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                                         De Bello Gallico

Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni 58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri, popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio della guerra civile.

                                       

                                       (Testo/Traduzione)

 

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Libro I

Libro II

Libro III

Libro IV

Libro V

Libro VI

Libro VII

Libro VIII

 

                                    Libro II

 


1



Mentre Cesare si trovava in Gallia cisalpina e le legioni erano state dislocate - lo si è
visto sopra - negli accampamenti invernali, di frequente gli giungevano delle voci,
confermate anche da una lettera di Labieno: tutti i Belgi, che rappresentano, come abbiamo
detto, una delle tre parti della Gallia, stavano formando una lega contro il popolo romano
e si scambiavano ostaggi. I motivi dell'alleanza erano i seguenti. Primo, temevano che il
nostro esercito, una volta sottomessa la Gallia, li attaccasse. Secondo, ricevevano le
pressioni intanto di parecchi Galli (c'era chi non aveva voluto la presenza dei Germani in
Gallia e, naturalmente, mal sopportava che l'esercito romano svernasse e si impiantasse nel
loro paese e c'era chi, instabile e volubile d'animo, auspicava rivolgimenti politici) e
poi di molti altri: in tutta la Gallia generalmente i regni erano nelle mani di chi aveva
più potere e disponeva dei mezzi per assoldare un esercito, e costoro, sotto il nostro
dominio, non riuscivano così facilmente a raggiungere i loro scopi.





2



Le notizie e la lettera di Labieno spinsero Cesare ad arruolare in Gallia cisalpina due
nuove legioni, e il legato Q. Pedio, all'inizio dell'estate, ricevette l'incarico di
condurle in Gallia transalpina. Cesare stesso raggiunse l'esercito non appena cominciò a
esservi foraggio a sufficienza. Ai Senoni e agli altri Galli confinanti con i Belgi diede
incarico di informarsi e di comunicargli che cosa i Belgi stessero preparando. Tutti,
concordemente, gli riferirono che erano in corso reclutamenti e che le truppe venivano
concentrate in un sol luogo. Solo allora Cesare ritenne che non c'era da esitare a muovere
contro di loro. Preparate le scorte di grano, toglie le tende e in circa quindici giorni
giunge nella regione dei Belgi.





3



Il suo arrivo fu improvviso e più rapido di ogni previsione. I Remi, il popolo belga più
vicino alla Gallia, gli inviarono in veste di ambasciatori Iccio e Andocumborio, i più
insigni tra i cittadini: si ponevano con tutti i loro beni sotto la protezione e l'autorità
del popolo romano; non avevano condiviso i sentimenti degli altri Belgi, né aderito alla
lega contro Roma; erano pronti a consegnare ostaggi, a eseguire gli ordini, ad accogliere i
soldati romani nelle loro città. a rifornirli di grano e di tutto il necessario; gli altri
Belgi erano già in armi e a essi si erano uniti i Germani stanziati al di qua dei Reno; li
aveva presi tutti una smania e follia tale, che i Remi non erano riusciti a dissuadere
neanche i Suessioni, dei fratelli, dei consanguinei: eppure avevano in comune leggi e
diritto, dipendevano da un unico comandante militare e magistrato civile.





4



Cesare chiese ai Remi quanti e quali popoli si trovassero in armi e quanto valessero in
guerra. Ecco che cosa seppe: la maggior parte dei Belgi discendeva dai Germani; anticamente
avevano varcato il Reno attratti dalla fertilità della regione e l'avevano occupata,
scacciando i Galli che l'abitavano; all'epoca dei nostri padri erano stati gli unici a
impedire ai Cimbri e ai Teutoni, che avevano messo a ferro e fuoco tutta la Gallia, di
penetrare nei loro territori; perciò, memori di tale impresa, i Belgi si attribuivano
un'enorme importanza ed erano molto fieri della loro forza militare. Circa il numero dei
partecipanti alla lega, i Remi sostenevano di avere tutti dati sicuri, perché grazie ai
legami di vicinanza e parentela sapevano quanti uomini ciascun popolo avesse promesso per
la guerra nell'assemblea generale dei Belgi. I più potenti per valore, prestigio e numero
erano i Bellovaci, in grado di mettere insieme un esercito di centomila uomini; ne avevano
promessi sessantamila scelti e chiedevano il comando supremo delle operazioni. Loro
confinanti erano i Suessioni, che possedevano territori molto estesi e fertili. Fu loro re,
anche ai nostri giorni, Diviziaco, il sovrano più potente di tutta la Gallia, sotto il cui
dominio erano cadute molte regioni del paese e, addirittura, la Britannia; ora regnava
Galba: a lui, uomo giusto e saggio, era stato conferito il comando supremo per unanime
consenso; le loro città erano dodici ed essi si erano impegnati a fornire cinquantamila
uomini, come pure i Nervi, che tra i Belgi erano i più lontani e avevano fama di essere i
più indomiti; gli Atrebati ne avevano promesso quindicimila, gli Ambiani diecimila, i
Morini venticinquemila, i Menapi settemila, i Caleti diecimila, altrettanti i Veliocassi e
i Viromandui, gli Atuatuci diciannovemila; inoltre, si pensava che i Condrusi, gli Eburoni,
i Cerosi e i Pemani, complessivamente designati con il nome di Germani, avrebbero fornito
circa quarantamila soldati.





5



Cesare incoraggiò i Remi e rivolse loro parole di benevolenza. Ordinò che tutti i senatori
si recassero da lui e che gli fossero consegnati in ostaggio i figli dei più nobili. Tutte
le sue disposizioni vennero puntualmente eseguite nel giorno fissato. Cesare moltiplicò le
pressioni sull'eduo Diviziaco, spiegandogli quanto fosse vitale, per la repubblica e
l'interesse di tutti, tenere divise le forze nemiche, per non dover affrontare in un solo
scontro un esercito così numeroso. E ciò era possibile se gli Edui avessero invaso i
territori dei Bellovaci, incominciando a devastarli. Affidatogli tale incarico, lo congedò.
Quando vide che tutte le truppe dei Belgi, concentrate in un unico luogo, muovevano contro
di lui e apprese, su informazione dei Remi e degli esploratori inviati, che i nemici erano
ormai vicini, si affrettò a tradurre l'esercito al di là del fiume Aisne, che si trova nei
più lontani territori dei Remi, e qui si attestò. Così difendeva un lato dell'accampamento
per mezzo della riva del fiume, metteva al riparo dai nemici la zona alle sue spalle e
garantiva la sicurezza dei rifornimenti inviati dai Remi e dagli altri popoli. Sul fiume
c'era un ponte. Su una sponda pone un presidio e lascia, sull'altra, il legato Q. Titurio
Sabino con sei coorti. Dà ordine di fortificare l'accampamento con un vallo di dodici piedi
d'altezza e una fossa larga diciotto.





6



A otto miglia di distanza dall'accampamento sorgeva una città dei Remi, chiamata Bibrax.
Appena giunti sul posto, i Belgi cominciarono a stringerla d'assedio con accanimento. Per
quel giorno la città, a stento, resistette. I Belgi usano la stessa tecnica di assedio dei
Galli: circondano il perimetro delle mura con un gran numero di uomini e da ogni parte
iniziano a lanciare pietre, costringendo i difensori ad abbandonare i propri posti; poi
formano la testuggine, incendiano le porte e abbattono le mura. E a Bibrax una tale tecnica
era facilmente attuabile: gli attaccanti che scagliavano pietre e dardi erano così
numerosi, che nessuno dei difensori poteva rimanere sulle mura. L'arrivo della notte
costrinse i Belgi a interrompere l'assedio. Il Remo Iccio, persona di nobilissima stirpe,
che godeva di molta influenza tra i suoi e all'epoca era capo della città, inviò a Cesare
un messo, uno degli ambasciatori già mandati per chiedere la pace: se non gli pervenivano
aiuti da Cesare, non era in grado di resistere più a lungo.





7



Cesare, nel cuore della notte, di rinforzo agli abitanti manda truppe della Numidia,
arcieri cretesi e frombolieri delle Baleari, sotto la guida dei messi inviati da Iccio.
L'arrivo dei Romani riaccese le speranze dei difensori e la loro voglia di combattere,
mentre per lo stesso motivo gli assedianti disperarono di poter prendere Bibrax. Perciò,
rimasero per un certo periodo nei pressi della città, devastando i campi dei Remi e
incendiando tutti i villaggi e gli edifici che avevano potuto raggiungere, poi, al gran
completo, puntarono sul campo di Cesare e posero le tende a meno di due miglia di distanza.
Il loro accampamento, a giudicare dal fumo e dai fuochi accesi, si estendeva per più di
otto miglia.





8



In un primo tempo, considerando sia il numero dei nemici, sia la loro fama di soldati
estremamente valorosi, Cesare decise di evitare lo scontro aperto. Ogni giorno, però, con
attacchi di cavalleria saggiava il valore dei nemici e il coraggio dei Romani. Si rese
conto che i nostri non erano inferiori. Il terreno di fronte all'accampamento era
vantaggioso e adatto per schierare l'esercito, perché il colle su cui si trovava il nostro
campo sovrastava leggermente la pianura, si estendeva per uno spazio equivalente a quello
che poteva occupare l'esercito in formazione da combattimento, aveva entrambi i fianchi
scoscesi e la cima arrotondata, che digradava dolcemente verso la pianura. Perciò ordinò di
scavare, alla base di entrambi i fianchi del colle, due fosse trasversali di circa
quattrocento passi, in cima alle quali comandò di costruire ridotte e collocare macchine da
lancio: voleva evitare che, una volta dispiegate le truppe, i nostri durante la battaglia
venissero aggirati dal nemico, che era così numeroso. Attuate tali disposizioni, lasciò
nell'accampamento, pronte a intervenire in caso di necessità, le due legioni arruolate per
ultime e schierò di fronte al campo le altre sei. Allo stesso modo i nemici fecero uscire
le loro truppe e le disposero per lo scontro.





9



Tra il nostro esercito e il nemico c'era una palude non molto estesa. I Belgi aspettavano i
Romani al varco; i nostri, invece, si tenevano armati, pronti ad assalire il nemico in
difficoltà, se avesse tentato per primo il passaggio. Nel frattempo, le cavallerie dei due
eserciti si scontravano. Nessuno osò attraversare per primo il fiume, perciò, dopo che i
nostri cavalieri ebbero la meglio, Cesare ricondusse i suoi nell'accampamento. I nemici si
diressero immediatamente al fiume Aisne, che scorreva - lo si è già detto - dietro il
nostro campo. Trovati alcuni guadi, tentarono di tradurre sull'altra sponda parte delle
truppe. La loro intenzione era, nel migliore dei casi, di espugnare la ridotta comandata
dal legato Q. Titurio e di distruggere il ponte, altrimenti di devastare i campi dei Remi,
che per noi erano di vitale importanza al fine di proseguire la guerra, e di tagliarci i
rifornimenti.





10



Cesare, informato della situazione da Titurio, portò tutta la cavalleria, i Numidi armati
alla leggera, i frombolieri e gli arcieri al di là del ponte e marciò contro il nemico. Lo
scontro fu violento. I nostri li assalirono mentre stavano attraversando il fiume ed erano
in difficoltà. Ne uccisero la maggior parte e respinsero con un nugolo di frecce gli altri
che, con estrema audacia, tentavano di passare sui corpi dei caduti, circondarono con la
cavalleria e uccisero i primi giunti sull'altra sponda. I nemici si resero conto di non
aver più speranze di espugnare la città, né di attraversare il fiume e videro che i nostri
non avanzavano, per dare battaglia, su un terreno sfavorevole. Perciò, dato che anche le
loro scorte di grano incominciavano a scarseggiare, convocarono l'assemblea e decisero che
la cosa migliore era tornare tutti in patria. Sarebbero accorsi in difesa del primo popolo
attaccato dai Romani: così avrebbero combattuto nei propri territori, non in quelli altrui,
e si sarebbero serviti delle scorte di grano che avevano in patria. Giunsero a tale
decisione, tra l'altro, perché avevano saputo che Diviziaco e gli Edui si stavano
avvicinando ai territori dei Bellovaci. E non si poteva convincere questi ultimi ad
attardarsi e a non soccorrere i loro.





11



Presa la decisione, prima di mezzanotte i Belgi lasciarono l'accampamento con grande
strepito e tumulto, senza seguire ordini precisi o comandanti. Ognuno voleva raggiungere la
testa della colonna e si affrettava a rientrare in patria, tanto che la loro partenza
sembrava piuttosto una fuga. Gli osservatori riferirono immediatamente il fatto a Cesare,
ma egli, temendo una trappola, poiché non aveva ancora capito il motivo della loro
partenza, trattenne l'esercito e la cavalleria nell'accampamento. All'alba, quando gli
esploratori confermarono la notizia, Cesare mandò in avanti tutta la cavalleria agli ordini
dei legati Q. Pedio e L. Aurunculeio Cotta, col compito di ostacolare la retroguardia
nemica. Ordinò al legato T. Labieno di seguirli con tre legioni. I soldati romani
assalirono la retroguardia avversaria e protrassero l'inseguimento per molte miglia,
facendo strage dei Belgi in fuga. Gli ultimi della colonna nemica, raggiunti, si fermarono
e ressero con vigore all'urto dei nostri; i primi, invece, ritenendosi fuori pericolo e non
essendo trattenuti né dalla necessità, né da comandanti, non appena udirono i clamori della
battaglia, ruppero l'ordine di marcia e si diedero tutti alla fuga, cercando di salvarsi.
Così, senza correre alcun pericolo, i nostri uccisero tanti nemici, quanti ne consentì la
durata del giorno. Al tramonto posero fine al loro inseguimento e, secondo gli ordini
ricevuti, rientrarono all'accampamento.





12



L'indomani, prima che i nemici potessero riaversi dal terrore e dallo scompiglio della
fuga, Cesare condusse l'esercito nei territori dei Suessioni, al confine con i Remi,
giungendo a marce forzate alla città di Novioduno. Appena giunto sul posto, tentò di
espugnarla, perché si diceva che era sguarnita, ma la larghezza del fossato e l'altezza
delle mura non gli permisero di impadronirsene, nonostante che i difensori fossero
realmente pochi. Forfificato l'accampamento, provvide a spingere in avanti le vinee e a
preparare tutto ciò che serve ad un assedio. Nel frattempo, la notte successiva rientrarono
in città tutti i Suessioni che si erano dati alla fuga. Vedendo che i Romani rapidamente
accostavano le vinee, innalzavano un terrapieno e costruivano delle torri, i Suessioni,
scossi sia dall'imponenza delle opere costruite, mai viste o di cui non avevano mai sentito
parlare prima, sia dalla rapidità dei Romani, mandano a Cesare un'ambasceria per offrire la
resa. Su richiesta dei Remi, ottengono salva la vita.





13



Cesare, ricevuti in ostaggio i cittadini più nobili, tra cui due figli del re Galba stesso,
dopo la consegna di tutte le armi che vi erano in città, accettò la resa dei Suessioni e
guidò l'esercito contro i Bellovaci, asserragliati con tutti i loro beni nella città di
Bratuspanzio. Quando Cesare e le sue legioni distavano circa cinque miglia, tutti i più
anziani uscirono dalla città e iniziarono a esprimere, a parole e con le mani protese verso
Cesare, l'intenzione di porsi sotto la sua protezione e autorità e di non combattere contro
il popolo romano. Allo stesso modo, quando Cesare si era avvicinato alla città e poneva le
tende, dall'alto delle mura i bambini e le donne, con le mani protese, secondo il loro
costume, chiedevano pace ai Romani.





14



In loro favore parlò Diviziaco, che dopo la ritirata dei Belgi aveva rimandato in patria le
truppe edue e raggiunto Cesare: i Bellovaci in ogni circostanza si erano dimostrati alleati
e amici degli Edui; a spingere il popolo erano stati i capi con i loro discorsi, sostenendo
che gli Edui, ridotti in servitù da Cesare, subivano umiliazioni e offese di ogni sorta;
perciò, si erano staccati dagli Edui e avevano dichiarato guerra al popolo romano. I
responsabili della decisione, consapevoli del danno provocato alla loro gente, erano
fuggiti in Britannia. Alle preghiere dei Bellovaci, che chiedevano a Cesare clemenza e
generosità, si aggiungeva l'intercessione degli Edui. E se Cesare avesse risparmiato i
Bellovaci, avrebbe accresciuto l'autorità degli Edui presso tutti i Belgi, che erano soliti
fornire, in caso di guerra, truppe e mezzi per farvi fronte.





15



Cesare disse che, per aumentare il prestigio di Diviziaco e degli Edui, avrebbe accolto e
tenuto sotto la sua protezione i Bellovaci. Poiché erano un popolo di grande autorità tra i
Belgi e molto numerosi, chiese seicento ostaggi. Gli furono consegnati insieme a tutte le
armi della città. Da lì passò nella regione degli Ambiani, che senza indugio si posero con
tutti i loro beni sotto la sua autorità. Gli Ambiani confinavano con i Nervi. Cesare prese
informazioni sul carattere e sui costumi di quest'ultimi e seppe quanto segue: i mercanti
non avevano alcun accesso e i Nervi non permettevano che si introducessero vino o altri
prodotti di lusso, perché ritenevano che indebolissero gli animi e diminuissero la loro
forza; gente rude e molto valorosa, accusavano duramente gli altri Belgi di essersi arresi
al popolo romano e di aver rinnegato la virtù dei padri; assicuravano che non avrebbero
inviato ambascerie. né accettato la pace, a nessuna condizione.





16



Cesare, dopo tre giorni di marcia nella regione dei Nervi, veniva a sapere dai prigionieri
che il fiume Sambre non distava più di dieci miglia dal suo accampamento: al di là del
fiume si erano attestati tutti i Nervi e aspettavano l'arrivo dei Romani insieme agli
Atrebati e ai Viromandui, loro confinanti (li avevano persuasi, infatti, a tentare la
stessa sorte in guerra); attendevano anche le truppe degli Atuatuci, che erano in marcia;
le donne e chi, per ragioni d'età, non poteva essere impiegato in guerra, erano stati
ammassati in un luogo che le paludi rendevano inaccessibile a un esercito.





17



Avute tali informazioni, mandò in avanscoperta alcuni esploratori e centurioni con
l'incarico di scegliere una zona adatta per accamparsi. Al seguito di Cesare c'erano
parecchi Belgi che avevano giurato sottomissione e altri Galli. Alcuni di essi, come si
seppe in seguito dai prigionieri, dopo aver osservato l'ordine di marcia fin lì tenuto dal
nostro esercito, di notte raggiunsero i Nervi e riferirono che tra le singole legioni
procedeva un gran numero di salmerie, per cui non era affatto difficile assalire la prima
legione non appena fosse giunta al campo, mentre le altre erano lontane e i soldati ancora
impacciati dagli zaini. Una volta messa in fuga la prima legione e saccheggiate le
salmerie, le rimanenti legioni non avrebbero osato opporre resistenza. Un altro elemento
giocava a favore del piano degli informatori: fin dai tempi più antichi i Nervi non avevano
contingenti di cavalleria (neppure ai giorni nostri si preoccupano di averne, ma tutta la
loro forza risiede nella fanteria); così, per ostacolare, in caso di razzia, i cavalieri
dei popoli limitrofi, incidevano gli alberi ancora giovani e li piegavano, costringendo i
rami a crescere, fitti, in senso orizzontale; tra gli alberi, poi, piantavano rovi e
arbusti spinosi in modo che le siepi formassero una barriera simile a un muro, impedendo
non solo il passaggio, ma anche la vista. Dato che il nostro esercito avrebbe trovato sulla
sua strada tali ostacoli, i Nervi ritennero di non dover scartare il piano proposto.





18



La conformazione naturale del luogo, scelto dai nostri per l'accampamento, era la seguente:
un colle, che digradava in modo uniforme, scendeva fino alla Sambre, fiume di cui abbiamo
già fatto cenno. Sulla riva opposta, proprio di fronte, sorgeva un altro colle che aveva
identica pendenza: in basso, per un tratto di circa duecento passi, era brullo, mentre
sulla cima aveva fitti boschi, impenetrabili alla vista. Qui i nemici si tenevano nascosti;
nella zona senza vegetazione, lungo il fiume, si vedevano poche squadre di cavalleria. La
profondità del fiume era di circa tre piedi.





19



Cesare, mandata in avanti la cavalleria, la seguiva con tutte le truppe. La disposizione e
l'ordine di marcia, però, erano diversi da quelli che i Belgi avevano riferito ai Nervi.
Infatti, trovandosi in prossimità del nemico, Cesare, secondo la sua abitudine, faceva
avanzare libere da carichi le sei legioni, ponendo dietro di esse i bagagli di tutto
l'esercito; le due legioni di recente arruolate chiudevano lo schieramento e presidiavano
le salmerie. La nostra cavalleria, insieme ai frombolieri e agli arcieri, attraversò il
fiume e si scontrò con i cavalieri avversari. I nemici sistematicamente si ritiravano nei
boschi presso i loro e, da lì, attaccavano i nostri, che non osavano inseguire i fuggitivi
oltre il limite segnato dalla zona pianeggiante e senza vegetazione. Nel frattempo, le sei
legioni che erano in testa, tracciato lo spazio, iniziarono a fortificare il campo. I
nemici, nascosti nelle selve, avevano già formato le linee di attacco e le file,
spronandosi alla lotta: non appena videro i primi carri del nostro esercito - era il
segnale convenuto per l'attacco - in massa si lanciarono in avanti e puntarono contro i
nostri cavalieri. Li volsero in fuga e dispersero con facilità, poi scesero di corsa verso
il fiume, velocissimi: sembrava quasi che fossero, nello stesso istante, sul limitare dei
boschi, nel fiume e già addosso ai nostri. Poi, con altrettanta rapidità, salirono il colle
opposto dirigendosi contro il nostro accampamento e i legionari intenti ai lavori di
fortificazione.





20



Cesare si trovò a dover far tutto contemporaneamente: inalberare il vessillo, con cui si
dava l'avviso di correre alle armi, ordinare gli squilli di tromba, richiamare i soldati
dai lavori, comandare il rientro ai legionari che si erano un po' allontanati in cerca di
materiale, formare la linea di combattimento, esortare i soldati e dare il segnale
d'attacco. La mancanza di tempo e l'incalzare dei nemici impedivano di eseguire la maggior
parte delle suddette operazioni. A fronte di tali difficoltà due fattori erano d'aiuto:
primo, la perizia e l'esperienza dei nostri soldati, che, addestrati dalle precedenti
battaglie, erano in grado di imporsi da soli la condotta necessaria non meno
tranquillamente che se avessero ricevuto precise istruzioni da altri; secondo, l'obbligo
imposto da Cesare ai vari legati di non allontanarsi dalla propria legione prima del
termine dei lavori. I legati, vista la vicinanza e la rapidità dei nemici, non stettero ad
aspettare ordini da Cesare, ma prendevano personalmente le disposizioni che ritenevano
opportune.





21



Cesare, impartiti gli ordini necessari, corse a spronare i soldati, guidato dal caso:
capitò dalla decima legione. Si limitò a incitare i soldati a ricordarsi dell'antico
valore, a non lasciarsi turbare, a reggere con vigore all'assalto nemico. Dato che i Nervi
erano quasi a tiro e i nostri potevano colpirli con le frecce, diede il segnale d'attacco.
E poi si precipitò in un'altra direzione, sempre con lo scopo di incoraggiare i soldati, ma
li trovò che stavano già combattendo. Il tempo fu talmente breve e i nemici così risoluti
che i nostri non riuscirono non solo ad applicare i fregi, ma neppure a mettersi in testa
gli elmi o a togliere le fodere dagli scudi. Chi tornava dai lavori si fermò dove capitava,
presso le prime insegne che vide, per non perdere tempo alla ricerca della sua unità di
appartenenza.





22



L'esercito fu schierato tenendo presente non tanto i dettami della tecnica militare, quanto
la conformazione naturale del luogo, il pendio del colle e le circostanze. Le legioni,
operando separate, resistevano ai nemici in zone diverse. Siepi fittissime, come si è detto
in precedenza, erano frapposte e impedivano la vista. Non era possibile predisporre
adeguati contingenti di riserva e provvedere alle necessità di ciascun settore, era esclusa
l'unità di comando. Perciò, in tanta disparità di situazioni, era inevitabile che la
fortuna giocasse ruoli diversi sul campo di battaglia.





23



I soldati della nona e della decima legione, schierati all'ala sinistra, lanciarono i
giavellotti e respinsero rapidamente i nemici che avevano di fronte, gli Atrebati, rimasti
senza fiato per la corsa e sfiniti dalle ferite; li costrinsero a retrocedere dall'alto
fino al fiume e qui, mentre tentavano il guado e si trovavano in difficoltà, li inseguirono
con le spade in pugno e ne fecero strage. Poi senza esitazione attraversarono il fiume e
avanzarono, anche se la posizione era sfavorevole; i nemici, a loro volta, opposero
resistenza, riaprendo la battaglia, ma i nostri li volsero in fuga. E anche in un altro
settore, due legioni, l'undicesima e l'ottava, agendo separatamente, avevano respinto dalla
sommità del colle i Viromandui, con i quali si erano scontrate, e combattevano ormai sulla
riva del fiume. Ma quasi tutto l'accampamento sulla fronte e sulla sinistra era rimasto
sguarnito (la dodicesima legione e, non lontano, la settima avevano preso posto all'ala
destra), perciò lì puntarono tutti i Nervi in formazione compatta, sotto la guida di
Boduognato, il comandante in capo. Parte di essi iniziò una manovra di aggiramento per
sorprendere le legioni dal fianco scoperto, parte si diresse verso la sommità del nostro
campo.





24



In quel mentre, rientravano nell'accampamento i nostri cavalieri e i fanti armati alla
leggera, che a essi si erano affiancati (entrambi erano stati messi in fuga, come avevamo
detto, al primo assalto dei Nervi). Trovandosi di fronte i nemici, si sbandarono di nuovo,
in un'altra direzione. I caloni, invece, che dalla porta decumana e dalla sommità del colle
avevano visto i nostri, vittoriosi, portarsi oltre il fiume, uscivano dall'accampamento per
far bottino, ma, dopo essersi voltati e aver scorto i nemici nel nostro campo, scapparono
precipitosamente. Nello stesso istante si levavano le grida e gli strepiti degli addetti
alle salmerie: in preda al panico, si lanciarono dove capitava. Scossi da tale confusione,
i cavalieri dei Treveri, che pure rispetto agli altri Galli godono di una fama di
straordinario valore e che erano stati mandati dal loro popolo a Cesare come rinforzo,
quando videro il campo romano pieno di nemici, le legioni pressate da vicino e quasi
circondate, i caloni, i cavalieri, i frombolieri e i Numidi dispersi in fuga disordinata,
si diressero in patria, convinti che la nostra situazione fosse disperata; al loro popolo
annunciarono che i Romani erano stati sconfitti e debellati e che i nemici si erano
impossessati dell'accampamento e delle salmerie.





25



Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l'ala destra, dove
vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della dodicesima legione, vicini l'uno
all'altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol
luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo
perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il
primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in
piedi, sfinito com'era dalle numerose e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze
e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si
sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere
dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di rincalzo,
prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in
prima linea, si rivolse ai centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati
e diede l'ordine di muovere all'attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri
potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e
restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo, voleva dar
prova di valore agli occhi del comandante, per cui l'impeto dei nemici per un po' venne
frenato.





26



Cesare, quando si accorse che anche la settima legione, lì a fianco, era in difficoltà,
comandò ai tribuni militari di avvicinare gradualmente le due legioni e, operata una
conversione, di muovere all'assalto. La manovra permise ai soldati di aiutarsi
reciprocamente e i nostri, adesso che non temevano più l'accerchiamento, iniziarono a
resistere con maggior coraggio e a combattere con più vigore. Nel frattempo, i soldati
delle due legioni della retroguardia, che presidiavano le salmerie, non appena ebbero
notizia dello scontro, raggiunsero di corsa la cima del colle e lì apparvero ai nemici. E
T. Labieno, conquistato il campo dei Nervi, dopo aver visto dall'alto che cosa stava
accadendo nel nostro, mandò in rinforzo la decima legione. Dalla fuga dei cavalieri e dei
caloni i soldati si resero conto di come stavano le cose e di quale minaccia incombesse sul
campo, sulle legioni e sul comandante e si impegnarono al massimo per arrivare al più
presto.





27



Il loro arrivo capovolse la situazione: perfino i nostri feriti si rialzavano da terra
appoggiandosi agli scudi e riprendevano a combattere. I caloni, avendo visto i nemici
impauriti, affrontavano anche disarmati chi era armato. I cavalieri, poi, per cancellare la
vergogna della fuga con una prova di valore, in tutte le zone dello scontro precedevano i
legionari. Ma i nemici, anche ridotti quasi alla disperazione, diedero prova di grandissimo
valore, al punto che i soldati delle seconde file salivano sui corpi dei primi caduti e da
lì combattevano; abbattuti anch'essi, si formavano mucchi di cadaveri, dai quali i
superstiti, come da un tumulo, lanciavano frecce sui nostri e scagliavano indietro i
giavellotti da essi intercettati. Non era da ritenersi senza ragione che uomini così
valorosi avessero osato attraverso un fiume larghissimo, scalare un monte tanto alto e
muovere all'attacco da una posizione assolutamente sfavorevole: il loro eroismo aveva reso
facili delle imprese estremamente difficili.





28



Con la battaglia era pressoché annientata la stirpe e il nome dei Nervi. I più anziani, che
con le donne e i bambini, come si era detto, si trovavano negli stagni e nelle paludi, non
appena seppero l'esito dello scontro, considerando che nulla avrebbe ostacolato i vincitori
o tutelato i vinti, con il consenso di tutti i superstiti mandarono a Cesare dei messi e si
arresero. Menzionando la disfatta subita, gli dissero che di seicento senatori tre soli
erano sopravvissuti e che di sessantamila uomini in grado di combattere se ne erano salvati
a malapena cinquecento. Cesare, per render palese la sua clemenza nei confronti dei miseri
e dei supplici, li tutelò con ogni cura, permise ai Nervi di mantenere territori e città,
ingiunse ai popoli limitrofi e ai loro alleati di non provocare offese o danni.





29



Gli Atuatuci - ne abbiamo parlato prima - stavano accorrendo con l'esercito al completo in
aiuto dei Nervi, ma, non appena fu loro riferito l'esito dello scontro, senza neppure
fermarsi rientrarono in patria. Abbandonata ogni città o torre fortificata, si
asserragliarono con tutti i loro beni in una sola roccaforte, molto ben difesa per
posizione naturale. Da ogni lato la circondavano altissime rupi, da dove la vista dominava;
in un solo punto si apriva un accesso, in lieve pendio, non più largo di duecento passi: lo
avevano fortificato con un duplice muro, altissimo, e ora vi collocavano massi enormi e
travi molto acuminate. Gli Atuatuci discendevano dai Cimbri e dai Teutoni, i quali
all'epoca della loro penetrazione nella nostra provincia e in Italia avevano lasciato al di
qua del Reno le salmerie che non si potevano portare dietro, affidandole a seimila dei
loro, incaricati di custodirle e proteggerle. Costoro, dopo l'annientamento dei Cimbri e
dei Teutoni, per molti anni tormentati dai popoli di confine, sostennero guerre attaccando
o difendendosi. Fatta la pace, con il consenso generale delle genti limitrofe, si erano
scelti come sede la regione in cui si trovavano.





30



In un primo tempo, dopo l'arrivo del nostro esercito, gli Atuatuci effettuavano spesso
sortite e si misuravano con i nostri in scaramucce di poco conto; in seguito, quando
vennero circondati da un vallo di quindici miglia di perimetro con numerose ridotte, si
tenevano entro le mura della città. Le vinee erano già state spinte in avanti e il
terrapieno costruito; ma, quando videro che stavamo preparando, lontano, una torre, dalle
mura incominciarono subito a deriderci e a gridare perché mai un marchingegno così grande
veniva costruito a tanta distanza: su quali mani e quale forza i Romani, piccoletti
com'erano (tutti i Galli, infatti, per lo più disprezzano la nostra statura a confronto
dell'imponenza del loro fisico), facevano conto per avvicinare alle mura una torre così
pesante?





31



Quando, però, videro che la torre veniva mossa e si avvicinava alle mura, scossi dallo
spettacolo, per loro nuovo e inusitato, mandarono a Cesare, per offrire la resa, degli
emissari che si espressero nei termini seguenti: erano convinti che i Romani, capaci di
muovere tanto rapidamente un marchingegno così alto, dovevano godere, in guerra, dell'aiuto
divino, perciò essi si sottomettevano con tutti i propri beni alla loro autorità. Avevano
una sola richiesta, una supplica: se mai Cesare avesse deciso di risparmiarli dando ancora
prova della clemenza e mitezza di cui avevano sentito parlare, lo pregavano di non essere
privati delle armi. Quasi tutti i popoli limitrofi erano loro nemici e invidiavano il loro
valore; una volta consegnate le armi, non avrebbero potuto difendersi. Preferivano, se
dovevano esserne costretti, subire dal popolo romano qualsiasi punizione anziché morire tra
i tormenti per mano di gente su cui erano abituati a comandare.





32



Alle loro richieste Cesare rispose: avrebbe risparmiato il popolo degli Atuatuci, per
proprio costume più che per loro merito, se si fossero arresi prima che l'ariete avesse
toccato le mura: ma l'unica condizione di resa era la consegna delle armi. Si sarebbe
regolato come con i Nervi, ordinando ai popoli confinanti di non infliggere torti a chi si
era arreso al popolo romano. Le parole di Cesare furono riferite e gli Atuatuci si
dichiararono disposti a obbedire. Dal muro gettarono nel fosso, che correva davanti alla
città, una tale quantità di armi, che il cumulo raggiungeva quasi la sommità del muro e
l'altezza del nostro terrapieno: e tuttavia - lo si scoprì in seguito - si erano tenuti e
avevano nascosto in città circa un terzo delle armi. Aperte le porte, per quel giorno
rimasero tranquilli.





33



Verso sera Cesare ordinò che le porte venissero chiuse e che i soldati romani lasciassero
la città, perché non si verificassero atti di violenza nei confronti della popolazione. Gli
Atuatuci, come si capì in seguito, avevano architettato un piano, pensando che i nostri,
dopo la resa, avrebbero tolto i presidi o, almeno, avrebbero allentato la sorveglianza.
Perciò, con le armi che si erano tenute e avevano nascosto oppure con scudi di corteccia o
vimini intrecciati, ricoperti di pelli sul momento, come richiedeva l'esiguo tempo a
disposizione, dopo mezzanotte tentarono in massa un'improvvisa sortita, puntando contro le
nostre fortificazioni per la via meno erta. Rapidamente, come da ordine precedente di
Cesare, furono fatte segnalazioni coi fuochi e dalle ridotte più vicine accorsero i nostri.
Il nemico si batté con accanimento, come si addice a guerrieri valorosi che, costretti a
lottare, nel momento estremo e in una posizione difficile, contro avversari che scagliavano
su di loro frecce dal vallo e dalle torri, ripongono ogni speranza di salvezza solo nel
proprio valore. Ne furono uccisi circa quattromila, gli altri vennero ricacciati in città.
Il giorno seguente furono abbattute le porte, ormai sguarnite, e i nostri soldati entrarono
in città. Cesare vendette all'asta tutto quanto il bottino. I compratori gli riferirono il
numero dei prigionieri: cinquantatremila.





34



Nello stesso tempo P. Crasso, che era stato mandato con una legione nelle terre dei Veneti,
degli Unelli, degli Osismi, dei Coriosoliti, degli Esuvi, degli Aulerci e dei Redoni,
popoli marittimi che si affacciano sull'Oceano, informò Cesare di averli sottomessi tutti
all'autorità e al dominio di Roma.





35



Portate a termine tali imprese e pacificata la Gallia, si diffuse tra i barbari una tale
fama di questa guerra, che i popoli d'oltre Reno inviarono a Cesare ambascerie impegnandosi
alla consegna di ostaggi e all'obbedienza. Cesare, che aveva fretta di partire per l'Italia
e l'Illirico, invitò i messi delle legazioni a ripresentarsi all'inizio dell'estate
successiva. E, condotte le legioni negli accampamenti invernali, nelle terre dei Carnuti,
degli Andi, dei Turoni e dei popoli vicini ai luoghi in cui avevano combattuto, se ne partì
per l'Italia. In seguito alle sue imprese, comunicate per lettera da Cesare stesso, furono
decretati quindici giorni di feste solenni di ringraziamento, onore mai tributato a nessuno
prima di allora.

 

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Ultimo aggiornamento: 21-03-05.