlo: sotto il suo comando, in tanti anni, non avevano patito affronti, né si
erano
ritirati senza portare a termine un'impresa; l'avrebbero considerata una
vergogna
interrompere l'assedio in corso; era meglio sopportare privazioni d'ogni sorta
piuttosto
che rinunciare alla vendetta dei cittadini romani massacrati a Cenabo dalla
slealtà dei
Galli. Simili considerazioni vennero espresse ai centurioni e ai tribuni
militari, perché
le riferissero a Cesare.
18
Quando già accostavano le torri alle mura, Cesare venne a sapere dai prigionieri
che
Vercingetorige, terminato il foraggio, aveva spostato il campo e si era
avvicinato ad
Avarico: alla testa della cavalleria e della fanteria leggera, abituata a
combattere tra i
cavalieri, si era diretto dove riteneva che il giorno seguente i nostri si
sarebbero recati
in cerca di foraggio e si apprestava a un'imboscata. Saputo ciò, a mezzanotte
Cesare parte
in silenzio e giunge al campo nemico la mattina successiva. I Galli,
immediatamente
informati dell'arrivo di Cesare dagli esploratori, nascosero i carri e le
salmerie nel
folto dei boschi, poi dispiegarono tutte le truppe in una zona elevata e aperta.
Appena lo
venne a sapere, Cesare ordinò di radunare in fretta i bagagli e di preparare le
armi.
19
Il colle si alzava dal basso in dolce pendio. Lo cingeva su quasi tutti i lati
una palude
difficile da superare e impraticabile, non più larga di cinquanta piedi. I
Galli, tagliati
i ponti, si tenevano sul colle, confidando nella loro posizione. Divisi per
popoli,
presidiavano tutti i guadi e i passaggi della palude, pronti a premere dall'alto
i Romani
impantanati, se avessero tentato di varcarla. Così, chi avesse notato solo la
vicinanza dei
due eserciti, avrebbe ritenuto i nemici risoluti allo scontro a condizioni
uguali o quasi,
ma chi avesse considerato la disparità delle posizioni, avrebbe capito che il
loro farsi
ostentatamente vedere era una vana simulazione. I legionari, irritati che il
nemico
riuscisse a reggere alla loro vista così da vicino, chiedono il segnale
d'attacco, ma
Cesare spiega quante perdite, quanti uomini valorosi ci sarebbe inevitabilmente
costata la
vittoria; vedendoli così pronti ad affrontare qualsiasi pericolo per la sua
gloria, avrebbe
dovuto essere tacciato di estrema ingiustizia, se non avesse tenuto alla loro
vita più che
alla propria. Così, dopo aver confortato i soldati, quel giorno stesso li
riconduce
all'accampamento e inizia a impartire le rimanenti disposizioni per l'assedio
della città.
20
Appena ritorna tra i suoi, Vercingetorige viene accusato di tradimento: aveva
spostato il
campo troppo vicino ai Romani, si era allontanato con tutta la cavalleria, aveva
lasciato
truppe così numerose senza un capo, alla sua partenza erano piombati tanto
tempestivi e
rapidi i Romani - tutto ciò non poteva essersi verificato per caso o senza un
piano
prestabilito, la verità era che preferiva regnare sulla Gallia per concessione
di Cesare
piuttosto che per beneficio loro. A tali accuse così Vercingetorige risponde: se
aveva
mosso il campo, dipendeva dalla mancanza di foraggio, e loro stessi lo avevano
sollecitato;
si era sì avvicinato troppo ai Romani, ma lo aveva indotto la posizione
vantaggiosa, che da
sola permetteva la difesa senza bisogno di fortificazioni; non si doveva, poi,
rimpiangere
l'apporto della cavalleria nelle paludi, quando era stata utile là dove l'aveva
condotta.
Quanto al comando, alla sua partenza non l'aveva lasciato a nessuno
deliberatamente, per
evitare che il capo designato fosse indotto dall'ardore della moltitudine allo
scontro, che
tutti desideravano - lo vedeva - per la debolezza del carattere e perché
incapaci di
sopportare più a lungo le fatiche della guerra. Se i Romani erano intervenuti
guidati dal
caso, bisognava ringraziare la Fortuna, se erano stati richiamati dalle
informazioni di un
delatore, si doveva essere grati a costui, perché così, dall'alto, i Galli
avevano potuto
constatare quanto fossero pochi e codardi i Romani, che non avevano osato
misurarsi e si
erano vergognosamente ritirati nell'accampamento. Non aveva affatto bisogno di
ricevere da
Cesare, con il tradimento, il comando che poteva ottenere con la vittoria, ormai
nelle mani
sue e di tutti i Galli. Anzi, era disposto a deporre la carica, se pensavano di
avergli
concesso un potere troppo grande rispetto alla salvezza che da lui ricevevano.
"E perché
comprendiate la sincerità delle mie parole - esclamò - ascoltate i soldati
romani".
Introduce alcuni servi catturati pochi giorni prima mentre erano in cerca di
foraggio e
torturati con la fame e le catene. I servi, già istruiti in precedenza su cosa
dovevano
rispondere, si dichiarano legionari: erano usciti di nascosto dal campo, spinti
dalla fame
e dalla mancanza di viveri, nella speranza di trovare nelle campagne un po' di
grano o del
bestiame; tutto l'esercito versava nelle stesse condizioni di precarietà,
nessuno aveva più
forze, ormai, né poteva reggere alla fatica dei lavori; perciò, il comandante
aveva deciso
che, se l'assedio non sortiva effetto, dopo tre giorni avrebbe ritirato
l'esercito.
Vercingetorige aggiunge: "Ecco i benefici che io vi ho procurato, e voi mi
accusate di
tradimento. Grazie a me, senza versare una goccia di sangue, ora vedete
annientato dalla
fame un esercito forte e vittorioso. E quando si ritirerà vergognosamente in
fuga, ho già
provveduto in modo che nessun popolo lo accolga nelle proprie terre".
21
Tutta la moltitudine acclama e, secondo il loro costume, fa risonare le armi,
come di
solito fanno quando approvano il discorso di qualcuno: Vercingetorige era il
capo supremo,
non si doveva dubitare della sua lealtà, né era possibile condurre le operazioni
con una
strategia migliore. Decidono di inviare in città diecimila uomini scelti tra
tutte le
truppe, ritenendo inopportuno delegare ai soli Biturigi la lotta per la salvezza
comune:
capivano che loro sarebbe stata la vittoria finale, se la città non cadeva.
22
Allo straordinario valore dei nostri soldati, i Galli opponevano espedienti
d'ogni sorta:
sono una razza molto ingegnosa, abilissima nell'imitare e riprodurre qualsiasi
cosa abbiano
appreso da chiunque. Infatti, dalle mura rimuovevano le falci per mezzo di lacci
e, quando
le avevano ben serrate nei loro nodi. le tiravano all'interno mediante argani.
Provocavano
frane nel terrapieno scavando cunicoli, con tanta maggior abilità, in quanto
nelle loro
regioni ci sono molte miniere di ferro, per cui conoscono e usano ogni tipo di
cunicolo.
Poi, lungo tutto il perimetro di cinta avevano innalzato torri e le avevano
protette con
pelli. Inoltre, di giorno e di notte operavano frequenti sortite, nel tentativo
di
appiccare il fuoco al terrapieno o di assalire i nostri impegnati nei lavori. E
quanto più
le nostre torri ogni giorno salivano grazie al terrapieno, tanto più i Galli
alzavano le
loro con l'aggiunta di travi. Infine, utilizzando pali dalla punta acutissima e
indurita al
fuoco, pece bollente e massi enormi, bloccavano i cunicoli aperti dai nostri e
ci
impedivano di accostarci alle mura.
23
Le mura dei Galli sono tutte costruite all'incirca così: pongono a terra, su
tutta la
lunghezza della cinta, travi ad essa perpendicolari, a un intervallo regolare di
due piedi.
Ne collegano le estremità all'interno e le ricoprono con molta terra. I suddetti
spazi tra
l'una e l'altra trave, li chiudono all'esterno con grosse pietre. Una volta
inserite e ben
connesse le prime travi, sopra ne aggiungono un'altra serie, facendo in modo che
mantengano
la stessa distanza e non si tocchino, ma che ciascuna, a pari intervallo, poggi
sulle
pietre frapposte e risulti saldamente unita. Così, di seguito, tutta l'opera
viene
costruita fino all'altezza voluta. Le mura, per forma e varietà, non hanno un
aspetto
sgradevole, con quest'alternanza di travi e massi che conservano paralleli i
propri ordini;
al tempo stesso risultano molto utili ed efficaci per la difesa delle città,
perché la
pietra le preserva dagli incendi, il legno le difende dall'ariete, che non può
spezzare o
sconnettere le travi, unite in modo continuo all'interno per una lunghezza di
quaranta
piedi in genere.
24
Tutto ciò rendeva difficile l'assedio, ma i nostri, pur frenati continuamente
dal freddo e
dalle piogge incessanti, lavorarono senza sosta: superato ogni ostacolo, in
venticinque
giorni costruirono un terrapieno lungo trecentotrenta piedi e alto ottanta.
L'opera
raggiungeva quasi le mura nemiche; Cesare, come suo solito, vegliava sul luogo
dei lavori e
incitava i soldati a non fermarsi neppure per un istante. Ma ecco che poco prima
di
mezzanotte si vide uscire del fumo dal terrapieno: i nemici gli avevano dato
fuoco da un
cunicolo. Mentre da tutte le mura si levavano alte grida, i Galli
contemporaneamente
tentarono una sortita dalle due porte ai lati delle torri. Altri, dall'alto
della cinta,
lanciavano sul terrapieno fiaccole e legna secca, cospargendole di pece e di
altre sostanze
infiammabili: era ben difficile decidere dove dirigersi, dove recar aiuto.
Tuttavia, per
abitudine di Cesare, due legioni stavano sempre all'erta di fronte
all'accampamento, mentre
parecchie, a turno, continuavano i lavori. Così, rapidamente accadde che parte
dei nostri
tenesse testa ai nemici usciti dalla città, parte ritraesse le torri e scindesse
il
terrapieno, mentre il grosso dell'esercito presente al campo accorreva per
estinguere
l'incendio.
25
Si combatteva in ogni settore, quando era trascorsa ormai la parte restante
della notte.
Nei nemici, man mano, si rafforzava la speranza di vittoria, tanto più che
vedevano i
plutei delle torri distrutti dal fuoco e intuivano le difficoltà dei nostri, che
dovevano
uscire allo scoperto per portar soccorso. Forze fresche nemiche, via via, davano
il cambio
a chi era stanco, ed erano convinti che tutte le sorti della Gallia dipendessero
da quel
frangente. Allora, sotto i nostri occhi, accadde un fatto degno di ricordo, che
crediamo di
non dover tacere. Davanti a una porta della città, un Gallo scagliava in
direzione di una
torre palle di sego e pece passate di mano in mano: trafitto al fianco destro
dal dardo di
uno scorpione, cadde senza vita. Uno dei più vicini scavalcò il compagno morto e
ne prese
il posto. Quando anch'egli, allo stesso modo, cadde colpito dallo scorpione, gli
subentrò
un terzo, e al terzo un quarto. I difensori non abbandonarono quella posizione
fino a che,
estinto l'incendio sul terrapieno e respinto il loro attacco in tutto quel
settore, la
battaglia non ebbe termine.
26
I Galli le provarono tutte, ma senza successo: il giorno seguente decisero di
evacuare la
città, su consiglio e ordine di Vercingetorige. Speravano che la manovra non
costasse loro
gravi perdite, se tentata nel silenzio della notte: il campo di Vercingetorige,
infatti,
non era lontano dalla città, e una palude, che si frapponeva interminabile,
ritardava
l'inseguimento dei Romani. Già si apprestavano di notte alla ritirata, quando
all'improvviso le madri di famiglia scesero nelle strade, si gettarono in
lacrime ai piedi
dei loro e li scongiurarono con preghiere d'ogni sorta di non abbandonare alla
ferocia
nemica loro stesse e i figli comuni, che non potevano fuggire, deboli com'erano
per il
sesso o l'età. Quando videro che gli uomini non recedevano dalla decisione - in
caso di
pericolo estremo, in genere, il timore non lascia spazio alla compassione -
cominciarono a
gridare e a segnalare ai Romani la fuga. I Galli, preoccupati che la cavalleria
romana li
prevenisse e occupasse le strade, rinunciarono al loro proposito.
27
Il giorno successivo, quando Cesare aveva già spinto in avanti una torre e
raddrizzato il
terrapieno che aveva cominciato a costruire, si abbatté un violento acquazzone.
Cesare la
considerò una circostanza favorevole per risolversi ad attaccare, poiché vedeva
le
sentinelle nemiche disposte sulle mura con minor cautela. Così, ai suoi diede
ordine di
rallentare leggermente i lavori e mostrò loro che cosa dovevano fare. Di
nascosto preparò
le legioni al di qua delle vinee, le esortò a raccogliere una buona volta, dopo
tante
fatiche, il frutto della vittoria, promise ricompense per i primi che avessero
scalato le
mura e diede il segnale ai soldati. I nostri si lanciarono repentinamente
all'attacco da
tutti i lati e in breve si riversarono sulle mura.
28
I nemici, atterriti dall'attacco improvviso, furono scacciati dalle mura e dalle
torri. Si
attestarono nel foro e nelle zone più aperte, disponendosi a cuneo, decisi ad
affrontare in
uno scontro regolare i nostri, se fossero venuti avanti. Quando videro che
nessuno scendeva
in campo aperto (anzi, i nostri li circondavano lungo tutto il muro di cinta),
temendo di
perdere ogni via di scampo, gettarono le armi e si slanciarono verso le parti
estreme della
città, senza mai fermarsi. Qui, chi si accalcava per via delle porte strette,
venne ucciso
dai legionari; gli altri, già usciti, furono massacrati dai cavalieri. Ma
nessuno dei
nostri pensò al bottino. Aizzati dalla strage di Cenabo e dalla fatica
dell'assedio, non
risparmiarono né i vecchi, né le donne, né i bambini. Insomma, del numero totale
dei
nemici, circa quarantamila, appena ottocento, che ai primi clamori fuggirono
dalla città,
raggiunsero salvi Vercingetorige. Costui li accolse a notte fonda, in silenzio,
perché
temeva che il loro arrivo al campo e la compassione della folla provocassero una
sedizione.
Dispose lontano, lungo la via, i compagni d'arme e i principi dei vari popoli,
con
l'incarico di smistarli e di condurli dai loro, nelle zone del campo assegnate a
ciascuna
gente fin dall'inizio.
29
L'indomani, convocata l'assemblea, li consola ed esorta a non perdersi affatto
d'animo, a
non lasciarsi turbare dalla sconfitta. I Romani non avevano vinto né col valore,
né in
campo aperto, ma solo grazie a una certa loro abilità e perizia nell'arte
dell'assedio, di
cui i Galli erano inesperti. Era in errore chi in guerra si aspettava solo
successi. Non
era mai stato fautore della difesa di Avarico, loro stessi ne erano testimoni.
L'imprudenza
dei Biturigi e l'eccessiva compiacenza degli altri avevano portato alla
sconfitta.
Tuttavia, vi avrebbe posto rimedio ben presto, con successi più importanti.
Infatti,
sarebbe stata sua cura guadagnare alla causa i popoli che dissentivano dagli
altri Galli e
formare un consiglio unico di tutto il paese, alla cui unità d'intenti non
avrebbe potuto
resistere neppure il mondo intero. Ed era ormai cosa fatta. Ma per la salvezza
comune era
giusto, intanto, che si decidessero a fortificare il campo, per resistere con
maggior
facilità ai repentini attacchi dei nemici.
30
Il discorso non riuscì sgradito ai Galli, soprattutto perché Vercingetorige non
si era
abbattuto dopo un rovescio così grave, non si era rintanato, né sottratto alla
vista della
gente. Si pensava che sapesse prevedere e presentire nell'animo più degli altri,
perché,
quando le cose non erano ancora compromesse, aveva prima consigliato di
incendiare Avarico,
poi di evacuarla. E come gli insuccessi indeboliscono il prestigio degli altri
comandanti,
così al contrario, dopo la sconfitta, la dignità di Vercingetorige cresceva di
giorno in
giorno. Al contempo, si sperava nella sua garanzia circa l'alleanza con gli
altri popoli.
Allora, per la prima volta, i Galli cominciarono a fortificare l'accampamento:
uomini non
avvezzi alle fatiche, si erano convinti a tal punto, da credere di dover
ubbidire a
qualsiasi ordine.
31
E non meno di quanto avesse garantito, Vercingetorige rivolgeva ogni suo
pensiero a come
unire a sé i rimanenti popoli e ne allettava i capi con doni e promesse.
Sceglieva persone
adatte allo scopo, ciascuna capace di guadagnarli alla causa con la massima
facilità, o
grazie alla sottile eloquenza o per ragioni d'amicizia. Rifornisce di armi e
vestiti i
reduci di Avarico. Al tempo stesso, per ricompletare i ranghi dopo le perdite
subite, esige
dai vari popoli un determinato contingente di soldati, ne fissa l'entità e la
data di
consegna. Ordina il reclutamento e l'invio di tutti gli arcieri, numerosissimi
in Gallia.
Con tali misure, in breve rimedia alle perdite di Avarico. Nel frattempo, il re
dei
Nitiobrogi, Teutomato, figlio di Ollovicone, che aveva ricevuto dal nostro
senato il titolo
di amico, raggiunge Vercingetorige con una forte cavalleria e truppe assoldate
in
Aquitania.
32
Cesare si trattenne diversi giorni ad Avarico: vi trovò grano e viveri in
abbondanza e
lasciò che l'esercito si riprendesse dalla fatica e dalle privazioni. L'inverno
era ormai
quasi finito, la stagione stessa invitava alle operazioni militari: Cesare aveva
già deciso
di puntare sul nemico, nel tentativo di stanarlo dalle paludi e dalle selve
oppure di
stringerlo d'assedio. Ma ecco che, in veste di ambasciatori, i principi degli
Edui gli si
presentano e lo pregano di soccorrere il loro popolo nell'ora più grave. La
situazione era
assai critica: mentre la consuetudine, fin dai tempi antichi, voleva che un
unico
magistrato fosse eletto e rivestisse la potestà regale per un anno, adesso due
persone
ricoprivano tale carica e ciascuno sosteneva che la propria nomina era conforme
alle leggi.
L'uno era Convictolitave, giovane ricco e nobile, l'altro Coto, persona di
antichissima
stirpe, lui pure assai potente, che vantava molti legami di parentela, il cui
fratello,
Valeziaco, aveva rivestito la stessa magistratura l'anno precedente. Tutti gli
Edui avevano
impugnato le armi, diviso era il senato, diviso il popolo, come pure i clienti
dei due
rivali. Se il contrasto si fosse protratto, si arrivava alla guerra civile.
Impedirlo
dipendeva dallo zelo e dal prestigio di Cesare.
33
Cesare, sebbene stimasse dannoso rinviare lo scontro e allontanarsi dal nemico,
ritenne
tuttavia necessario dar la precedenza alla questione edua, ben conscio di quanti
danni
siano soliti derivare da tali dissensi: non voleva che un popolo tanto
importante e così
legato a Roma, da lui stesso sempre favorito e fregiato di ogni onore, giungesse
alla
guerra civile e che il partito che si sentiva meno forte chiedesse aiuto a
Vercingetorige.
Poiché le leggi edue non permettevano al magistrato in carica di lasciare il
paese, Cesare
decise di recarsi di persona nelle loro terre, per evitare l'impressione che
intendesse
calpestarne il diritto o le leggi. Convocò a Decezia il senato al completo e i
due
responsabili della controversia. Lì si raccolsero pressoché tutti i notabili
edui e gli
notificarono che Coto era stato nominato da suo fratello nel corso di un
concilio segreto.
con pochi partecipanti, al di fuori dei luoghi e dei tempi dovuti, mentre le
leggi
prescrivevano che nessuno poteva essere eletto magistrato e neppure ammesso in
senato, se
un membro della sua famiglia aveva ricoperto la carica ed era ancora in vita.
Allora Cesare
costrinse Coto a deporre il comando e ordinò che assumesse il potere
Convictolitave, che
era stato designato dai sacerdoti secondo le usanze edue, quando la magistratura
era
vacante.
34
Dopo tale decreto, esortò gli Edui a dimenticare contrasti e dissensi e a
lasciare tutto da
parte, li invitò a occuparsi della guerra in corso e ad attendersi i premi che
si fossero
meritati, una volta piegata la Gallia. Chiese il rapido invio di tutta la
cavalleria e di
diecimila fanti, che avrebbe disposto a difesa delle provviste di grano. Divise
in due
contingenti l'esercito: quattro legioni le affidò a Labieno per condurle nelle
terre dei
Senoni e dei Parisi, sei le guidò personalmente nella regione degli Arverni,
verso
Gergovia, seguendo il corso dell'Allier. Parte della cavalleria la concesse a
Labieno,
parte la tenne con sé. Appena lo seppe, Vercingetorige distrusse tutti i ponti e
cominciò a
marciare sulla sponda opposta.
35
I due eserciti rimanevano l'uno al cospetto dell'altro, ponevano i campi quasi
dirimpetto.
La sorveglianza degli esploratori nemici impediva ai Romani di costruire in
qualche luogo
un ponte per varcare il fiume. Cesare correva il rischio di rimanere bloccato
dal fiume per
la maggior parte dell'estate, in quanto l'Allier non consente con facilità il
guado prima
dell'autunno. Così, per evitare tale evenienza, pose il campo in una zona
boscosa, dinnanzi
a uno dei ponti distrutti da Vercingetorige; il giorno seguente si tenne
nascosto con due
legioni. Le altre truppe, con tutte le salmerie, ripresero il cammino secondo il
solito, ma
alcune coorti vennero frazionate perché sembrasse inalterato il numero delle
legioni. Ad
esse comandò di protrarre la marcia il più possibile: a tarda ora, supponendo
che le
legioni si fossero accampate, intraprese la ricostruzione del ponte, utilizzando
gli stessi
piloni rimasti intatti nella parte inferiore. L'opera venne rapidamente
realizzata e le
legioni furono condotte sull'altra sponda. Scelse una zona adatta
all'accampamento e
richiamò le rimanenti truppe. Vercingetorige, informato dell'accaduto, per non
trovarsi
costretto a dar battaglia contro la sua volontà, le precedette e si allontanò a
marce
forzate.
36
Da lì Cesare raggiunse Gergovia in cinque tappe. Quel giorno stesso, dopo una
scaramuccia
di cavalleria, studiò la posizione della città, che si ergeva su un monte
altissimo ed era
di difficile accesso. Disperando di poterla prendere d'assalto, decise di non
stringerla
d'assedio prima di aver pensato alle scorte di grano. Vercingetorige, invece,
aveva
stabilito il campo nei pressi della città sul fianco del monte, disponendo
tutt'attorno, a
breve intervallo, le truppe dei vari popoli, distinte. Aveva occupato, per
quanto si poteva
vedere, tutte le cime del monte e offriva uno spettacolo raccapricciante. I capi
delle
varie genti, da lui scelti come consiglieri, avevano il compito di presentarsi
quotidianamente, all'alba, per eventuali comunicazioni o consegne. E non
lasciava passare
giorno, o quasi, senza attaccar battaglia con la cavalleria e gli arcieri in
mezzo a essa,
per misurare il coraggio e il valore di ciascuno dei suoi. Di fronte alla città,
proprio ai
piedi del monte, sorgeva un colle ben munito, con tutti i lati a strapiombo. Se
i nostri
l'avessero preso, avrebbero sottratto ai nemici, così almeno sembrava, la
maggior parte
delle fonti d'acqua e la possibilità di foraggiarsi liberamente. Ma il colle era
tenuto da
una salda guarnigione nemica. Tuttavia, Cesare uscì dal campo nel silenzio della
notte e,
prima che dalla città potessero giungere rinforzi, mise in fuga il presidio
nemico e occupò
il colle. Vi alloggiò due legioni e scavò una coppia di fosse parallele, larghe
dodici
piedi, che collegavano l'accampamento maggiore con il minore: così, anche
singoli uomini
avrebbero potuto spostarsi dall'uno all'altro al sicuro da improvvisi attacchi
nemici.
37
Mentre a Gergovia le cose andavano così, l'eduo Convictolitave, al quale Cesare
- l'abbiamo
detto - aveva assegnato la magistratura, si lascia corrompere dal denaro degli
Arverni e si
accorda con alcuni giovani, capeggiati da Litavicco e dai suoi fratelli,
rampolli di stirpe
assai nobile. Divide con loro la somma ricevuta e li esorta a ricordarsi che
sono uomini
liberi, nati per il comando. Gli Edui erano gli unici a ritardare l'indubbia
vittoria della
Gallia; la loro autorità frenava le altre genti; ma se avessero cambiato
partito, i Romani
non avrebbero più avuto modo di rimanere in Gallia. Cesare, è vero, gli aveva
reso un
grande beneficio, ma non aveva fatto altro che riconoscere l'assoluta
legittimità delle sue
ragioni. Del resto, la libertà comune era per lui più importante. Perché mai gli
Edui, per
il loro diritto e le loro leggi, dovevano ricorrere al giudizio di Cesare, e non
piuttosto
i Romani alla sentenza degli Edui? I giovani vengono ben presto catturati dalle
parole del
magistrato e dal denaro: pur dichiarandosi addirittura pronti a prendere
l'iniziativa,
cercavano un piano d'azione, perché erano sicuri di non poter indurre gli Edui
alla guerra
senza un motivo. Si decise di porre Litavicco a capo dei diecimila uomini da
inviare a
Cesare, con l'incarico di guidarli; i suoi fratelli avrebbero raggiunto Cesare
prima di
lui. Mettono a punto il piano in tutti gli altri particolari.
38
Litavicco assume il comando dell'esercito. A un tratto, a circa trenta miglia da
Gergovia,
convoca i suoi: "Dove andiamo, soldati?" dice tra le lacrime. "Tutti i nostri
cavalieri,
tutti i nobili sono caduti. I capi, Eporedorige e Viridomaro, accusati di
tradimento dai
Romani, sono stati messi a morte senza neppure un processo. Ma sentitelo da
costoro, che
sono scampati al massacro: i miei fratelli e tutti i miei parenti sono morti, il
dolore mi
impedisce di narrarvi l'accaduto". Si fanno avanti alcune persone già istruite
su cosa
dire. Ripetono alla massa dei soldati gli stessi discorsi di Litavicco: i
cavalieri edui
erano stati trucidati, li si accusava di una presunta complicità con gli
Arverni; loro si
erano nascosti nel folto del gruppo e avevano preso la fuga proprio nel bel
mezzo della
strage. Gli Edui levano alte grida, supplicano Litavicco di prendersi cura di
loro. "C'è
forse bisogno di decidere?" risponde. "Non dobbiamo forse dirigerci a Gergovia e
unirci
agli Averni? Oppure dubitiamo che i Romani, dopo il loro empio crimine, esitino
a gettarsi
su di noi e a massacrarci? Perciò, se ancora in noi è rimasto del coraggio,
vendichiamo la
morte dei nostri, trucidati nel modo più indegno, uccidiamo questi ladroni", e
indica
alcuni cittadini romani che, fidando nella sua protezione. erano al suo seguito.
Saccheggia
frumento e viveri in quantità, uccide i cittadini romani tra crudeli tormenti.
Invia messi
in tutta la regione edua, solleva il popolo sempre con la falsa notizia della
strage dei
cavalieri e dei principi. Esorta a seguire il suo esempio e a vendicare le
ingiurie.
39
Su specifica richiesta di Cesare, si erano uniti alla cavalleria l'eduo
Eporedorige,
giovane di alto lignaggio e di grande potenza tra i suoi, e Viridomaro,
altrettanto giovane
e influente, ma di diversi natali, che Cesare, dietro suggerimento di Diviziaco,
aveva
innalzato alle cariche più alte nonostante le sue umili origini. I due lottavano
per il
primato tra gli Edui, e durante la recente controversia per la magistratura si
erano
battuti con ogni mezzo l'uno per Convictolitave, l'altro per Coto. Eporedorige,
quando
scopre il piano di Litavicco, lo riferisce a Cesare verso mezzanotte. Lo
supplica di non
permettere agli Edui di venir meno all'alleanza con il popolo romano per colpa
dei perfidi
piani di alcuni giovani, lo prega di tener conto delle conseguenze, se tante
migliaia di
uomini si fossero unite ai nemici: la loro sorte non avrebbe lasciato
indifferenti i loro
cari, né il popolo poteva stimarla cosa di poco conto.
40
La notizia desta viva preoccupazione in Cesare, perché aveva sempre nutrito una
benevolenza
particolare nei confronti degli Edui. Senza alcun indugio guida fuori
dall'accampamento
quattro legioni prive di bagagli e la cavalleria al completo. In quel frangente
non si ebbe
il tempo di restringere il campo: l'esito dell'azione sembrava dipendere dalla
rapidità. A
presidio dell'accampamento lascia il legato C. Fabio con due legioni. Ordina di
imprigionare i fratelli di Litavicco, ma viene a sapere che poco prima erano
fuggiti presso
i nemici. Esorta i soldati a non sgomentarsi, in un momento così critico, per le
fatiche
della marcia: tra il fervore generale avanza di venticinque miglia e avvista la
schiera
degli Edui. Manda in avanti la cavalleria e rallenta la loro avanzata, ma dà
ordine
tassativo di non uccidere nessuno. A Eporedorige e Viridomaro, che gli Edui
credevano
morti, comanda di rimanere tra i cavalieri e di chiamare i loro. Appena
riconoscono i capi
e comprendono l'inganno di Litavicco, gli Edui cominciano a tendere le mani in
segno di
resa, a gettare le armi, a implorare la grazia. Litavicco con i suoi clienti -
secondo i
costumi dei Galli non è lecito abbandonare i patroni neppure nei momenti più
gravi - ripara
a Gergovia.
41
Agli Edui Cesare invia messi per spiegare che per suo beneficio risparmiava i
loro, mentre
avrebbe potuto farne strage secondo il diritto di guerra. Di notte concede
all'esercito tre
ore di riposo, poi muove il campo verso Gergovia. Quando aveva percorso circa
metà del
cammino, i cavalieri inviati da C. Fabio gli espongono quali pericoli abbia
corso il campo.
I nemici - illustrano - l'avevano attaccato in forze: truppe fresche davano
continuamente
il cambio a chi era stanco, i nostri erano spossati dalla fatica che non
conosceva pause,
perché le dimensioni dell'accampamento li costringevano a rimanere sempre sul
vallo. Molti
erano stati colpiti dai nugoli di frecce e proiettili d'ogni tipo scagliati dai
nemici; per
resistere all'attacco, erano state di grande utilità le macchine da lancio.
Quando il
nemico si era allontanato, Fabio aveva barricato tutte le porte tranne due e
aggiunto
plutei al vallo, preparandosi a un identico assalto per il giorno successivo.
Conosciuta la
situazione, Cesare, grazie allo straordinario impegno dei soldati, raggiunge
l'accampamento
prima dell'alba.
42
Mentre a Gergovia tale era la situazione, gli Edui, alle prime notizie di
Litavicco, non
perdono neppure un istante a sincerarsene. Chi spinto dall'avidità, chi
dall'iracondia e
dall'avventatezza - è la loro caratteristica congenita - tutti danno per sicura
una voce
priva di fondamento. Saccheggiano i beni dei cittadini romani, ne fanno strage,
li rendono
schiavi. Convictolitave dà l'ultima spinta a una situazione già in bilico, aizza
la folla,
perché, una volta commesso il crimine, la vergogna le impedisca di ritornare
alla ragione.
M. Aristio, tribuno militare, era in marcia verso la legione: gli promettono via
libera e
lo lasciano uscire dalla città di Cavillono. Con lui costringono alla partenza
anche chi si
era lì stabilito per commercio. Appena i nostri si mettono in marcia, però, li
assalgono e
li spogliano di tutti i bagagli. I nostri si difendono, vengono assediati giorno
e notte.
Quando le perdite erano già molte da entrambe le parti, i Galli chiamano alle
armi una
folla più numerosa.
43
Nel frattempo, giunge notizia che tutte le truppe edue sono sotto l'autorità di
Cesare:
corrono da Aristio, gli spiegano che l'accaduto non dipendeva certo da una
delibera
ufficiale. Aprono un'inchiesta sul saccheggio, confiscano i beni di Litavicco e
dei suoi
fratelli, inviano una legazione a Cesare per discolparsi. Si comportano così nel
tentativo
di recuperare le proprie truppe, ma, macchiati dalla colpa commessa e trattenuti
dai
guadagni del saccheggio - molti ne erano coinvolti - e anche per timore di una
punizione,
assumono segretamente iniziative per riprendere la guerra e sobillano gli altri
popoli
mediante ambascerie. Anche se lo intuiva, Cesare tuttavia si rivolge agli
emissari edui con
le parole più miti possibili: per via dell'incoscienza e della leggerezza del
popolo non
voleva pronunciare una condanna troppo dura nei confronti degli Edui, né
intendeva
diminuire la sua benevolenza verso di loro. Cesare, in effetti, si aspettava una
più grave
sollevazione della Gallia e, per non trovarsi circondato da tutti i popoli,
stava valutando
come lasciare Gergovia e riunire nuovamente l'esercito, ma cercava di evitare
che il suo
ripiegamento, dettato dal timore di una defezione, sembrasse una fuga.
44
Mentre era immerso in tali pensieri, gli parve presentarsi un'occasione
favorevole.
Infatti, quando giunse al campo minore per ispezionare i lavori, notò che un
colle, prima
in mano nemica, era adesso sguarnito, mentre nei giorni precedenti lo si poteva
appena
scorgere, tanti erano i soldati che lo presidiavano. La cosa lo colpì e ne
chiese
spiegazione ai disertori, che ogni giorno arrivavano al nostro campo in gran
numero. Da
tutti risultava che, come Cesare già sapeva dagli esploratori, il dorso del
colle era quasi
in piano, ma stretto e pieno di vegetazione nella parte che conduceva dall'altro
lato della
città. I Galli nutrivano forti apprensioni per questo punto e sapevano bene che
si
sarebbero visti praticamente circondati, con ogni via d'uscita preclusa e i
foraggiamenti
tagliati, se i Romani, già padroni di un colle, avessero preso anche
quest'altro. Quindi
Vercingetorige aveva chiamato tutti a munire la zona.
45
Saputo ciò, Cesare verso mezzanotte invia sul luogo vari squadroni di
cavalleria. Comanda
di compiere scorrerie dappertutto, producendo un po' più rumore del solito.
All'alba fa
uscire dal campo un gran numero di bagagli e muli, ai mulattieri ordina di
togliere il
basto ai loro animali e di mettersi l'elmo: fingendosi cavalieri, avrebbero
dovuto aggirare
il colle. Invia con essi pochi cavalieri veri, che avevano l'incarico di
spingersi più
lontano a scopo di simulazione. A tutti, poi, dà istruzione di convergere su un
unico punto
dopo un lungo giro. Le nostre manovre venivano scorte dalla città, perché da
Gergovia la
vista dava proprio sul nostro accampamento, ma a tale distanza non era possibile
comprendere che cosa stesse accadendo con esattezza. Invia una legione verso il
colle e,
dopo un certo tratto, la ferma ai piedi del rialzo e la tiene nascosta tra la
vegetazione.
I sospetti dei Galli aumentano, mandano tutte le truppe ai lavori di
fortificazione.
Cesare, appena vede il campo nemico sguarnito, guida i soldati dal campo
maggiore al
minore, a piccoli gruppi, ordinando di non applicare i fregi e di tener nascoste
le
insegne, per non essere scorti dalla città. Ai legati preposti alle varie
legioni spiega
come dovevano agire: primo, li ammonisce a tenere a freno i soldati, che non si
allontanassero troppo per desiderio di lotta o speranza di bottino; illustra gli
svantaggi
della posizione; li si poteva eludere solo con la rapidità; si trattava di un
colpo di
mano, non di una battaglia. Detto ciò, dà il segnale e, al contempo, ordina agli
Edui di
sferrare l'attacco da un altro lato, sulla destra.
46
Le mura della città distavano dalla pianura e dall'inizio della salita
milleduecento passi
in linea retta, se non ci fosse stata di mezzo nessuna tortuosità. E tutte le
curve che si
aggiungevano per attenuare la salita, aumentavano la distanza. Sul colle, a
mezza altezza,
i Galli avevano costruito in senso longitudinale un muro di grosse pietre, alto
sei piedi,
che assecondava la natura del monte e aveva lo scopo di frenare l'assalto dei
nostri. Tutta
la zona sottostante era stata evacuata, mentre nella parte superiore, fin sotto
le mura
della città, i Galli avevano posto fittissime le tende del loro campo. Al
segnale i
legionari raggiungono rapidamente il muro, lo superano e conquistano tre
accampamenti.
L'azione fu così rapida, che Teutomato, re dei Nitiobrogi, sorpreso ancora nella
tenda
durante il riposo pomeridiano, a stento riuscì a sfuggire ai nostri in cerca di
bottino,
mezzo nudo, dopo che anche il suo cavallo era stato colpito.
47
Raggiunto lo scopo prefisso, Cesare ordinò di suonare la ritirata, si fermò e
tenne
l'arringa alla decima legione, che era al suo seguito. I soldati delle altre
legioni,
invece, pur non avendo udito il suono della tromba, perché si frapponeva una
valle
abbastanza estesa, erano comunque trattenuti dai tribuni militari e dai legati,
secondo gli
ordini di Cesare. Trascinati, però, dalla speranza di una rapida vittoria, dalla
fuga dei
nemici e dai successi precedenti, pensarono che non vi fosse impresa impossibile
per il
loro valore. Così, non cessarono l'inseguimento finché non ebbero raggiunto le
mura e le
porte della città. A quel punto, da tutte le zone della città si levano alti
clamori: i
Galli che si erano spinti più lontano, atterriti dal tumulto improvviso,
pensando che il
nemico fosse entro le porte, si lanciarono fuori dalla città. Dalle mura le
madri di
famiglia gettavano vesti e oggetti d'argento, a petto nudo si sporgevano e con
le mani
protese scongiuravano i Romani di risparmiarle, di non massacrare donne e
bambini, come
invece era accaduto ad Avarico. Alcune, calate giù dalle altre a forza di
braccia, si
consegnavano ai nostri soldati. Quel giorno stesso, a quanto constava, L. Fabio,
centurione
dell'ottava legione, aveva detto ai suoi che lo riempiva d'ardore il bottino di
Avarico e
che non avrebbe tollerato che un altro scalasse le mura prima di lui. Infatti,
con l'aiuto
di tre soldati del suo manipolo salì sulle mura; poi lì afferrò per mano uno a
uno e, a sua
volta li sollevò.
48
Nel frattempo, i nemici confluiti nella parte opposta della città per i lavori
di
fortificazione, come abbiamo illustrato, ai primi clamori e alle insistenti
notizie che
volevano la città caduta, lanciano in avanti la cavalleria e accorrono in massa.
Ciascuno
di loro, come arrivava, si piazzava ai piedi delle mura e infoltiva la schiera
dei suoi.
Quando si era radunato un gruppo consistente, le madri di famiglia, che dalle
mura poco
prima tendevano le mani verso i nostri, cominciarono a scongiurare i loro, a
sciogliersi i
capelli secondo l'uso gallico, a mostrare i figli. I Romani non combattevano a
parità di
condizioni, né per posizione, né per numero. Inoltre, stanchi per la corsa e la
durata
dello scontro, reggevano con difficoltà agli avversari freschi e riposati.
49
Cesare si rese conto che la posizione era svantaggiosa e che le truppe nemiche
continuavano
ad aumentare. Allora, in apprensione per i suoi, inviò al legato T. Sestio,
rimasto a
presidio del campo minore, l'ordine di far uscire rapidamente le sue coorti e di
schierarle
sul fianco destro del nemico, ai piedi del colle: se i nostri venivano respinti,
doveva
atterrire il nemico per rendergli difficile l'inseguimento. Rispetto al luogo in
cui si era
fermato, Cesare aveva guidato la legione leggermente più avanti e attendeva
l'esito della
battaglia.
50
Si combatteva corpo a corpo, con asprezza: i nemici confidavano nella posizione
e nel
numero, i Romani nel valore. All'improvviso comparvero sul nostro fianco
scoperto gli Edui,
inviati da Cesare sulla destra per dividere le truppe nemiche. Al loro arrivo,
la
somiglianza delle armi galliche seminò il panico tra i nostri, che avevano sì
visto il
braccio destro scoperto, segno convenzionale di riconoscimento, ma pensavano che
si
trattasse di una mossa nemica per ingannarli. Al tempo stesso, il centurione L.
Fabio e i
soldati che avevano scalato con lui la cinta, circondati e uccisi, vengono
precipitati
dalle mura. M. Petronio, centurione della stessa legione, mentre tentava di
abbattere le
porte, fu sopraffatto da una massa di nemici. Ferito a più riprese, senza ormai
speranza di
salvezza, gridò ai soldati del suo manipolo, che lo avevano seguito: "Non posso
salvarmi
insieme a voi, ma voglio almeno preoccuparmi della vostra vita, io che vi ho
messo in
pericolo per sete di gloria. Ne avete la possibilità, pensate a voi stessi". E
subito si
lanciò all'attacco nel folto dei nemici, ne uccise due e allontanò alquanto gli
altri dalla
porta. Ai suoi che cercavano di corrergli in aiuto, disse: "Tentate invano di
soccorrermi,
perdo troppo sangue e mi mancano le forze. Perciò fuggite, finché ne avete modo,
raggiungete la legione". Poco dopo cadde, con le armi in pugno, ma fu la
salvezza dei suoi.
51
I nostri, pressati da ogni lato, vennero respinti e persero quarantasei
centurioni. Ma i
Galli che si erano lanciati all'inseguimento con troppa foga, li frenò la decima
legione,
che era schierata di rincalzo in una zona un po' più pianeggiante. A sua volta,
la decima
ricevette sostegno dalle coorti della tredicesima, che aveva lasciato il campo
minore con
il legato T. Sestio e si era attestata su un rialzo. Le legioni, non appena
raggiunsero la
pianura, volsero le insegne contro il nemico e presero posizione. Vercingetorige
chiamò
entro le fortificazioni i suoi, che si erano spinti fino ai piedi del colle.
Quel giorno le
nostre perdite sfiorarono i settecento uomini.
52
L'indomani Cesare ordinò l'adunata e rimproverò l'avventatezza e la smania dei
soldati: da
soli avevano giudicato fin dove si doveva avanzare o come bisognava agire, non
si erano
fermati al segnale di ritirata, né i tribuni militari, né i legati erano
riusciti a
trattenerli. Spiegò quale peso avesse un luogo svantaggioso e quali erano state
le sue
considerazioni ad Avarico, quando, pur avendo sorpreso i nemici privi di
comandante e di
cavalleria, aveva rinunciato a una vittoria sicura per evitare anche il minimo
danno nello
scontro, e tutto perché la posizione era sfavorevole. E quanto ammirava il loro
coraggio -
né le fortificazioni dell'accampamento, né l'altezza dei monte, né le mura della
città
erano valsi a frenarli - tanto biasimava la loro insubordinazione e arroganza,
perché
credevano di saper valutare circa la vittoria e l'esito dello scontro meglio del
comandante. Da un soldato esigeva modestia e disciplina non meno che valore e
coraggio.
53
Tenuto questo discorso, nella parte finale rinfrancò i soldati: non dovevano
turbarsi
nell'animo per la sconfitta, né ascrivere al valore nemico ciò che dipendeva
solo dagli
svantaggi del campo di battaglia. E benché pensasse alla partenza, già prima
considerata
opportuna, guidò fuori dal campo le legioni e le schierò in un luogo adatto.
Vercingetorige, non di meno, continuava a tenersi all'interno delle
fortificazioni e non
scendeva in pianura. Allora Cesare, dopo una scaramuccia tra le cavallerie, in
cui riportò
la meglio, ricondusse l'esercito all'accampamento. Il giorno seguente si ripeté
la stessa
cosa. Cesare, convinto di aver fatto quanto bastava per sminuire la baldanza dei
Galli e
rinfrancare il morale dei nostri soldati, mosse il campo verso il territorio
degli Edui.
Neppure allora i nemici si mossero all'inseguimento. Il terzo giorno ricostruì i
ponti
sull'Allier e condusse l'esercito sull'altra sponda.
54
Qui, gli edui Viridomaro ed Eporedorige gli chiedono un colloquio e lo mettono
al corrente
che Litavicco era partito con tutta la cavalleria alla volta degli Edui per
istigarli alla
rivolta: occorreva che loro stessi lo precedessero e rientrassero in patria per
tenere a
bada il popolo. Cesare aveva già ricevuto molte prove della perfidia degli Edui
e pensava
che la loro partenza avrebbe accelerato lo scoppio dell'insurrezione, tuttavia
decise di
non trattenerli, per non dare l'idea di voler recare offese o di nutrire timori.
Prima
della partenza, ai due illustrò i suoi meriti nei confronti degli Edui: chi
erano, quanto
erano deboli quando li aveva accolti sotto la sua protezione, costretti a
barricarsi nelle
città, con i campi confiscati, privi di tutte le truppe, costretti a pagare un
tributo e a
consegnare ostaggi, offesa gravissima; per contro, ricordò loro a quale
prosperità e
potenza li aveva poi condotti, non solo fino a recuperare il precedente stato,
ma a
raggiungere un grado di dignità e prestigio mai conosciuti in passato. Con tale
incarico li
congedò.
55
Novioduno era una città degli Edui sulle rive della Loira, in posizione
favorevole. Qui
Cesare aveva raccolto tutti gli ostaggi della Gallia, il grano, il denaro
pubblico, gran
parte dei bagagli suoi e dell'esercito, qui aveva inviato molti cavalli
acquistati in
Italia e in Spagna per la guerra in corso. Eporedorige e Viridomaro, non appena
arrivarono
a Novioduno e seppero come andavano le cose tra gli Edui (avevano accolto
Litavicco a
Bibracte, la loro città più importante; il magistrato Convictolitave e la
maggior parte del
senato lo aveva raggiunto; a titolo ufficiale erano stati inviati emissari a
Vercingetorige
per trattare pace e alleanza), ritennero di non doversi lasciar sfuggire
un'occasione
simile. Perciò, eliminarono la guarnigione di Novioduno e i commercianti che lì
risiedevano, si spartirono il denaro e i cavalli. Condussero a Bibracte, dal
magistrato,
gli ostaggi dei vari popoli e, giudicando di non poterla difendere, incendiarono
la città,
per impedire ai Romani di servirsene. Tutto il grano che lì per lì riuscirono a
caricare
sulle navi, lo trasportarono via, il resto lo gettarono in acqua o lo
bruciarono.
Intrapresero la raccolta di truppe dalle regioni limitrofe, disposero presidi e
guarnigioni
lungo la Loira, mentre la loro cavalleria compariva in ogni zona per incutere
timore, nella
speranza di tagliare ai Romani l'approvvigionamento di grano oppure di
costringerli al
ripiegamento in provincia, dopo averli condotti allo stremo. Ad alimentare le
loro speranze
contribuiva molto la Loira in piena per le nevi, al punto che sembrava proprio
impossibile
guadarla.
56
Appena ne fu informato, Cesare ritenne di dover accelerare i tempi: se proprio
doveva
correre il rischio di costruire ponti, voleva combattere prima che si
radunassero lì truppe
nemiche più consistenti. Infatti, nessuno giudicava inevitabile modificare i
piani e
ripiegare verso la provincia, neppure in quel frangente: oltre all'onta e alla
vergogna, lo
impedivano i monti Cevenne e le strade impraticabili, che sbarravano il cammino;
ma,
soprattutto, Cesare nutriva grande apprensione per Labieno lontano e le legioni
al suo
seguito. Perciò, forzando al massimo le tappe e marciando di giorno e di notte,
giunge alla
Loira contro ogni aspettativa. I cavalieri trovano un guado adatto, almeno per
quanto le
circostanze permettevano: restavano fuori dall'acqua solo le braccia e le spalle
per tenere
sollevate le armi. Dispone la cavalleria in modo da frangere l'impeto della
corrente e
guida sano e salvo l'esercito sull'altra sponda, col nemico atterrito alla
nostra vista.
Nelle campagne trova grano e una grande quantità di bestiame, con cui rifornisce
in
abbondanza l'esercito. Dopo comincia la marcia sui Senoni.
57
Mentre Cesare prendeva tali iniziative, Labieno lascia ad Agedinco, a presidio
delle
salmerie, i rinforzi recentemente giunti dall'Italia e punta su Lutezia con
quattro
legioni- Lutezia è una città dei Parisi che sorge su un'isola della Senna.
Quando i nemici
vengono a sapere del suo arrivo, raccolgono numerose truppe inviate dai popoli
limitrofi.
Il comando supremo viene conferito all'aulerco Camulogeno, persona ormai
piuttosto anziana,
chiamata a rivestire tale carica per la sua straordinaria perizia in campo
militare.
Camulogeno, avendo notato una palude interminabile, che alimentava la Senna e
rendeva poco
praticabile tutta la zona, vi si stabilì e si apprestò a sbarrare la strada ai
nostri.
58
Labieno prima tentò di spingere in avanti le vinee, di riempire la palude con
fascine e
zolle e di costruirsi un passaggio. Quando capi che l'operazione era troppo
difficile, dopo
mezzanotte uscì in silenzio dall'accampamento e raggiunse Metlosedo per la
stessa strada da
cui era venuto. Metlosedo è una città dei Senoni che sorge su un'isola della
Senna, come
Lutezia, di cui si è detto. Cattura circa cinquanta navi, le collega rapidamente
e imbarca
i soldati. Gli abitanti (i pochi rimasti, perché la maggior parte era lontana in
guerra)
rimangono atterriti dall'evento improvviso: Labieno prende la città senza
neppure
combattere. Ricostruisce il ponte distrutto dai nemici nei giorni precedenti,
guida
l'esercito sull'altra sponda e punta su Lutezia, seguendo il corso del fiume. I
nemici,
avvertiti dai fuggiaschi di Metlosedo, ordinano di incendiare Lutezia e di
distruggere i
ponti della città. Abbandonano la palude e si attestano lungo le rive della
Senna, davanti
a Lutezia, proprio di fronte a Labieno.
59
Era già corsa voce della partenza di Cesare da Gergovia e giungevano notizie
sulla
defezione degli Edui e sui successi dell'insurrezione; nei loro abboccamenti, i
Galli
confermavano che Cesare si era trovato la strada sbarrata dalla Loira e che
aveva ripiegato
verso la provincia, costretto dalla mancanza di grano. I Bellovaci, poi, che già
in passato
di per sé non si erano dimostrati alleati fedeli, alla notizia della defezione
degli Edui
avevano cominciato la raccolta di truppe e scoperti preparativi di guerra.
Allora Labieno,
di fronte a un tale mutamento della situazione, capiva di dover prendere
decisioni ben
diverse dai suoi piani e non mirava più a riportare successi o a provocare il
nemico a
battaglia, ma solo a ricondurre incolume l'esercito ad Agedinco. Infatti, su un
fronte
incombevano i Bellovaci, che in Gallia godono fama di straordinario valore,
sull'altro
c'era Camulogeno con l'esercito pronto e schierato. Inoltre, un fiume imponente
separava le
legioni dal presidio e dalle salmerie. Con tante, improvvise difficoltà, vedeva
che era
necessario far ricorso a un atto di coraggio.
60
Verso sera convoca il consiglio di guerra e incita a eseguire gli ordini con
scrupolo e
impegno. Ciascuna delle navi portate da Metlosedo viene affidata a un cavaliere
romano. Li
incarica di discendere in silenzio, dopo le nove di sera, il fiume per quattro
miglia e di
attendere lì il suo arrivo. Lascia a presidio dell'accampamento le cinque coorti
che
riteneva meno valide per il combattimento. Alle altre cinque della stessa
legione comanda
di partire con tutti i bagagli dopo mezzanotte e di risalire il corso del fiume
con molto
baccano. Si procura anche zattere: spinte a forza di remi con grande frastuono,
le invia
nella stessa direzione. Dal canto suo, poco dopo lascia in silenzio il campo
alla testa di
tre legioni e raggiunge il punto dove le navi dovevano approdare.
61
Appena giungono, i nostri sopraffanno gli esploratori nemici - ce n'erano lungo
tutto il
fiume - cogliendoli alla sprovvista per lo scoppio di un violento temporale.
Sotto la guida
dei cavalieri romani preposti alle operazioni, l'esercito e la cavalleria
passano
velocemente sull'altra riva. Quasi nello stesso istante, verso l'alba, i nemici
vengono
informati che un tumulto insolito regnava nel campo romano e che una schiera
numerosa
risaliva il fiume, mentre nella stessa direzione si udivano colpi di remi e, un
po' più in
basso, altri soldati trasbordavano su nave. A tale notizia, i nemici si
convincono che le
legioni stavano varcando il fiume in tre punti e si apprestavano alla fuga,
sconvolte dalla
defezione degli Edui. Allora anch'essi suddivisero in tre reparti le truppe.
Lasciarono un
presidio proprio di fronte all'accampamento e inviarono verso Metlosedo un
piccolo
contingente, che doveva avanzare a misura di quanto procedevano le navi. Poi,
guidarono il
resto dell'esercito contro Labieno.
62
All'alba tutti i nostri avevano ormai varcato il fiume ed erano in vista della
schiera
nemica. Labieno esorta i soldati a ricordarsi dell'antico valore e delle loro
grandissime
vittorie, a far conto che fosse presente Cesare in persona, sotto la cui guida
tante volte
avevano battuto il nemico. Quindi, dà il segnale d'attacco. Al primo assalto,
all'ala
destra, dove era schierata la settima legione, il nemico viene respinto e
costretto alla
fuga; sulla sinistra, settore presidiato dalla dodicesima legione, le prime file
dei Galli
erano cadute sotto i colpi dei giavellotti, ma gli altri resistevano con estrema
tenacia e
nessuno dava segni di fuga. Il comandante nemico stesso, Camulogeno, stava al
fianco dei
suoi e li incoraggiava. E l'esito dello scontro era ancora incerto, quando ai
tribuni
militari della settima legione venne riferito come andavano le cose all'ala
sinistra: la
legione comparve alle spalle del nemico e si lanciò all'attacco. Nessuno dei
Galli, neppure
allora, abbandonò il proprio posto, ma tutti vennero circondati e uccisi. La
stessa sorte
toccò a Camulogeno. I soldati nemici rimasti come presidio di fronte al campo di
Labieno,
non appena seppero che si stava combattendo, mossero in aiuto dei loro e si
attestarono su
un colle, ma non riuscirono a resistere all'assalto dei nostri vittoriosi. Così,
si unirono
agli altri in fuga: chi non trovò riparo nelle selve o sui monti, venne
massacrato dalla
nostra cavalleria. Portata a termine l'impresa, Labieno rientra ad Agedinco,
dove erano
rimaste le salmerie di tutto l'esercito. Da qui, con tutte le truppe raggiunge
Cesare.
63
Quando si viene a sapere della defezione degli Edui, la guerra divampa ancor
più. Si
inviano ambascerie ovunque: ogni risorsa a loro disposizione, che fosse il
prestigio,
l'autorità o il denaro, la impiegano per sollevare gli altri popoli. Sfruttano
gli ostaggi
lasciati da Cesare in loro custodia, minacciano di metterli a morte e, così,
spaventano chi
ancora esita. Gli Edui chiedono a Vercingetorige di raggiungerli per concertare
una
strategia comune. Ottenuto ciò, pretendono il comando supremo. La cosa sfocia in
una
controversia, viene indetto un concilio di tutta la Gallia a Bibracte. Arrivano
da ogni
regione, in gran numero. La questione è messa ai voti. Tutti, nessuno escluso,
approvano
Vercingetorige come capo. Al concilio non parteciparono i Remi, i Lingoni, i
Treveri: i
primi due perché rimanevano fedeli all'alleanza con Roma; i Treveri perché erano
troppo
distanti e pressati dai Germani, motivo per cui non parteciparono mai alle
operazioni di
questa guerra e non inviarono aiuti a nessuno dei due contendenti. Per gli Edui
è un duro
colpo la perdita del primato, lamentano il cambiamento di sorte e rimpiangono
l'indulgenza
di Cesare nei loro confronti. Ma la guerra era ormai iniziata, ed essi non osano
separarsi
dagli altri. Loro malgrado, Eporedorige e Viridomaro, giovani molto ambiziosi,
obbediscono
a Vercingetorige.
64
Vercingetorige impone ostaggi agli altri popoli e ne fissa la data di consegna.
Ordina che
tutti i cavalieri, in numero di quindicimila, lì si radunino rapidamente. Quanto
alla
fanteria, diceva, si sarebbe accontentato delle truppe che aveva già prima. Non
avrebbe
tentato la sorte o combattuto in campo aperto; aveva una grande cavalleria, era
assai
facile impedire ai Romani l'approvvigionamento di grano e foraggio; bastava che
i Galli si
rassegnassero a distruggere le proprie scorte e a incendiare le case: la perdita
dei beni
privati, lo vedevano anch'essi, significava autonomia e libertà perpetue. Dopo
aver così
deciso, agli Edui e ai Segusiavi, che confinano con la provincia, impone l'invio
di
diecimila fanti. Vi aggiunge ottocento cavalieri. Ne affida il comando al
fratello di
Eporedorige e gli ordina di attaccare gli Allobrogi. Sul versante opposto,
contro gli Elvi
manda i Gabali e le tribù di confine degli Arverni, mentre invia i Ruteni e i
Cadurci a
devastare le terre dei Volci Arecomici. Non di meno, con emissari clandestini e
ambascerie
sobilla gli Allobrogi, perché sperava che dall'ultima sollevazione i loro animi
non si
fossero ancora assopiti. Ai capi degli Allobrogi promette denaro, al popolo
invece, il
comando di tutta la provincia.
65
Per far fronte a ogni evenienza, i nostri avevano provveduto a disporre un
presidio di
ventidue coorti: arruolate nella provincia stessa dal legato L. Cesare,
formavano uno
sbarramento lungo tutto il fronte. Gli Elvi, scesi per proprio conto a battaglia
con i
popoli limitrofi, vengono respinti e sono costretti a rifugiarsi all'interno
delle loro
città e mura, dopo aver registrato gravi perdite: tra i tanti altri, era caduto
C. Valerio
Domnotauro, figlio di Caburo e loro principe. Gli Allobrogi dislocano parecchi
presidi
lungo il Rodano, sorvegliano con cura e attenzione i propri territori. Cesare
capiva che la
cavalleria nemica era superiore e che, con tutte le strade tagliate, non poteva
contare su
rinforzi dalla provincia e dall'Italia. Allora invia emissari oltre il Reno, in
Germania,
alle genti da lui sottomesse negli anni precedenti: chiede cavalleria e fanti
armati alla
leggera, abituati a combattere tra i cavalieri. Appena arrivano, Cesare, notando
che
montavano su cavalli non di razza, requisisce i destrieri dei tribuni militari,
degli altri
cavalieri romani e dei richiamati e li distribuisce ai Germani.
66
Nel frattempo, mentre accadevano tali fatti, giungono le truppe degli Arverni e
i cavalieri
che tutta la Gallia doveva fornire. Mentre raccoglievano, così, ingenti truppe,
Cesare
attraversa i più lontani territori dei Lingoni alla volta dei Sequani, allo
scopo di
portare aiuto con maggior facilità alla provincia. Vercingetorige si stabilisce
a circa
dieci miglia dai Romani, in tre distinti accampamenti. Convoca i comandanti
della
cavalleria e spiega che l'ora della vittoria è giunta: i Romani fuggivano in
provincia,
lasciavano la Gallia; al momento era sufficiente a ottenere la libertà, ma per
il futuro
non garantiva pace e quiete; i Romani avrebbero raccolto truppe più consistenti,
sarebbero
ritornati, non avrebbero posto fine alla guerra. Perciò bisognava attaccarli in
marcia,
quando erano impacciati dai bagagli. Se i legionari soccorrevano gli altri e si
attardavano, non potevano proseguire la marcia; se abbandonavano le salmerie e
pensavano a
salvare la vita - e sarebbe andata così, ne era certo - perdevano ogni bene di
prima
necessità e, insieme, l'onore. Quanto ai cavalieri nemici, nessuno avrebbe osato
nemmeno
uscire dallo schieramento, non c'era dubbio. E perché muovessero all'attacco con
maggior
ardimento, avrebbe tenuto dinnanzi al campo tutte le truppe e atterrito il
nemico. I
cavalieri galli acclamano: bisognava giurare solennemente che si negava un tetto
e la
possibilità di avvicinare figli, genitori o moglie a chi, sul proprio cavallo,
non
attraversava per due volte le linee nemiche.
67
La proposta viene approvata e tutti prestano giuramento. Il giorno seguente
dividono la
cavalleria in tre gruppi: due compaiono sui fianchi del nostro schieramento, la
terza
comincia a contrastarci il passo all'avanguardia. Appena glielo comunicano,
Cesare divide
la cavalleria in tre parti e ordina di affrontare il nemico. Si combatteva
contemporaneamente in ogni settore. L'esercito si ferma, le salmerie vengono
raccolte in
mezzo alle legioni. Se in qualche zona i nostri sembravano in difficoltà o
troppo alle
strette, lì Cesare ordinava di muovere all'attacco e di formare la linea. La
manovra
ritardava l'inseguimento nemico e rinfrancava i nostri con la speranza del
sostegno. Alla
fine, i Germani all'ala destra respingono i nemici, sfruttando un alto colle:
inseguono i
fuggiaschi sino al fiume, dove Vercingetorige si era attestato con la fanteria,
e ne
uccidono parecchi. Appena se ne accorgono, gli altri si danno alla fuga, temendo
l'accerchiamento. È strage ovunque. Tre Edui di stirpe assai nobile vengono
catturati e
condotti a Cesare: Coto, il comandante della cavalleria. che aveva avuto
nell'ultima
elezione un contrasto con Convictolitave; Cavarillo, preposto alla fanteria dopo
la
defezione di Litavicco; Eporedorige, sotto la cui guida gli Edui avevano
combattuto contro
i Sequani prima dell'arrivo di Cesare.
68
Vista la rotta della cavalleria, Vercingetorige ritirò le truppe schierate
dinnanzi
all'accampamento e mosse direttamente verso Alesia, città dei Mandubi, ordinando
di
condurre rapidamente le salmerie fuori dal campo e di seguirlo. Cesare porta i
bagagli sul
colle più vicino e vi lascia due legioni come presidio. Lo insegue finché c'è
luce: uccide
circa tremila uomini della retroguardia e il giorno successivo si accampa
davanti ad
Alesia. Esaminata la posizione della città e tenuto conto che i nemici erano
atterriti,
perché era stata messa in fuga la loro cavalleria, ossia il reparto su cui più
confidavano,
esorta i soldati all'opera e comincia a circondare Alesia con un vallo.
69
La città di Alesia sorgeva sulla cima di un colle molto elevato, tanto che
l'unico modo per
espugnarla sembrava l'assedio. I piedi del colle, su due lati, erano bagnati da
due fiumi.
Davanti alla città si stendeva una pianura lunga circa tre miglia; per il resto,
tutt'intorno, la cingevano altri colli di uguale altezza, poco distanti l'uno
dall'altro.
Sotto le mura, la parte del colle che guardava a oriente brulicava tutta di
truppe
galliche; qui, in avanti, avevano scavato una fossa e costruito un muro a secco
alto sei
piedi. Il perimetro della cinta di fortificazione iniziata dai Romani
raggiungeva le dieci
miglia. Si era stabilito l'accampamento in una zona vantaggiosa, erano state
costruite
ventitré ridotte: di giorno vi alloggiavano corpi di guardia per prevenire
attacchi
improvvisi, di notte erano tenute da sentinelle e saldi presidi.
70
Quando i lavori erano già iniziati, le cavallerie vengono a battaglia nella
pianura che si
stendeva tra i colli per tre miglia di lunghezza, come abbiamo illustrato. Si
combatte con
accanimento da entrambe le parti. In aiuto dei nostri in difficoltà, Cesare
invia i Germani
e schiera le legioni di fronte all'accampamento, per impedire un attacco
improvviso della
fanteria nemica. Il presidio delle legioni infonde coraggio ai nostri. I nemici
sono messi
in fuga: numerosi com'erano, si intralciano e si accalcano a causa delle porte,
costruite
troppo strette. I Germani li inseguono con maggior veemenza fino alle
fortificazioni. Ne
fanno strage: alcuni smontano da cavallo e tentano di superare la fossa e di
scalare il
muro. Alle legioni schierate davanti al vallo Cesare ordina di avanzare
leggermente. Un
panico non minore prende i Galli all'interno delle fortificazioni: pensano a un
attacco
imminente, gridano di correre alle armi. Alcuni, sconvolti dal terrore, si
precipitano in
città. Vercingetorige comanda di chiudere le porte, perché l'accampamento non
rimanesse
sguarnito. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato parecchi cavalli, i Germani
ripiegano.
71
Vercingetorige prende la decisione di far uscire di notte tutta la cavalleria,
prima che i
Romani portassero a termine la linea di fortificazione. Alla partenza,
raccomanda a tutti
di raggiungere ciascuno la propria gente e di raccogliere per la guerra tutti
gli uomini
che, per età, potevano portare le armi. Ricorda i suoi meriti nei loro
confronti, li
scongiura di tener conto della sua vita, di non abbandonarlo al supplizio dei
nemici, lui
che tanti meriti aveva nella lotta per la libertà comune. E se avessero svolto
il compito
con minor scrupolo, insieme a lui avrebbero perso la vita ottantamila uomini
scelti. Fatti
i conti, aveva grano a malapena per trenta giorni, ma se lo razionava, poteva
resistere
anche un po' di più. Con tali compiti, prima di mezzanotte fa uscire, in
silenzio, la
cavalleria nel settore dove i nostri lavori non erano ancora arrivati. Ordina la
consegna
di tutto il grano; fissa la pena capitale per chi non avesse obbedito; quanto al
bestiame,
fornito in grande quantità dai Mandubi, distribuisce a ciascuno la sua parte; fa
economia
di grano e comincia a razionarlo; accoglie entro le mura tutte le truppe prima
schierate
davanti alla città. Prese tali misure, attende i rinforzi della Gallia e si
prepara a
guidare le operazioni.
72
Cesare, appena ne fu informato dai fuggiaschi e dai prigionieri, approntò una
linea di
fortificazione come segue: scavò una fossa di venti piedi, con le pareti
verticali, facendo
sì che la larghezza del fondo corrispondesse alla distanza tra i bordi
superiori; tutte le
altre opere difensive le costruì più indietro, a quattrocento piedi dalla fossa:
avendo
dovuto abbracciare uno spazio così vasto e non essendo facile dislocare soldati
lungo tutto
il perimetro, voleva impedire che i nemici, all'improvviso o nel corso della
notte,
piombassero sulle nostre fortificazioni, oppure che durante il giorno potessero
scagliare
dardi sui nostri occupati nei lavori. A tale distanza, dunque, scavò due fosse
della stessa
profondità, larghe quindici piedi. Delle due, la più interna, situata in zone
pianeggianti
e basse, venne riempita con acqua derivata da un fiume. Ancor più indietro
innalzò un
terrapieno e un vallo di dodici piedi, a cui aggiunse parapetto e merli, con
grandi pali
sporgenti dalle commessure tra i plutei e il terrapieno allo scopo di ritardare
la scalata
dei nemici. Lungo tutto il perimetro delle difese innalzò torrette distanti
ottanta piedi
l'una dall'altra.
73
Bisognava contemporaneamente cercare legna e frumento e costruire fortificazioni
così
imponenti, mentre i nostri effettivi non facevano che diminuire, perché i
soldati si
allontanavano sempre più dal campo. E alle volte i Galli assalivano le nostre
difese e
dalla città tentavano sortite da più porte, con grande slancio. Perciò, Cesare
ritenne
opportuno aggiungere altre opere alle fortificazioni già approntate, per poterle
difendere
con un numero minore di soldati. Allora tagliò tronchi d'albero con i rami molto
robusti,
li scortecciò e li rese molto aguzzi sulla punta; poi, scavò fosse continue per
la
profondità di cinque piedi. Qui piantò i tronchi e, perché non li potessero
svellere, li
legò alla base, lasciando sporgere i rami. A cinque a cinque erano le file,
collegate tra
loro e raccordate: chi vi entrava, rimaneva trafitto sui pali acutissimi. Li
chiamammo
cippi. Davanti ai cippi scavò buche profonde tre piedi, leggermente più strette
verso il
fondo e disposte per linee oblique, come il cinque nei dadi. Vi conficcò tronchi
lisci,
spessi quanto una coscia, molto aguzzi e induriti col fuoco sulla punta, non
lasciandoli
sporgere dal terreno più di quattro dita. Inoltre, per renderli ben fermi e
saldi, in basso
aggiunse terra per un piede d'altezza e la pressò; il resto del tronco venne
ricoperto di
vimini e arbusti per nascondere l'insidia. Ne allineò otto file, distanti tre
piedi l'una
dall'altra. Le denominammo, per la somiglianza con il fiore, gigli. Davanti a
esse vennero
interrati pioli lunghi un piede, forniti di un artiglio di ferro: ne
disseminammo un po'
ovunque, a breve distanza. Presero il nome di stimoli.
74
Terminate tali opere, seguendo i terreni più favorevoli per conformazione
naturale, costruì
una linea difensiva dello stesso genere, lunga quattordici miglia, ma opposta
alla prima,
contro un nemico proveniente dalle spalle: così, anche nel caso di un attacco in
massa dopo
la sua partenza, gli avversari non avrebbero potuto circondare i presidi delle
fortificazioni, né i nostri si sarebbero trovati costretti a sortite rischiose.
Ordina a
tutti di portare con sé foraggio e grano per trenta giorni.
75
Così andavano le cose ad Alesia. Nel frattempo, i Galli indicono un concilio dei
capi,
stabiliscono di non chiamare alle armi tutti gli uomini abili, come aveva
chiesto
Vercingetorige, ma di imporre ad ogni popolo la consegna di un contingente
determinato,
perché temevano che fosse impossibile, tra tanta confusione di popoli, mantenere
la
disciplina, riconoscere le proprie truppe, amministrare le provviste di grano.
Agli Edui e
ai loro alleati, ossia i Segusiavi, gli Ambivareti, gli Aulerci Brannovici, i
Blannovi,
ordinano di fornire trentacinquemila uomini; altrettanti agli Arverni insieme
agli
Eleuteti, ai Cadurci, ai Gabali, ai Vellavi, da tempo clienti degli Arverni
stessi; ai
Sequani, ai Senoni, ai Biturigi, ai Santoni, ai Ruteni, ai Carnuti dodicimila
ciascuno; ai
Bellovaci diecimila; ottomila ciascuno ai Pictoni, ai Turoni, ai Parisi e agli
Elvezi; agli
Ambiani, ai Mediomatrici, ai Petrocori, ai Nervi, ai Morini, ai Nitiobrogi
cinquemila
ciascuno; altrettanti agli Aulerci Cenomani; agli Atrebati quattromila; ai
Veliocassi, ai
Lexovi e agli Aulerci Eburovici tremila ciascuno; ai Rauraci e ai Boi mille
ciascuno;
ventimila a tutti quei popoli che si affacciano sull'Oceano e che, come dicono
loro stessi,
si chiamano Aremorici, tra i quali ricordiamo i Coriosoliti, i Redoni, gli
Ambibari, i
Caleti, gli Osismi, i Lemovici, gli Unelli. Di tutti i popoli citati, solo i
Bellovaci non
inviarono il contingente completo, dicendo che avrebbero mosso guerra ai Romani
per proprio
conto e arbitrio e che non avrebbero preso ordini da nessuno. Tuttavia, su
preghiera di
Commio, in ragione dei vincoli di ospitalità che li legavano a lui, inviarono
duemila
soldati.
76
Dei fidati e preziosi servigi di Commio, Cesare si era avvalso negli anni
precedenti, lo
abbiamo detto. In cambio, aveva decretato che gli Atrebati fossero esenti da
tributi, aveva
loro restituito diritto e leggi e assegnato la tutela dei Morini. Ma il consenso
della
Gallia, che voleva riacquistare l'indipendenza e recuperare l'antica gloria
militare, era
così unanime, da rendere chiunque insensibile anche ai benefici e al ricordo
dell'amicizia:
tutti si gettavano nel conflitto col cuore e con ogni risorsa. Vengono raccolti
ottomila
cavalieri e circa duecentoquarantamila fanti; nelle terre degli Edui si procede
a passarli
in rassegna, a contarli, a nominare gli ufficiali. Il comando supremo viene
affidato
all'atrebate Commio, agli edui Viridomaro ed Eporedorige, all'arverno
Vercassivellauno,
cugino di Vercingetorige. A essi vengono affiancati alcuni rappresentanti dei
vari popoli,
che formavano il consiglio per condurre le operazioni. Pieni di ardore e di
fiducia si
dirigono ad Alesia. Nessuno credeva possibile reggere alla vista di un tale
esercito, tanto
meno in uno scontro su due fronti, quando i Romani, mentre combattevano per una
sortita
dalla città, avessero scorto alle loro spalle truppe di fanteria e cavalleria
così
imponenti.
77
Ma gli assediati in Alesia, scaduto il giorno previsto per l'arrivo dei rinforzi
ed
esaurite tutte le scorte di grano, ignari di ciò che stava accadendo nelle terre
degli
Edui, convocarono un'assemblea e si consultarono sull'esito della propria sorte.
E tra i
vari pareri - c'era chi propendeva per la resa, chi per una sortita, finché le
forze
bastavano - crediamo di non dover tralasciare il discorso di Critognato per la
sua
straordinaria ed empia crudeltà. Persona di altissimo lignaggio tra gli Arverni
e molto
autorevole, così parlò: "Non spenderò una parola riguardo al parere di chi
chiama resa una
vergognosissima schiavitù: costoro non li considero cittadini e non dovrebbero
avere
neppure il diritto di partecipare all'assemblea. È mia intenzione rivolgermi a
chi approva
la sortita, soluzione che conserva l'impronta dell'antico valore, tutti voi ne
convenite.
Non essere minimamente capaci di sopportare le privazioni, non è valore, ma
debolezza
d'animo. È più facile trovare volontari pronti alla morte piuttosto che gente
disposta a
sopportare pazientemente il dolore. E anch'io - tanto è forte in me il senso
dell'onore -
sarei dello stesso avviso, se vedessi derivare un danno solo per la nostra vita.
Ma nel
prendere la decisione, rivolgiamo gli occhi a tutta la Gallia, che abbiamo
chiamato in
soccorso. Quale sarà, secondo voi, lo stato d'animo dei nostri parenti e
consanguinei,
quando vedranno ottantamila uomini uccisi in un sol luogo e dovranno combattere
quasi sui
nostri cadaveri? Non negate il vostro aiuto a chi, per salvare voi, non ha
curato pericoli.
Non prostrate la Gallia intera, non piegatela a una servitù perpetua a causa
della vostra
stoltezza e imprudenza o per colpa della fragilità del vostro animo. Sì, i
rinforzi non
sono giunti nel giorno fissato, ma per questo dubitate della loro lealtà e
costanza? E
allora? Credete che ogni giorno i Romani là, nelle fortificazioni esterne,
lavorino per
divertimento? Se non potete ricevere una conferma perché le vie sono tutte
tagliate,
prendete allora i Romani come testimonianza del loro imminente arrivo: è il
timore dei
nostri rinforzi che li spinge a lavorare giorno e notte alle fortificazioni. Che
cosa
suggerisco, dunque? Di imitare i nostri padri quando combattevano contro i
Cimbri e i
Teutoni, in una guerra che non aveva nulla a che vedere con la nostra: costretti
a
chiudersi nelle città e a patire come noi dure privazioni, si mantennero in vita
con i
corpi di chi, per ragioni d'età, sembrava inutile alla guerra, e non si arresero
ai nemici.
Se non avessimo già un precedente del genere, giudicherei giusto istituirlo per
la nostra
libertà e tramandarlo ai posteri come fulgido esempio. E poi, quali somiglianze
ci sono tra
la loro guerra e la nostra? I Cimbri, devastata la Gallia e seminata rovina, si
allontanarono una buona volta dalle nostre campagne e si diressero verso altre
terre,
lasciandoci il nostro diritto, le leggi, i campi, la libertà. I Romani, invece,
che altro
cercano o vogliono, se non stanziarsi nelle campagne e città di qualche popolo,
spinti
dall'invidia, appena sanno che è nobile e forte in guerra? Oppure che altro, se
non
assoggettarlo in un'eterna schiavitù? Non hanno mai mosso guerra con altre
intenzioni. E se
ignorate le vicende delle regioni più lontane, volgete gli occhi alla Gallia
limitrofa,
ridotta a provincia: ha mutato il diritto e le leggi, è soggetta alle scuri e
piegata in
una perpetua servitù".
78
Espressi i vari pareri, decidono di allontanare dalla città chi, per malattia o
età, non
poteva combattere e di tentare tutto prima di risolversi alla proposta di
Critognato;
tuttavia, in caso di necessità o di ritardo dei rinforzi, bisognava giungere a
un tale
passo piuttosto che accettare condizioni di resa o di pace. I Mandubi, che li
avevano
accolti nella loro città, sono costretti a partire con i figli e le mogli.
Giunti ai piedi
delle difese romane, tra le lacrime e con preghiere d'ogni genere, supplicavano
i nostri di
prenderli come schiavi e di dar loro del cibo. Ma Cesare, disposte sentinelle
sul vallo,
impediva di accoglierli.
79
Nel frattempo, Commio e gli altri capi, a cui era stato conferito il comando,
giungono ad
Alesia con tutte le truppe, occupano il colle esterno e si attestano a non più
di un miglio
dalle nostre difese. Il giorno seguente mandano in campo la cavalleria e
riempiono tutta la
pianura che si stendeva per tre miglia, come sopra ricordato. Quanto alla
fanteria, la
dispongono poco distante, nascosta sulle alture. Dalla città di Alesia la vista
dominava
sulla pianura. Appena scorgono i rinforzi, i Galli accorrono: esultano, gli
animi di tutti
si schiudono alla gioia. Così, guidano le truppe fuori dalle mura e si schierano
di fronte
alla città, coprono la prima fossa con fascine, la colmano di terra si preparano
all'attacco, al tutto per tutto.
80
Cesare dispone l'esercito lungo entrambe le linee fortificate, perché ciascuno,
in caso di
necessità, conoscesse il proprio posto e lì si schierasse. Poi, guida la
cavalleria fuori
dal campo e ordina di dar inizio alla battaglia. Da ogni punto del campo,
situato sulla
cima del colle, la vista dominava; tutti i soldati, ansiosi, aspettavano l'esito
dello
scontro. I Galli tenevano in mezzo alla cavalleria pochi arcieri e fanti
dall'armatura
leggera, che avevano il compito di soccorrere i loro quando ripiegavano e di
frenare
l'impeto dei nostri cavalieri. Gli arcieri e i fanti avevano colpito alla
sprovvista
parecchi dei nostri, costringendoli a lasciare la mischia. Da ogni parte tutti i
Galli, sia
chi era rimasto all'interno delle difese, sia chi era giunto in rinforzo,
convinti della
loro superiorità e vedendo i nostri pressati dalla loro massa, incitavano i loro
con grida
e urla. Lo scontro si svolgeva sotto gli occhi di tutti, perciò nessun atto di
coraggio o
di viltà poteva sfuggire: il desiderio di gloria e la paura dell'ignominia
spronavano al
valore gli uni e gli altri. Si combatteva da mezzogiorno, il tramonto era ormai
vicino e
l'esito era ancora incerto, quand'ecco che, in un settore, a ranghi serrati i
cavalieri
germani caricarono i nemici e li volsero in fuga. Alla ritirata della
cavalleria, gli
arcieri vennero circondati e uccisi. Anche nelle altre zone i nostri inseguirono
fino
all'accampamento i nemici in fuga, senza permetter loro di raccogliersi. I Galli
che da
Alesia si erano spinti in avanti, mesti, disperando o quasi della vittoria,
cercarono
rifugio in città.
81
I Galli lasciarono passare un giorno, durante il quale approntarono una gran
quantità di
fascine, scale, ramponi. A mezzanotte, in silenzio, escono dall'accampamento e
si
avvicinano alle nostre fortificazioni di pianura. All'improvviso lanciano alte
grida: era
il segnale convenuto per avvisare del loro arrivo chi era in città. Si
apprestano a gettare
fascine, a disturbare i nostri sul vallo con fionde, frecce e pietre, ad
azionare ogni
macchina che serve in un assalto. Contemporaneamente, appena sente le grida,
Vercingetorige
dà ai suoi il segnale con la tromba e li guida fuori dalla città. I nostri
raggiungono le
fortificazioni, ciascuno nel posto che gli era stato assegnato nei giorni
precedenti.
Usando fionde che lanciano proiettili da una libbra e con pali disposti sulle
difese,
atterriscono i Galli e li respingono. Le tenebre impediscono la vista, gravi
sono le
perdite in entrambi gli schieramenti. Le macchine da lancio scagliano nugoli di
frecce. E i
legati M. Antonio e C. Trebonico cui era toccata la difesa di questi settori,
chiamano
rinforzi dalle ridotte più lontane e li mandano nelle zone dove capivano che i
nostri si
trovavano in difficoltà.
82
Finché i Galli erano abbastanza distanti dalle nostre fortificazioni, avevano un
certo
vantaggio, per il nugolo di frecce da loro lanciate; una volta avvicinatisi,
invece, presi
alla sprovvista, finivano negli stimoli o cadevano nelle fosse rimanendo
trafitti oppure
venivano uccisi dai giavellotti scagliati dal vallo e dalle torri. In tutti i
settori
subirono parecchie perdite e non riuscirono a far breccia in nessun punto;
all'approssimarsi dell'alba ripiegarono, nel timore che i nostri tentassero una
sortita
dall'accampamento più alto e li accerchiassero dal fianco scoperto. E gli
assediati,
intenti a spingere in avanti le macchine preparate da Vercingetorige per la
sortita e a
riempire le prime fosse, mentre procedevano con troppa lentezza, vengono a
sapere che i
loro si erano ritirati prima di aver raggiunto le nostre difese. Così, senza
aver concluso
nulla, rientrano in città.
83
I Galli, respinti due volte con gravi perdite, si consultano sul da farsi.
Chiamano gente
pratica della zona. Da essi apprendono com'era disposto e fortificato il nostro
accampamento superiore. A nord c'era un colle che, per la sua estensione, i
nostri non
avevano potuto abbracciare nella linea difensiva: erano stati costretti a porre
il campo in
una posizione quasi sfavorevole, in leggera pendenza. Il campo era occupato dai
legati C.
Antistio Regino e C. Caninio Rebilo con due legioni. Gli esploratori effettuano
un
sopralluogo della zona, mentre i comandanti nemici scelgono sessantamila soldati
tra tutti
i popoli ritenuti più valorosi. In segreto mettono a punto il piano e le
modalità d'azione.
Fissano l'ora dell'attacco verso mezzogiorno. Il comando delle truppe suddette
viene
affidato all'arverno Vercassivellauno, uno dei quattro capi supremi, parente di
Vercingetorige. Vercassivellauno uscì dal campo dopo le sei di sera e giunse
quasi a
destinazione poco prima dell'alba, si nascose dietro il monte e ordinò ai
soldati di
riposarsi dopo la fatica della marcia notturna. Quando ormai sembrava
avvicinarsi
mezzogiorno, puntò sull'accampamento di cui abbiamo parlato. Al contempo, la
cavalleria
cominciò ad accostarsi alle nostre difese di pianura e le truppe rimanenti
comparvero
dinnanzi al loro campo.
84
Vercingetorige vede i suoi dalla rocca di Alesia ed esce dalla città. Porta
fascine,
pertiche, ripari, falci e ogni altra arma preparata per la sortita. Si combatte
contemporaneamente in ogni zona, tutte le nostre difese vengono attaccate: dove
sembravano
meno salde, là i nemici accorrevano. Le truppe romane sono costrette a dividersi
per
l'estensione delle linee, né è facile respingere gli attacchi sferrati
contemporaneamente
in diversi settori. Il clamore che si alza alle spalle dei nostri, mentre
combattevano,
contribuisce molto a seminare il panico, perché capivano che la loro vita era
legata alla
salvezza degli altri: i pericoli che non stanno dinnanzi agli occhi, in genere,
turbano con
maggior intensità le menti degli uomini.
85
Cesare, trovato un punto di osservazione adatto, vede che cosa accade in ciascun
settore.
Invia aiuti a chi è in difficoltà. I due eserciti sentono che è il momento
decisivo, in cui
occorreva lottare allo spasimo: i Galli, se non forzavano la nostra linea,
perdevano ogni
speranza di salvezza; i Romani, se tenevano, si aspettavano la fine di tutti i
travagli. Lo
scontro era più aspro lungo le fortificazioni sul colle, dove, lo abbiamo detto,
era stato
inviato Vercassivellauno. La posizione sfavorevole dei nostri, in salita, aveva
un peso
determinante. Dei Galli, alcuni scagliano dardi, altri formano la testuggine e
avanzano.
Forze fresche danno il cambio a chi è stanco. Tutti quanti gettano sulle difese
molta
terra, che permette ai Galli la scalata e ricopre le insidie nascoste nel
terreno dai
Romani. Ai nostri, ormai, mancano le armi e le forze.
86
Quando lo viene a sapere, a rinforzo di chi si trova in difficoltà Cesare invia
Labieno con
sei coorti. Gli ordina, se non riusciva a respingere l'attacco, di portar fuori
le coorti e
di tentare una sortita, ma solo in caso di necessità estrema. Dal canto suo,
raggiunge gli
altri, li esorta a non cedere, spiega che in quel giorno, in quell'ora era
riposto ogni
frutto delle battaglie precedenti. I nemici sul fronte interno, disperando di
poter forzare
le difese di pianura, salde com'erano, attaccano i dirupi, cercando di scalarli:
sulla
sommità ammassano tutte le armi approntate. Con nugoli di frecce scacciano i
nostri
difensori dalle torri, riempiono le fosse con terra e fascine, spezzano il vallo
e il
parapetto mediante falci.
87
Cesare prima invia il giovane Bruto con alcune coorti, poi il legato C. Fabio
con altre.
Alla fine egli stesso, mentre si combatteva sempre più aspramente, reca in aiuto
forze
fresche. Capovolte le sorti dello scontro e respinti i nemici, si dirige dove
aveva inviato
Labieno. Preleva quattro coorti dalla ridotta più vicina e ordina che parte
della
cavalleria lo segua, parte aggiri le difese esterne e attacchi il nemico alle
spalle.
Poiché né i terrapieni, né le fosse valevano a frenare l'impeto dei nemici,
Labieno raduna
trentanove coorti, che la sorte gli permise di raccogliere dalle ridotte più
vicine.
Quindi, invia a Cesare messaggeri per informarlo delle sue intenzioni.
88
Cesare si affretta, per prendere parte alla battaglia. I nemici, dominando
dall'alto i
declivi e i pendii dove transitava Cesare, mossero all'attacco, non appena
notarono il suo
arrivo per il colore del mantello che di solito indossava in battaglia e videro
gli
squadroni di cavalleria e le coorti che avevano l'ordine di seguirlo. Entrambi
gli eserciti
levano alte grida, un grande clamore risponde dal vallo e da tutte le
fortificazioni. I
nostri lasciano da parte i giavellotti e mettono mano alle spade. All'improvviso
compare la
cavalleria dietro i nemici. Altre coorti stavano accorrendo: i Galli volgono le
spalle. I
cavalieri affrontano gli avversari in fuga. È strage. Sedullo, comandante e
principe dei
Lemovici aremorici, cade; l'arverno Vercassivellauno è catturato vivo, mentre
tentava la
fuga; a Cesare vengono portate settantaquattro insegne militari; di tanti che
erano, solo
pochi nemici raggiungono salvi l'accampamento. Dalla città vedono il massacro e
la ritirata
dei loro: persa ogni speranza di salvezza, richiamano le truppe dalle
fortificazioni.
Appena odono il segnale di ritirata, i Galli fuggono dall'accampamento. E se i
nostri
soldati non avessero risentito delle continue azioni di soccorso e della fatica
di tutta la
giornata, avrebbero potuto annientare le truppe avversarie. Verso mezzanotte la
cavalleria
si muove all'inseguimento della retroguardia nemica: molti vengono catturati e
uccisi; gli
altri, proseguendo la fuga, raggiungono i rispettivi popoli.
89
Il giorno seguente, Vercingetorige convoca l'assemblea e spiega che quella
guerra l'aveva
intrapresa non per proprio interesse, ma per la libertà comune. E giacché si
doveva cedere
alla sorte, si rimetteva ai Galli, pronto a qualsiasi loro decisione, sia che
volessero
ingraziarsi i Romani con la sua morte o che volessero consegnarlo vivo. A tale
proposito
viene inviata una legazione a Cesare, che esige la resa delle armi e la consegna
dei capi
dei vari popoli. Pone il suo seggio sulle fortificazioni, dinnanzi
all'accampamento: qui
gli vengono condotti i comandanti galli, Vercingetorige si arrende, le armi
vengono gettate
ai suoi piedi. A eccezione degli Edui e degli Arverni, tutelati nella speranza
di poter
riguadagnare, tramite loro, le altre genti, Cesare distribuisce, a titolo di
preda, i
prigionieri dei rimanenti popoli a tutto l'esercito, uno a testa.
90
Terminate le operazioni, parte verso le terre degli Edui; accetta la resa del
loro popolo.
Qui lo raggiungono emissari degli Arverni che promettono obbedienza, ordina la
consegna di
un gran numero di ostaggi. Invia le legioni ai campi invernali. Restituisce agli
Edui e
agli Arverni circa ventimila prigionieri. Ordina a T. Labieno di recarsi nella
regione dei
Sequani con due legioni e la cavalleria e pone ai suoi ordini M. Sempronio
Rutilo. Alloggia
il legato C. Fabio e L. Minucio Basilo con due legioni nei territori dei Remi,
per
proteggere quest'ultimi da eventuali attacchi dei Bellovaci. Manda C. Antistio
Regino tra
gli Ambivareti, T. Sestio presso i Biturigi, C. Caninio Rebilo tra i Ruteni,
ciascuno alla
testa di una legione. Pone Q. Tullio Cicerone e P. Sulpicio a Cavillono e
Matiscone, lungo
la Saona, nelle terre degli Edui, incaricandoli di provvedere ai rifornimenti di
grano. Dal
canto suo, decide di svernare a Bibracte. Quando a Roma si ha notizia
dell'accaduto da una
lettera di Cesare, gli vengono tributati venti giorni di feste solenni di
ringraziamento.
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