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                                         De Bello Gallico

Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni 58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri, popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio della guerra civile.

                                       

                                       (Testo/Traduzione)

 

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Libro I

Libro II

Libro III

Libro IV

Libro V

Libro VI

Libro VII

Libro VIII

 

                                Libro VI  Traduzione

 


1



Per molte ragioni Cesare si attendeva una più grave sollevazione della Gallia, perciò
decide di operare un reclutamento mediante i suoi legati M. Silano, C. Antistio Regino e T.
Sestio. Al tempo stesso, al proconsole Cn. Pompeo, rimasto nelle vicinanze di Roma con un
comando militare per il bene dello stato, chiede di radunare e inviargli i soldati che
aveva già arruolato e fatto giurare nella Gallia cisalpina quand'era console. Al fine di
mantenere il buon concetto che i Galli avevano di noi, riteneva estremamente importante,
anche per il futuro, che vedessero quali erano le risorse dell'Italia: i Romani, se anche
subivano un rovescio in guerra, erano in grado non solo di rimediare in poco tempo alle
perdite, ma addirittura di aumentare il numero degli effettivi. Pompeo, sia nell'interesse
pubblico, sia per ragioni di amicizia, acconsentì. Completato con celerità l'arruolamento
tramite i legati, prima della fine dell'inverno vennero formate tre legioni e condotte in
Gallia. Cesare raddoppiò, così, il numero delle coorti rispetto a quelle perse con Q.
Titurio e, grazie alla rapidità e all'entità del reclutamento, dimostrò di che cosa fossero
capaci l'organizzazione e i mezzi di Roma.





2



Dopo l'uccisione di Induziomaro, come abbiamo descritto, i Treveri affidano il comando ai
suoi parenti, che non desistono dal sobillare i Germani limitrofi, promettendo denaro. Non
avendo ottenuto risultato con i Germani vicini, tentano con i più lontani. Trovate alcune
genti disposte all'azione, a esse si vincolano con giuramento solenne; quanto al denaro,
garantiscono con ostaggi. Accolgono nella loro lega e patto Ambiorige. Informato di ciò,
Cesare si accorse che, ovunque, erano in corso preparativi di guerra: i Nervi, gli
Atuatuci, i Menapi erano in armi, uniti a tutti i Germani stanziati al di qua del Reno; i
Senoni non rispondevano alle convocazioni e si accordavano con i Carnuti e i popoli
limitrofi; i Treveri facevano pressione sui Germani con frequenti ambascerie. Quindi,
ritenne di dover pensare alla guerra più presto del solito.





3



Perciò, prima ancora della fine dell'inverno, radunò le quattro legioni più vicine e,
inatteso, puntò sui territori dei Nervi: non lasciò ai nemici il tempo di accorrere o
fuggire e, catturati molti capi di bestiame e uomini, che concesse come preda ai soldati,
devastò i campi e costrinse i Nervi alla resa e alla consegna di ostaggi. Terminate con
rapidità le operazioni, ricondusse le legioni negli accampamenti invernali. Indetto,
secondo il solito, un concilio della Gallia per l'inizio della primavera, si presentarono
tutti, tranne i Senoni, i Carnuti e i Treveri. Cesare lo considera segno dell'inizio delle
ostilità e della ribellione e, per dimostrare che metteva in secondo piano ogni altro
problema, trasferisce il concilio a Lutezia, città dei Parisi. Costoro confinavano con i
Senoni e a essi si erano uniti all'epoca dei nostri padri, ma non prendevano parte, si
riteneva, al piano di sollevazione. Comunicato dalla tribuna il cambiamento di sede, il
giorno stesso si dirige, con le legioni, verso le terre dei Senoni, dove giunge a marce
forzate.





4



Saputo del suo arrivo, Accone, responsabile del piano, ordina alla popolazione di
rifugiarsi nelle città. Mentre il tentativo era in corso, prima che le operazioni fossero
ultimate, viene annunziato che i Romani sono giunti. I Senoni sono costretti a rinunciare
ai loro propositi e inviano un'ambasceria a Cesare per scongiurarne il perdono: inoltrano
la supplica attraverso gli Edui, che da antico tempo li tutelavano. Dal momento che la
richiesta veniva dagli Edui, Cesare concede volentieri il perdono e accetta le
giustificazioni, ritenendo che quell'estate fosse la stagione di una guerra imminente, e
non dei processi. Esige cento ostaggi e li affida alla custodia degli Edui. Anche i Carnuti
gli inviano messi e ostaggi, avvalendosi dell'intercessione dei Remi, di cui erano clienti:
ottengono la stessa risposta. Cesare chiude il concilio e impone alle genti galliche di
fornirgli cavalieri.





5



Pacificata questa zona della Gallia, Cesare impegna mente e animo, totalmente, nella guerra
contro i Treveri e Ambiorige. Ordina a Cavarino di assumere il comando della cavalleria dei
Senoni e di seguirlo, per evitare sedizioni dovute al carattere iracondo del Gallo oppure
all'odio che costui si era meritato da parte della sua gente. Prese tali decisioni, Cesare,
sapendo per certo che Ambiorige non si sarebbe misurato in uno scontro aperto, cercava di
scoprire quali altre soluzioni rimanessero all'avversario. Con gli Eburoni confinavano i
Menapi, protetti da sterminate paludi e selve, l'unico popolo della Gallia a non aver mai
inviato messi a Cesare per trattare la pace. Cesare conosceva i vincoli di ospitalità tra
Ambiorige e i Menapi ed era pure al corrente che, tramite i Treveri, il Gallo aveva stretto
rapporti d'alleanza con i Germani. Stimava necessario sottrargli ogni appoggio, piuttosto
che provocarlo a battaglia: non voleva che Ambiorige, sentendosi perduto, fosse costretto a
rifugiarsi nelle terre dei Menapi o a unirsi ai Germani d'oltre Reno. Con questa intenzione
invia a Labieno, nel paese dei Treveri, tutte le salmerie dell'esercito e dà ordine a due
legioni di raggiungerlo. Dal canto suo, con cinque legioni senza bagagli marcia sui Menapi.
Costoro, senza neppure radunare truppe, confidando nelle sole difese naturali del luogo, si
rifugiano nelle selve e nelle paludi, ammassandovi tutti i loro beni.





6



Cesare divide le truppe con il legato C. Fabio e il questore M. Crasso, costruisce con
rapidità ponti sulle paludi e avanza su tre fronti: incendia gli edifici isolati e i
villaggi, cattura un gran numero di capi di bestiame e di uomini. I Menapi, nella morsa
della necessità, gli inviano ambasciatori per chiedere pace. Cesare riceve gli ostaggi e
dichiara che, se avessero accolto nei loro territori Ambiorige o suoi emissari, li avrebbe
considerati nemici. Sistemata la questione, lascia tra i Menapi, a sorvegliare la regione,
l'atrebate Commio con la cavalleria e punta contro i Treveri.





7



Mentre Cesare conduceva tali operazioni, i Treveri, raccolte ingenti forze di fanteria e
cavalleria, preparavano l'attacco a Labieno e alla legione che aveva svernato nei loro
territori. Non distavano, ormai, più di due giorni di cammino da Labieno, quando vengono a
sapere dell'arrivo di due legioni, inviate da Cesare. Pongono il campo a quindici miglia
dai nostri e decidono di aspettare i rinforzi dei Germani. Labieno, conosciute le
intenzioni dei nemici, spera che la loro imprudenza gli offra l'occasione per uno scontro:
lasciate cinque coorti a presidio delle salmerie, con venticinque coorti e una forte
cavalleria si dirige contro il nemico. Alla distanza di un miglio dai Treveri fortifica il
campo. Tra Labieno e il nemico scorreva un fiume difficile da guadare, che aveva le rive
scoscese. Né lui aveva intenzione di attraversarlo, né pensava che lo avrebbero fatto i
nemici, tra i quali ogni giorno cresceva la speranza dei rinforzi. Al consiglio di guerra
Labieno rende noto apertamente che, essendo i Germani in arrivo, a quanto si diceva, non
intendeva esporre a rischi se stesso, né l'esercito; perciò, il giorno seguente, all'alba,
avrebbe tolto il campo. Ben presto la notizia viene riportata ai nemici: dei molti
cavalieri galli, alcuni erano spinti - com'è naturale - a favorire la causa del loro paese.
Labieno, convocati di notte i tribuni militari e i centurioni più alti in grado, espone il
suo piano e, per dare con più facilità al nemico l'impressione di panico tra i nostri,
ordina di levare il campo con uno strepito e tumulto insoliti per l'esercito del popolo
romano. Così, rende la partenza simile a una fuga. Vicini com'erano i due accampamenti,
prima dell'alba i nemici vengono informati anche di ciò dai loro esploratori.





8



La retroguardia era appena uscita dalle fortificazioni, che i Galli si spronano a vicenda a
non lasciarsi sfuggire dalle mani la preda sperata: sarebbe stato troppo lungo, con i
Romani atterriti, aspettare i rinforzi dei Germani; per la loro dignità era inammissibile,
numerosi com'erano, non osare l'attacco a un reparto nemico così esiguo e, oltretutto, in
fuga e carico di bagagli. Così, non esitano a varcare il fiume e a venire a battaglia in
posizione di svantaggio. Labieno, avendo previsto ogni mossa, allo scopo di attirare tutti
i nemici al di qua del fiume continuava nella sua finzione e proseguiva la marcia,
lentamente. Poi, inviate le salmerie un po' più avanti e avendole disposte su di un rialzo,
disse: "Soldati, avete l'occasione che vi auguravate: tenete in pugno il nemico, in un
luogo malagevole e per loro svantaggioso; date prova, adesso, sotto la nostra guida, dello
stesso valore che più di una volta avete dimostrato al comandante in capo, fate conto che
lui sia qui e che assista allo scontro di persona". Contemporaneamente ordina di volgere le
insegne contro il nemico e di formare la linea di battaglia, invia pochi squadroni a
presidio delle salmerie e dispone il resto della cavalleria sulle ali. I nostri
rapidamente, tra alte grida, scagliano i giavellotti sui nemici. Costoro, quando contro
ogni aspettativa videro i Romani volgere le insegne e avanzare, mentre li credevano già in
fuga, non riuscirono neanche a sostenerne l'urto: al primo assalto batterono in ritirata e
cercarono rifugio nelle selve più vicine. Labieno li inseguì con la cavalleria, ne uccise
molti e ne fece prigionieri parecchi: pochi giorni dopo i Treveri si arresero. Infatti, i
Germani, che venivano in loro aiuto, avuta notizia della fuga dei Treveri, rientrarono in
patria. Al loro seguito lasciarono il paese i parenti di Induziomaro, che avevano istigato
alla defezione. A Cingetorige, rimasto fedele fin dall'inizio, come abbiamo ricordato, fu
conferito il principato e il comando.





9



Cesare, appena giunto dalle terre dei Menapi nella regione dei Treveri, decise di varcare
il Reno per due motivi: primo, i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro di lui;
secondo, non voleva che Ambiorige trovasse rifugio presso di loro. Presa tale decisione,
comincia a costruire un ponte poco più a nord del luogo in cui, in passato, l'esercito
aveva varcato il fiume. Essendo la maniera di fabbricarlo già nota e sperimentata, l'opera
viene realizzata in pochi giorni grazie al grande impegno dei soldati. A un capo del ponte,
nelle terre dei Treveri, per impedirne un'improvvisa sollevazione, lascia un saldo presidio
e guida, sull'altra riva, il resto delle truppe e la cavalleria. Gli Ubi, che in precedenza
avevano consegnato ostaggi e si erano sottomessi, inviano a Cesare un'ambasceria per
discolparsi: non avevano inviato rinforzi ai Treveri, né violato i patti. Gli chiedono, lo
scongiurano di risparmiarli, di non accomunarli ai Germani nel suo odio, perché non
volevano, innocenti, pagare per chi innocente non era; se chiedeva altri ostaggi, erano
pronti a consegnarli. Cesare, fatta luce sull'accaduto, scopre che i rinforzi erano stati
inviati dagli Svevi. Accetta le spiegazioni degli Ubi, si informa in modo dettagliato sulle
vie d'accesso alle terre degli Svevi.





10



Intanto, pochi giorni dopo, gli Ubi lo avvertono che gli Svevi stavano concentrando tutte
le truppe in un solo luogo e che imponevano ai popoli sottomessi l'invio di rinforzi di
fanteria e cavalleria. Saputo ciò, Cesare provvede alle scorte di grano, sceglie un luogo
adatto all'accampamento e ordina agli Ubi di portar via i capi di bestiame e di ammassare
ogni bene dalle campagne nelle città. Sperava che i nemici, barbari e inesperti com'erano,
si lasciassero indurre ad accettare lo scontro anche in posizione di svantaggio, costretti
a ciò dalla mancanza di viveri. Incarica gli Ubi di inviare molti esploratori nelle zone
degli Svevi per spiarne le mosse. Gli Ubi eseguono gli ordini e, pochi giorni dopo,
riferiscono: tutti gli Svevi, avute notizie più sicure sull'esercito dei Romani, si erano
ritirati lontano, nei loro territori più remoti, con tutte le truppe e i contingenti
alleati da essi raccolti; lì si trovava una foresta sterminata, di nome Bacenis, che si
estendeva profonda verso l'interno e formava una sorta di barriera naturale tra i Cherusci
e gli Svevi, impedendo agli uni e agli altri violenze e incursioni: sul limitare della
foresta gli Svevi avevano deciso di attendere l'arrivo dei Romani.





11



Giunti a questo punto, non ci sembra fuori luogo esporre i costumi della Gallia e della
Germania e le differenze tra le due nazioni. In Gallia non solo tutti i popoli, le tribù e
i gruppi, ma addirittura quasi tutte le famiglie sono divise in fazioni. A capo di esse sta
chi, secondo l'opinione dei Galli, è considerato più autorevole, ed egli è arbitro e
giudice in tutti gli affari e le deliberazioni. A quanto pare, l'istituzione risaliva a
tempi antichi, al fine di garantire alla gente del popolo sostegno contro i più potenti.
Infatti, il capo di ogni fazione non permette che la sua gente subisca violenze o raggiri;
in caso contrario, tra i suoi perde ogni autorità. Lo stesso sistema regola ogni aspetto
della vita in Gallia, tant'è vero che tutti i popoli sono divisi in due fazioni.





12



Al momento dell'arrivo di Cesare in Gallia, una fazione faceva capo agli Edui, l'altra ai
Sequani. Quest'ultimi, di per sé meno influenti - fin dai tempi antichi la massima autorità
era nelle mani degli Edui, che avevano molti clienti - si erano uniti ai Germani e ad
Ariovisto, attirandoli con grandi elargizioni e promesse. Riportati diversi successi in
battaglia ed eliminati tutti i nobili edui, i Sequani avevano superato in potenza gli Edui
stessi, al punto da sottrarre loro la maggior parte dei popoli soggetti, da costringerli a
dare in ostaggio i figli dei capi e a giurare pubblicamente di non intraprendere nulla
contro di loro; inoltre, si erano impadroniti, con le armi, di una parte del territorio
eduo contiguo al loro e avevano ottenuto la supremazia su tutta la Gallia. Diviziaco,
spinto dalla necessità, si era recato a Roma, dal senato, per chiedere aiuto, ma era
ritornato con un nulla di fatto. L'arrivo di Cesare aveva prodotto un vero e proprio
capovolgimento: gli Edui si erano visti rendere gli ostaggi, avevano recuperato i vecchi
clienti, ne avevano acquisito di nuovi, grazie a Cesare, perché i popoli che si ponevano
sotto la loro tutela si accorgevano di ricevere un trattamento migliore e di sottostare a
un dominio più equo. Quanto al resto, il prestigio e la dignità degli Edui erano cresciuti,
i Sequani avevano perso l'egemonia. Al loro posto erano subentrati i Remi. Il favore di
Cesare per gli Edui e i Remi era identico, lo si capiva, perciò i popoli che, per antiche
inimicizie, non potevano assolutamente legarsi ai primi, si facevano clienti dei secondi,
che li proteggevano con ogni cura, mantenendo, in tal modo, un prestigio nuovo e assunto di
colpo. Quindi, al momento, la situazione era la seguente: gli Edui erano considerati i
primi in assoluto, i Remi occupavano, in dignità, il secondo posto.





13



In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La
gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende
iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi
gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono
degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima
comprende i druidi, l'altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose,
provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi
giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti,
risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato,
se c'è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d'eredità o di confine, sono sempre
loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno - si tratti di un privato
cittadino o di un popolo - non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici.
È la pena più grave tra i Galli. Chi ne è stato colpito, viene considerato un empio, un
criminale: tutti si scostano alla sua vista, lo evitano e non gli rivolgono la parola, per
non contrarre qualche sciagura dal suo contatto; non è ammesso a chiedere giustizia, né può
essere partecipe di qualche carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode della
massima autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi preceda gli altri druidi in
prestigio, oppure, se sono in parecchi ad avere uguali meriti, la scelta è lasciata ai voti
dei druidi, ma talvolta si contendono la carica addirittura con le armi. In un determinato
periodo dell'anno si radunano in un luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta
al centro di tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione qui si reca e si
attiene alla decisione e al verdetto dei druidi. Si crede che la loro dottrina sia nata in
Britannia e che, da lì, sia passata in Gallia: ancor oggi, chi intende approfondirla, in
genere si reca sull'isola per istruirsi.





14



I druidi, di solito, non prendono parte alle guerre e non pagano tributi come gli altri,
sono esentati dal servizio militare e dispensati da ogni altro onere. Con la prospettiva di
così grandi privilegi, molti giovani si accostano spontaneamente a questa dottrina, molti
altri vengono inviati dai loro genitori e parenti ad apprenderla. Presso i druidi, a quanto
si dice, imparano a memoria un gran numero di versi. E alcuni proseguono gli studi per
oltre vent'anni. Non ritengono lecito affidare i loro insegnamenti alla scrittura, mentre
per quasi tutto il resto, per gli affari pubblici e privati, usano l'alfabeto greco. A mio
parere, hanno stabilito così per due motivi: non vogliono che la loro dottrina venga
divulgata tra il popolo, e neppure che i discepoli, fidando nella scrittura, esercitino la
memoria con più scarso impegno, come accade quasi a tutti, che, valendosi dello scritto, si
applicano meno nello studio e trascurano la memoria. Il loro principale insegnamento
riguarda l'immortalità dell'anima, che dopo la morte - sostengono - passa da un corpo ad un
altro. Lo ritengono un grandissimo incentivo al coraggio, poiché viene eliminata la paura
di morire. Inoltre, sulle stelle e il loro moto, sulla dimensione del cielo e della terra,
sulla natura, sulla potenza e la potestà degli dèi immortali discutono molto e tramandano
questo patrimonio ai giovani.





15



L'altra è la classe dei cavalieri. Quando ce n'è bisogno scoppia qualche guerra (prima
dell'arrivo di Cesare quasi ogni anno se ne verificavano, sia che fossero i Galli ad
attaccare, sia che dovessero difendersi), i cavalieri partecipano al completo alle
operazioni militari. Quanto più uno è influente per nascita e mezzi, tanto più si circonda
di ambacti e di clienti: è l'unica forma di prestigio e di potere che conoscano.





16



Il popolo dei Galli, nel suo complesso, è oltremodo religioso. Per tale motivo, chi è
afflitto da malattie di una certa gravità e chi rischia la vita in battaglia o è esposto ai
pericoli, immola o fa voto di immolare vittime umane e si vale dei druidi come ministri dei
sacrifici. Ritengono, infatti, che gli dèi immortali non possano venir placati, se non si
offre la vita di un uomo in cambio della vita di un altro uomo. Celebrano anche
istituzionalmente sacrifici di tal genere. Alcuni popoli hanno figure umane di enormi
dimensioni, di vimini intrecciati, che vengono riempite di uomini ancor vivi: si appicca il
fuoco e le persone prigioniere lì dentro, avvolte dalle fiamme, muoiono. Credono che agli
dèi immortali sia più gradito, tra tutti, il supplizio di chi è stato sorpreso a commettere
furti, ladrocini o altri delitti, ma quando mancano vittime di questo tipo, si risolvono
anche a suppliziare chi è innocente.





17



Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri. Lo ritengono inventore di
tutte le arti, guida delle vie e dei viaggi, credono che, più di ogni altro, abbia il
potere di favorire i guadagni e i commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove e
Minerva. Su tutti questi dèi la pensano, all'incirca, come le altre genti: Apollo guarisce
le malattie, Minerva insegna i principi dei lavori manuali, Giove è il re degli dèi, Marte
governa le guerre. A quest'ultimo, in genere, quando decidono di combattere, offrono in
voto il bottino di guerra: in caso di vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano
il resto in un unico luogo. Nei territori di molti popoli è possibile vedere, in zone
consacrate, tumuli costruiti con tali spoglie. E ben di rado accade che uno, sfidando il
voto religioso, osi nascondere a casa sua il bottino o sottrarre qualcosa dai tumuli: per
una colpa del genere è prevista una morte terribile tra le torture.





18



I Galli affermano di discendere tutti dal padre Dite e dicono che siano i druidi a
tramandarlo. Per tale motivo calcolano il tempo non sulla base dei giorni, ma delle notti.
E anche i compleanni e i primi giorni del mese e dell'anno li osservano a partire dalla
notte fino al giorno successivo. Per quanto riguarda gli altri usi quotidiani differiscono
dai rimanenti popoli quasi solo per il seguente aspetto: non permettono che i figli li
avvicinino davanti a tutti, se non quando, cresciuti, sono ormai in grado di prestare
servizio militare, e considerano una vergogna che un figlio, in giovane età, si presenti
davanti al padre in pubblico.





19



Gli uomini, fatta la stima della dote portata dalle mogli, mettono in comune, dal loro
patrimonio, l'equivalente dei beni ricevuti. Si fa un computo unico della somma e se ne
conservano gli interessi: chi dei due sopravvive all'altro, entra in possesso dei beni di
entrambi con i frutti degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e di morte
sulle mogli come sui figli. Quando muore un capofamiglia di un certo riguardo, i parenti si
riuniscono e, se nasce qualche sospetto sulla sua morte, interrogano le mogli come si fa
con i servi: se risultano colpevoli, le uccidono dopo averle torturate col fuoco e supplizi
d'ogni sorta. I funerali sono, in rapporto alla civiltà dei Galli, magnifici e sontuosi;
depongono sulla pira ogni cosa cara in vita al defunto, anche gli animali. E fino a poco
tempo fa, insieme al morto, venivano cremati, con le dovute esequie, i servi e i clienti
che si sapevano da lui prediletti.





20



Presso i popoli che, secondo l'opinione comune, sono meglio organizzati, la legge prescrive
che se uno sente, dalle genti limitrofe, voci o notizie riguardanti lo stato, deve
informare il magistrato senza farne cenno ad altri, perché spesso, si sa, gli uomini
avventati e inesperti si lasciano atterrire dalle false notizie, sono spinti a commettere
delitti e prendono decisioni sui problemi più importanti. I magistrati tengono segreto ciò
che sembra loro opportuno e divulgano le altre notizie considerate utili. Non è permesso
trattare questioni di stato se non nelle assemblee.





21



I Germani hanno consuetudini molto diverse. Infatti, non hanno druidi che presiedano alle
cerimonie religiose, né si occupano di sacrifici. Considerano dèi solo quelli che vedono e
dal cui aiuto traggono giovamento palese: il Sole, Vulcano, la Luna. Degli altri dèi non
hanno neanche sentito parlare. Passano tutta la vita tra cacce e addestramento alla guerra:
fin dall'infanzia si abituano alla fatica e alla vita dura. Quanto più a lungo un giovane
rimane casto, tanto più riceve le lodi della sua gente: ritengono che ciò aumenti la
statura, accresca la robustezza fisica e il vigore. E stimano tra le cose più vergognose
aver rapporti intimi con una donna prima dei vent'anni; ma il sesso non viene nascosto, in
quanto maschi e femmine si lavano insieme nei fiumi, indossano pelli o giubbotti di
pelliccia che lasciano scoperta gran parte del corpo.





22



Non praticano l'agricoltura, il loro vitto consiste, per la maggior parte, di latte,
formaggio e carne. Nessuno ha in proprio un terreno fisso o un possesso personale. Anzi,
alle genti e ai nuclei familiari in cui i parenti convivono, i magistrati e i capi
attribuiscono, di anno in anno, la quantità di terra e la zona ritenute giuste, ma l'anno
successivo li costringono a spostarsi altrove. Forniscono, in merito, molteplici
spiegazioni. Non vogliono che la gente, vinta da una costante abitudine, sostituisca la
guerra con l'agricoltura, che desideri procurarsi appezzamenti più estesi e che i più
potenti scaccino dai loro campi i meno forti. Non vogliono che vengano costruite case
confortevoli per difendersi dal freddo e dal caldo, che nasca la brama di denaro, fonte di
fazioni e dissensi, cercano di tenere a bada il popolo con la serenità d'animo, quando
ciascuno si renda conto di possedere quanto i più potenti.





23



Il vanto maggiore per le loro genti è, devastate le zone di confine, di avere intorno a sé
dei deserti, nel raggio più ampio. Ritengono segno distintivo del valore se i vicini,
scacciati dai loro territori, si ritirano e nessuno osa stabilirsi nei pressi. Al contempo,
si sentono più al sicuro, eliminato il timore di un'incursione improvvisa. Quando un popolo
entra in guerra, per difendersi o attaccare, vengono scelti dei magistrati per guidarli, ed
essi hanno potere di vita e di morte. In tempo di pace non ci sono magistrati comuni, ma i
capi delle varie regioni e tribù, al loro interno, amministrano la giustizia e appianano le
controversie. Il ladrocinio non comporta disonore, se commesso fuori dei territori di
ciascun popolo, anzi, lo consigliano per esercitare i giovani e diminuire l'inerzia. E
quando, durante l'assemblea, uno dei capi si dichiara pronto a guidare una spedizione e
chiede ai volontari di farsi avanti, chi è favorevole all'impresa e all'uomo si alza e
promette il proprio sostegno, tra le lodi generali; chi, invece, non si unisce alla
spedizione, viene considerato nel novero dei disertori e dei traditori, e in futuro gli
viene negata fiducia in ogni campo. Considerano sacrilegio recare offesa a un ospite:
chiunque, per qualsiasi motivo, giunga da loro, viene protetto da ogni torto e considerato
sacro, gli sono aperte le porte di tutte le case e con lui viene diviso il cibo.





24



Ci fu, in passato, un tempo in cui i Galli erano più forti dei Germani, li attaccavano e,
avendo una popolazione numerosa e pochi campi, inviavano colonie oltre il Reno. Perciò, le
zone della Germania più fertili attorno alla selva Ercinia - nota, a quanto vedo, a
Eratostene e ad altri Greci, che però la chiamano Orcinia - le occuparono i Volci
Tectosagi, insediandosi lì. Essi abitano ancor oggi la regione e godono di straordinaria
fama quanto a giustizia e valor militare. Ma mentre i Germani mantengono sempre le stesse
condizioni di povertà, stenti e sopportazione, senza aver in nulla mutato il nutrimento e
il tenore di vita, i Galli, invece, dalla vicinanza con le nostre province e dal commercio
marittimo hanno tratto molte ricchezze e vantaggi. Così, si sono gradualmente abituati alla
sconfitta e, vinti in molte battaglie, non osano più neppure paragonarsi ai Germani per
valore.





25



La selva Ercinia, sopra menzionata, si estende per una larghezza equivalente a nove giorni
di marcia per chi viaggi libero da impedimenti: non è possibile, infatti, determinare in
altro modo le sue dimensioni, perché i Germani non conoscono le misure itinerarie. Ha
inizio nei territori degli Elvezi, dei Nemeti e dei Rauraci e, in parallelo con il corso
del Danubio, raggiunge il paese dei Daci e degli Anarti; da qui, piega a sinistra, in
regioni lontane dal fiume e, nella sua vastità, tocca le terre di molti popoli. Non c'è
nessuno, in questa zona della Germania, che possa affermare di aver raggiunto l'inizio
della selva, benché si sia spinto in avanti per sessanta giorni di cammino, o che abbia
sentito dire dove ha principio. Vi nascono, a quanto consta, molte specie di animali mai
visti altrove: di essi descriveremo i più strani e singolari e più degni, a nostro parere,
di menzione.





26



C'è un bue, dalla forma di cervo, che in mezzo alla fronte, tra le orecchie, ha un corno
unico, più alto e più dritto di quelli a noi noti: sulla sommità, il corno si divide in
ampie diramazioni. Uguale è l'aspetto della femmina e del maschio, con corna di identica
forma e grandezza.





27



Ci sono, altresì, le cosiddette alci. Per forma e varietà delle pelli assomigliano alle
capre, ma sono un po' più grosse, hanno le corna senza punta e le zampe senza giunture, per
cui né si sdraiano per riposarsi, né, se per qualche motivo cadono a terra, sono in grado
di rialzarsi o risollevarsi. Come giacigli usano gli alberi: vi si appoggiano e così,
leggermente reclinate, si addormentano. Quando i cacciatori, dalle orme, scoprono il
rifugio delle alci, scalzano o tagliano alla base tutti gli alberi del luogo, stando
attenti che rimanga nell'insieme l'aspetto di alberi ritti. Quando le alci, come al solito,
vi si appoggiano, con il loro peso provocano il crollo degli alberi, già malfermi, e cadono
anch'esse per terra.





28



La terza è la specie dei cosiddetti uri. Sono leggermente più piccoli degli elefanti,
assomigliano ai tori per aspetto, colore e forma. Sono molto forti, estremamente veloci,
non risparmiano né uomini, né animali che abbiano scorto. I Germani si danno molto da fare
per catturarli per mezzo di fosse, e poi li uccidono: i giovani si temprano e si esercitano
in queste fatiche e genere di cacce. Chi ha ucciso diversi uri, ne espone le corna
pubblicamente, a testimonianza della sua impresa, ricevendo grandi elogi. Non si riesce ad
abituare gli uri alla presenza degli uomini, né ad addomesticarli, neppure se catturati da
piccoli. Le corna, per ampiezza, forma e aspetto, sono molto diverse da quelle dei nostri
buoi. Sono un pezzo molto ricercato, le guarniscono d'argento negli orli e le usano come
coppe nei banchetti più sontuosi.





29



Cesare, quando dagli esploratori degli Ubi apprende che gli Svevi si erano rifugiati nelle
selve, decide di non avanzare ulteriormente, temendo che gli venisse a mancare il grano,
visto che tutti i Germani, come abbiamo ricordato prima, non praticano affatto
l'agricoltura. Ma per tener desto nei barbari il timore di un suo possibile ritorno e per
rallentare la marcia dei loro rinforzi, ritira l'esercito e, per duecento piedi di
lunghezza, distrugge la testa del ponte sulla sponda degli Ubi. All'estremità del ponte,
costruisce una torre di quattro piani, lasciando a difesa del medesimo una guarnigione di
dodici coorti e munendo il luogo con salde fortificazioni. Assegna il comando della zona e
della guarnigione al giovane C. Volcacio Tullo. Cesare, invece, non appena il grano
cominciava a maturare, partì per muovere guerra ad Ambiorige, attraverso la selva delle
Ardenne, la più estesa di tutta la Gallia: dalle rive del Reno e dalle terre dei Treveri
giunge fino alla regione dei Nervi, per oltre cinquecento miglia di lunghezza. Manda in
avanscoperta L. Minucio Basilo alla testa di tutta la cavalleria, perché traesse vantaggio
dalla rapidità della marcia e dalle occasioni favorevoli. Lo ammonisce a vietare i fuochi
nell'accampamento, perché da lontano non si scorgessero indizi del suo arrivo, e gli
garantisce che si sarebbe spinto subito dietro di lui.





30



Basilo si attiene agli ordini. Coperta la distanza rapidamente e mentre nessuno se lo
aspettava, coglie di sorpresa molti nemici ancora nei campi. Grazie alle loro indicazioni,
punta su Ambiorige stesso, dirigendosi nel luogo in cui si trovava - così dicevano - con
pochi cavalieri. La Fortuna ha un gran peso in tutto, specie nelle operazioni militari.
Infatti, se per un caso davvero propizio Basilo poté piombare su Ambiorige stesso
cogliendolo alla sprovvista e impreparato (videro di persona l'arrivo del Romano prima che
ne giungesse voce o notizia), d'altro canto fu una vera combinazione se il Gallo riuscì a
sottrarsi alla morte, pur perdendo tutto il suo equipaggiamento militare, i carri e i
cavalli. Ed ecco come andò: la sua casa era circondata da un bosco, come spesso le
abitazioni dei Galli, che, per evitare il caldo, in genere cercano luoghi vicini a fiumi o
selve. Così, i suoi compagni e servi, in una stretta zona d'accesso, ressero per un po' al
nostro assalto. Mentre essi combattevano, uno dei suoi lo fece salire a cavallo: le selve
ne protessero la fuga. Così, la Fortuna ebbe un ruolo determinante prima nel metterlo in
pericolo, poi nel salvarlo.





31



Non è chiaro se Ambiorige non avesse raccolto le sue truppe di proposito, non ritenendo
opportuno uno scontro aperto, oppure se gli fosse mancato il tempo e glielo avesse impedito
l'arrivo improvviso della cavalleria, che credeva seguita dal resto dell'esercito. L'unica
cosa certa è che inviò messi nelle campagne con l'ordine di pensare ciascuno per sé. Alcuni
dei suoi si rifugiarono nella selva delle Ardenne, altri nelle paludi interminabili. Chi
viveva nei pressi dell'Oceano riparò nelle isole che le maree sono solite formare. Molti,
poi, abbandonati i propri territori, affidarono se stessi, con ogni avere, a genti del
tutto estranee. Catuvolco, re di una metà degli Eburoni, che aveva assunto l'iniziativa
insieme ad Ambiorige, era ormai sfinito dagli anni e non poteva reggere le fatiche di una
guerra o di una fuga. Perciò, dopo aver maledetto con ogni sorta d'imprecazioni Ambiorige,
l'ideatore del piano, si tolse la vita con il tasso, una pianta molto diffusa in Gallia e
in Germania.





32



I Segni e i Condrusi, popoli di stirpe germanica e tali ritenuti, che abitano tra gli
Eburoni e i Treveri, mandarono a Cesare un'ambasceria per pregarlo di non considerarli
nemici e di non credere che tutti i Germani stanziati al di qua del Reno avessero fatto
causa comune: essi non avevano pensato alla guerra, né inviato ad Ambiorige rinforzi.
Cesare, accertato come stavano le cose interrogando i prigionieri, comandò ai Segni e ai
Condrusi di ricondurgli eventuali fuggiaschi degli Eburoni giunti nelle loro terre; se
avessero eseguito l'ordine, non avrebbe violato i loro territori. Quindi, divise in tre
corpi le sue truppe e ammassò le salmerie di tutte le legioni ad Atuatuca. È il nome di una
fortezza che si trova circa al centro dei territori degli Eburoni, dove Titurio e
Aurunculeio avevano posto i quartieri d'inverno. Tra gli altri motivi, Cesare approvava la
scelta del luogo soprattutto perché erano ancora intatte le fortificazioni dell'anno
precedente, così avrebbe risparmiato fatica ai soldati. A presidio delle salmerie lasciò la
quattordicesima legione, una delle tre che, arruolate di recente, aveva condotto
dall'Italia. Affidò il comando della legione e del campo a Q. Tullio Cicerone,
assegnandogli duecento cavalieri.





33



Suddiviso l'esercito, ordina a T. Labieno di partire con tre legioni verso l'Oceano,
puntando sulle terre al confine con i Menapi. Alla testa di altrettante legioni invia C.
Trebonio a devastare i territori contigui agli Atuatuci. E lui stesso decide di muoversi,
con le tre restanti legioni, in direzione della Schelda, un fiume che si getta nella Mosa,
e verso le parti più lontane delle Ardenne, dove, stando alle voci, era riparato Ambiorige
con pochi cavalieri. Al momento della partenza, assicura che sarebbe rientrato di lì a
sette giorni, data stabilita per distribuire il grano alla legione di presidio in Atuatuca.
Invita Labieno e Trebonio, se ciò non nuoceva agli interessi di stato, a rientrare lo
stesso giorno: tenuto ancora consiglio e analizzate le intenzioni del nemico, avrebbero
potuto riprendere, su nuove basi, le ostilità.





34



I nemici, come abbiamo detto in precedenza, non avevano un esercito regolare, una fortezza,
un presidio che si difendesse con le armi: erano una massa di uomini sparsi ovunque.
Ciascuno si era appostato dove una valle nascosta, una zona boscosa, una palude
impraticabile offriva una qualche speranza di difesa o di salvezza. Erano luoghi ben noti
agli abitanti della zona, e la situazione richiedeva la massima prudenza, non tanto per
proteggere il grosso dell'esercito (nessun pericolo, infatti, poteva nascere, per le nostre
truppe riunite, da nemici atterriti e sparpagliati), quanto per tutelare i singoli
legionari, cosa che comunque, in parte, riguardava la sicurezza di tutto l'esercito.
Infatti, l'avidità di bottino spingeva molti ad allontanarsi troppo, e le selve, dai
sentieri malsicuri e poco visibili, impedivano ai nostri la marcia in gruppo. Se si voleva
portare a termine l'operazione e annientare quella stirpe di canaglie, era necessario
distaccare diversi gruppi in varie direzioni e dividere i soldati; se, invece, si sceglieva
di tenere i manipoli sotto le insegne, come richiesto dalla regola e dall'uso dell'esercito
romano, la zona stessa avrebbe protetto i barbari, ai quali non mancava l'audacia, per
quanto isolati, di tendere imboscate e di circondare i nostri che si fossero disuniti.
Così, di fronte a tali difficoltà, si provvide con tutta l'attenzione possibile: si
rinunciò perfino a qualche occasione di nuocere al nemico, sebbene tutti bruciassero dal
desiderio di vendetta, piuttosto che farlo a prezzo di nostre perdite. Cesare invia messi
ai popoli confinanti, li fa venire presso di sé e li spinge, con la speranza di bottino, a
saccheggiare le terre degli Eburoni: voleva che fossero i Galli, non i legionari, a
rischiare la vita nelle selve e che, al tempo stesso, in seguito all'affluire di una simile
massa, venissero annientati, come prezzo per la loro colpa, gli Eburoni, nome e stirpe. Da
ogni regione accorre ben presto una gran folla.





35



Ecco cosa succedeva in ogni parte del territorio degli Eburoni, e intanto si avvicinava il
settimo giorno, fissato da Cesare per il suo ritorno alle salmerie e alla legione di
presidio. In questa circostanza si poté constatare il peso della Fortuna in guerra e quali
inattesi eventi essa produca. I nemici erano dispersi e atterriti, lo abbiamo visto; non vi
erano truppe in grado di dare il benché minimo motivo di preoccupazione. Ai Germani, al di
là del Reno, giunge voce che le terre degli Eburoni venivano saccheggiate e che, anzi,
tutti erano chiamati a far bottino. I Sigambri, popolo vicino al Reno, che avevano accolto
- lo abbiamo riferito in precedenza - i Tenteri e gli Usipeti in fuga, radunano duemila
cavalieri. Passano il Reno su imbarcazioni e zattere, trenta miglia più a sud del punto in
cui era stato costruito il ponte e dove Cesare aveva lasciato il presidio. Varcano la
frontiera degli Eburoni, raccolgono molti sbandati, si impossessano di una gran quantità di
capi di bestiame, preda ambitissima dai barbari. Attratti dal bottino, avanzano. Né la
palude, né le selve frenano questi uomini nati tra guerre e saccheggi. Ai prigionieri
chiedono dove sia Cesare; scoprono, così, che si è molto allontanato e che tutto l'esercito
è partito. Allora uno dei prigionieri "Ma perché - dice - vi accanite dietro a questa preda
misera e meschina, quando potreste essere già ricchissimi? Atuatuca è raggiungibile in tre
ore di marcia: lì l'esercito romano ha ammassato tutti i propri averi. I difensori non
bastano neppure a coprire il muro di cinta e nessuno osa uscire dalle fortificazioni". Di
fronte a una tale occasione, i Germani nascondono la preda già conquistata e puntano su
Atuatuca, sotto la guida dell'uomo che li aveva informati.





36



Cicerone, in tutti i giorni precedenti, secondo le disposizioni di Cesare, aveva trattenuto
con molto scrupolo i soldati nell'accampamento, senza permettere che neppure un calone
uscisse dalle fortificazioni. Ma il settimo giorno, non avendo fiducia che Cesare sarebbe
stato puntuale come aveva promesso (giungevano, infatti, voci che si era spinto ancor più
lontano e non si avevano notizie sul suo ritorno) e turbato, al tempo stesso, dalle
critiche di chi definiva la sua pazienza una sorta di assedio, in quanto a nessuno era
concesso di uscire dal campo, stima che, nel raggio di tre miglia, i suoi non avrebbero
corso alcun pericolo: il nemico, già sbandato e pressoché distrutto, aveva di fronte nove
legioni e una fortissima cavalleria. Così, invia cinque coorti a far provvista di grano nei
campi più vicini, che un unico colle separava dall'accampamento. Con Cicerone erano
rimasti, dalle varie legioni, parecchi malati; i soldati guariti in quell'arco di tempo,
circa trecento, formano un distaccamento e vengono mandati con gli altri. E, poi, ottenuto
il permesso, li seguono anche molti caloni con un gran numero di bestie da soma, che erano
rimaste al campo.





37



Proprio in questo momento e frangente sopraggiungono i cavalieri germani, che, proseguendo
senza rallentare l'andatura, tentano un'irruzione dalla porta decumana. Essendo coperti, su
quel lato, dalle selve, vengono scorti solo quando erano ormai nei pressi del campo, al
punto che i mercanti, attendati ai piedi del vallo, non hanno neppure modo di rifugiarsi
all'interno. I nostri, colti alla sprovvista, rimangono scossi dall'evento inatteso, e la
coorte di guardia riesce a respingere a malapena il primo assalto. I Germani si spargono
tutt'intorno, nella speranza di trovare un adito. I nostri difendono a stento le porte, per
il resto l'accesso era impedito solo dalla posizione naturale e dalle fortificazioni. In
tutto il campo regna la confusione, ci si domanda l'un l'altro la causa del tumulto: non si
pensa a disporre le insegne, né a indicare dove ciascuno debba radunarsi. Chi sostiene che
il campo è già caduto, chi afferma che i barbari sono giunti vittoriosi, dopo aver
annientato il nostro esercito e ucciso il comandante. La maggior parte si inventa nuove
superstizioni sulla base del luogo, rievocando il massacro di Cotta e Titurio, avvenuto
proprio lì. Poiché tutti erano terrorizzati da tali paure, i barbari si rafforzano
nell'idea che, come aveva detto il prigioniero, all'interno non c'era alcuna guarnigione.
Cercano di sfondare e si spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani
un'occasione così splendida.





38



Al campo, con la legione di presidio, era rimasto, malato, P. Sestio Baculo, che sotto
Cesare aveva rivestito la carica di centurione primipilo e di cui abbiamo parlato nelle
battaglie precedenti: già da cinque giorni non toccava cibo. Disperando della salvezza sua
e di tutti, esce disarmato dalla tenda. Vede che i nemici incombevano e che il momento era
molto critico: si fa consegnare le armi dai soldati più vicini e si piazza sulla porta. A
lui si uniscono i centurioni della coorte di guardia; per un po' reggono agli assalti,
insieme. Poi Sestio, gravemente ferito, sviene: lo traggono in salvo a stento, passandolo
di braccia in braccia. Ma nel frattempo gli altri si rinfrancano, tanto che osano
attestarsi sui baluardi e danno l'impressione di una vera guarnigione.





39



In quel mentre, i nostri, terminata la raccolta di grano, odono i clamori: i cavalieri
accorrono, si rendono conto della gravità della situazione. Ma qui non c'era nessun riparo
che potesse accogliere gente in preda al panico: soldati appena arruolati e privi di
esperienza militare, rivolgono gli occhi al tribuno e ai centurioni, aspettano i loro
ordini. Ma anche i migliori erano sconvolti dagli eventi inattesi. I barbari, scorgendo in
lontananza le insegne, cessano l'assedio: dapprima pensano al rientro delle legioni che, su
informazione dei prigionieri, sapevano lontane; poi, disprezzando lo scarso numero dei
nostri, li attaccano da ogni lato.





40



I caloni corrono sul rialzo più vicino. Ben presto scacciati, si precipitano tra le insegne
e i manipoli, seminando ancor più scompiglio tra i legionari impauriti. Dei nostri c'era
chi consigliava di formare un cuneo per aprirsi rapidamente un varco, data la vicinanza del
campo: anche se qualcuno, accerchiato, soccombeva, certo gli altri sarebbero riusciti a
mettersi in salvo. E chi, invece, era dell'avviso di attestarsi sul colle e di affrontare
tutti lo stesso destino. I veterani - abbiamo detto che si erano aggregati come
distaccamento - non approvano quest'ultima soluzione. Così, si incoraggiano a vicenda e,
sotto la guida di C. Trebonio, cavaliere romano, loro comandante, forzano al centro la
linea nemica e, sani e salvi dal primo all'ultimo, raggiungono tutti l'accampamento. Alle
loro spalle si lanciano nello stesso attacco i caloni e i cavalieri e vengono salvati dal
valore dei veterani. Gli altri, invece, rimasti in cima al colle, soldati ancora privi di
qualsiasi esperienza militare, non seppero attenersi alla decisione da loro stessi
approvata, cioè di difendersi dall'alto del colle, né imitare la forza e la rapidità che
avevano visto procurare ai loro compagni la salvezza, ma, nel tentativo di ripiegare verso
il campo, scesero su un terreno sfavorevole. I centurioni, alcuni dei quali, per il loro
valore, erano stati promossi dagli ordini inferiori delle altre legioni agli ordini
superiori di questa, caddero sul campo, combattendo con straordinario coraggio, per non
perdere l'onore delle armi che si erano prima conquistati. Parte dei soldati, mentre i
nemici venivano respinti dal valore dei centurioni, contro ogni speranza raggiunse salva
l'accampamento, parte fu circondata dai barbari e uccisa.





41



I Germani, persa la speranza di espugnare il campo, poiché vedevano i nostri ormai ben
saldi sui baluardi, si ritirarono oltre il Reno con il bottino che avevano nascosto nelle
selve. E anche dopo la partenza dei nemici, i nostri rimasero così atterriti, che C.
Voluseno, quando giunse, quella notte stessa, al campo con la cavalleria, non riuscì a far
credere che Cesare stesse arrivando con l'esercito indenne. Il panico si era impadronito
degli animi di tutti al punto che erano quasi usciti di senno: dicevano che l'esercito era
stato annientato e che la cavalleria era riuscita a salvarsi fuggendo, sostenevano che, se
l'esercito non fosse stato distrutto, i Germani non avrebbero attaccato il nostro campo.
L'arrivo di Cesare dissolse ogni paura.





42



Appena rientrato, Cesare, ben sapendo come vanno le cose in guerra, si lamentò solo di un
fatto, che le coorti fossero state spedite fuori dalla guarnigione e dal presidio: non
bisognava lasciare al caso il benché minimo spazio. Giudicò determinante il ruolo della
Fortuna nel repentino attacco nemico, ma ancor più nel respingere i barbari quasi dal vallo
e dalle porte dell'accampamento. Tra tutte le circostanze, però, la più singolare gli parve
che i Germani, varcato il Reno con l'intenzione di saccheggiare i territori di Ambiorige,
si fossero, poi, volti contro l'accampamento dei Romani, rendendo ad Ambiorige stesso il
beneficio più desiderato.





43



Cesare ripartì con lo scopo di devastare i territori nemici e, radunati forti contingenti
di cavalleria dai popoli limitrofi, li invia in ogni direzione. Tutti i villaggi, tutti gli
edifici isolati, appena scorti, erano dati alle fiamme, gli animali venivano sgozzati, si
faceva razzia ovunque, il grano non lo consumavano solo i moltissimi giumenti e soldati, ma
cadeva anche nei campi per la stagione avanzata e le piogge. Così, se anche qualcuno, al
momento, era riuscito a nascondersi, sembrava tuttavia destinato, dopo la partenza
dell'esercito romano, a morte sicura, per totale mancanza di sostentamento. E, suddivisa e
inviata la cavalleria in tutte le direzioni, più d'una volta si giunse al punto che i
prigionieri cercassero con gli occhi Ambiorige, che avevano appena scorto in fuga, e
sostenessero che non poteva essere già fuori di vista. I cavalieri speravano di catturarlo
e si impegnavano senza respiro, ritenendo di poter entrare nelle grazie di Cesare, e con il
loro zelo piegavano, per così dire, la natura, ma, a quanto pareva, si trovavano sempre a
un passo dal successo. Ambiorige si sottraeva alla caccia rifugiandosi in anfratti o
boscaglie, con il favore delle tenebre si spostava in altre regioni e zone, senz'altra
scorta che quattro cavalieri, i soli a cui osasse affidare la propria vita.





44



Devastate in tal modo le regioni, Cesare conduce l'esercito, che aveva subito la perdita di
due coorti, a Durocortoro, città dei Remi. Qui convoca l'assemblea della Gallia e decide di
aprire un'inchiesta sulla cospirazione dei Senoni e dei Carnuti. Accone, responsabile del
piano di sollevazione, fu condannato alla pena capitale e giustiziato secondo l'antico
costume dei nostri padri. Alcuni, temendo il processo, fuggirono. Cesare li condannò
all'esilio. Sistemò nei quartieri invernali due legioni presso i Treveri, due nelle terre
dei Lingoni, le altre sei nella regione dei Senoni, ad Agedinco. Dopo aver provveduto alle
scorte di grano per l'esercito, partì alla volta dell'Italia, come suo solito, per tenervi
le sessioni giudiziarie.

 

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Ultimo aggiornamento: 21-03-05.