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                                                 De Bello Gallico

 

Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni 58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri, popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio della guerra civile.
 

                                                     (Testo/Traduzione)

 

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Libro I

Libro II

Libro III

Libro IV

Libro V

Libro VI

Libro VII

Libro VIII

 

                                          LIBRO I  Traduzione

 


1



La Gallia è, nel suo complesso, divisa in tre parti: la prima la abitano i Belgi, l'altra
gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua prendono il nome di Celti, nella
nostra, di Galli. I tre popoli differiscono tra loro per lingua, istituzioni e leggi. Il
fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna li separano dai Belgi. Tra
i vari popoli i più forti sono i Belgi, ed eccone i motivi: sono lontanissimi dalla finezza
e dalla civiltà della nostra provincia; i mercanti, con i quali hanno scarsissimi contatti,
portano ben pochi fra i prodotti che tendono a indebolire gli animi; confinano con i
Germani d'oltre Reno e con essi sono continuamente in guerra. Anche gli Elvezi superano in
valore gli altri Galli per la stessa ragione: combattono con i Germani quasi ogni giorno, o
per tenerli lontani dai propri territori o per attaccarli nei loro. La parte in cui, come
si è detto, risiedono i Galli, inizia dal Rodano, è delimitata dalla Garonna, dall'Oceano,
dai territori dei Belgi, raggiunge anche il Reno dalla parte dei Sequani e degli Elvezi, è
volta a settentrione. La parte dei Belgi inizia dalle più lontane regioni della Gallia, si
estende fino al corso inferiore del Reno, guarda a settentrione e a oriente. L'Aquitania,
invece, va dalla Garonna fino ai Pirenei e alla parte dell'Oceano che bagna la Spagna, è
volta a occidente e a settentrione.





2



Tra gli Elvezi il più nobile e il più ricco in assoluto fu Orgetorige. Costui, al tempo del
consolato di M. Messala e M. Pisone, mosso dal desiderio di regnare, spinse i nobili a fare
lega e convinse il popolo a emigrare in massa: sosteneva che avrebbero potuto impadronirsi
dell'intera Gallia con estrema facilità, poiché erano più forti di tutti. Li persuase più
facilmente perché, da ogni parte, gli Elvezi sono bloccati dalla conformazione naturale
della regione: da un lato sono chiusi dal Reno, fiume assai largo e profondo, che divide le
loro terre dai Germani; dall'altro incombe su di essi il Giura, un monte altissimo, al
confine tra Elvezi e Sequani; dal terzo lato sono chiusi dal lago Lemano e dal Rodano, che
li separa dalla nostra provincia. Ne conseguiva che potevano compiere solo brevi
spostamenti e attaccare i popoli limitrofi con maggiore difficoltà. Sotto questo aspetto
gli Elvezi, gente con la voglia di combattere, erano profondamente scontenti. Inoltre, mi
rapporto al loro numero e alla gloria della loro potenza militare, ritenevano di possedere
territori troppo piccoli, che si estendevano per duecentoquaranta miglia in lunghezza e
centottanta in larghezza.





3



Spinti da tali motivi e indotti dal prestigio di Orgetorige, gli Elvezi decisero di
preparare ciò che serviva per la partenza: comprarono quanti più giumenti e carri fosse
possibile, seminarono tutto il grano che gli riuscì di seminare, per averne a sufficienza
durante il viaggio, rafforzarono i rapporti di pace e di amicizia con i popoli più vicini.
Ritennero che due anni fossero sufficienti per portare a termine i preparativi: con una
legge fissarono la partenza al terzo anno. Per eseguire tali operazioni viene scelto
Orgetorige, che si assume il compito di recarsi in ambasceria presso gli altri popoli.
Durante la sua missione, il sequano Castico, figlio di Catamantalede, che era stato per
molti anni signore dei Sequani e aveva ricevuto dal senato del popolo romano il titolo di
amico, venne persuaso da Orgetorige a impadronirsi del regno che in precedenza era stato
del padre. Allo stesso modo Orgetorige convince ad analoga azione l'eduo Dumnorige, al
quale dà in sposa sua figlia. Dumnorige era fratello di Diviziaco, a quel tempo principe
degli Edui e amatissimo dal suo popolo. Orgetorige dimostra a Castico e a Dumnorige che è
assai facile portare a compimento l'impresa, perché egli stesso sta per prendere il potere:
gli Elvezi, senza dubbio, erano i più forti tra tutti i Galli. Assicura che con le sue
truppe e con il suo esercito avrebbe procurato loro il regno. Spinti dalle sue parole, si
scambiano giuramenti di fedeltà, sperando, una volta ottenuti i rispettivi domini, di
potersi impadronire di tutta la Gallia mediante i tre popoli più potenti e più forti.





4



Un delatore svelò l'accordo agli Elvezi. Secondo la loro usanza, essi costrinsero
Orgetorige a discolparsi incatenato: se lo avessero condannato, la pena comportava il rogo.
Nel giorno stabilito per il processo, Orgetorige fece venire da ogni parte tutti i suoi
familiari e servi, circa diecimila persone, nonché tutti i suoi clienti e debitori, che
erano molto numerosi. Grazie a essi riuscì a sottrarsi all'interrogatorio. Mentre il
popolo, adirato per l'accaduto, cercava di far valere con le armi il proprio diritto e i
magistrati radunavano dalle campagne una grande moltitudine di uomini, Orgetorige morì. Non
mancò il sospetto, secondo l'opinione degli Elvezi, che si fosse suicidato.





5



Dopo la morte di Orgetorige, gli Elvezi cercano ugualmente di attuare il progetto di
abbandonare il loro territorio. Quando ritengono di essere ormai pronti per la partenza,
incendiano tutte le loro città, una dozzina, i loro villaggi, circa quattrocento, e le
singole case private che ancora restavano; danno fuoco a tutto il grano, a eccezione delle
scorte che dovevano portare con sé, per essere più pronti ad affrontare tutti i pericoli,
una volta privati della speranza di tornare in patria; ordinano che ciascuno porti da casa
farina per tre mesi. Persuadono i Rauraci, i Tulingi e i Latobici, con i quali confinavano,
a seguire la loro decisione, a incendiare le città e i villaggi e a partire con loro.
Accolgono e si aggregano come alleati i Boi, che si erano stabiliti al di là del Reno,
erano passati nel Norico e avevano assediato Noreia.





6



Le strade, attraverso le quali gli Elvezi potevano uscire dal loro territorio, erano in
tutto due: la prima, stretta e difficoltosa, attraversava le terre dei Sequani tra il monte
Giura e il Rodano e permetteva, a stento, il transito di un carro per volta; inoltre, il
Giura incombeva su di essa a precipizio, in modo tale che pochissimi bastavano facilmente a
impedire il passaggio; la seconda attraversava la nostra provincia ed era molto più agevole
e rapida, perché tra i territori degli Elvezi e degli Allobrogi, da poco pacificati, scorre
il Rodano, che in alcuni punti consente il guado. Ginevra è la città degli Allobrogi più
settentrionale e confina con i territori degli Elvezi, ai quali è collegata da un ponte.
Gli Elvezi, per garantirsi via libera, pensavano di persuadere gli Allobrogi, che non
sembravano ancora ben disposti verso i Romani, o di obbligarli con la forza. Ultimati i
preparativi per la partenza, stabiliscono la data in cui avrebbero dovuto riunirsi tutti
sulla riva del Rodano: cinque giorni prima delle calende di aprile, nell'anno del consolato
di L. Pisone e A. Gabinio.





7



Cesare, appena informato che gli Elvezi si proponevano di attraversare la nostra provincia,
affretta la sua partenza da Roma, si dirige a marce forzate, con la massima rapidità, verso
la Gallia transalpina e giunge a Ginevra. Ordina che tutta la provincia fornisca il maggior
numero possibile di soldati (in Gallia transalpina c'era una sola e unica legione) e dà
disposizione di distruggere il ponte che sorgeva nei pressi della città. Gli Elvezi,
conosciuto il suo arrivo, gli inviano come ambasciatori i cittadini più nobili, con in
testa Nammeio e Veruclezio, incaricati di dirgli che, poiché non esisteva altro cammino,
erano intenzionati ad attraversare la provincia senza arrecare danni e gliene chiedevano
licenza. Cesare, memore che gli Elvezi avevano ucciso il console L. Cassio e costretto
l'esercito romano, dopo averlo sconfitto, a subire l'onta del giogo, non riteneva giusto
concedere il permesso; inoltre, era convinto che questa gente dall'animo ostile non si
sarebbe astenuta da offese e danni, una volta concessa la facoltà di attraversare la
provincia. Tuttavia, per guadagnare tempo fino all'arrivo dei soldati da lui richiesti,
risponde agli ambasciatori che si riservava qualche giorno di tempo per decidere: se a loro
andava bene, ritornassero alle idi di aprile.





8



Nel frattempo, impiegando la legione al suo seguito e i soldati giunti dalla provincia,
Cesare scava un fossato ed erige un muro lungo diciannove miglia e alto sedici piedi, dal
lago Lemano, che sbocca nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i territori dei Sequani
dagli Elvezi. Ultimata l'opera, dispone presidi e costruisce ridotte per respingere con
maggior facilità gli Elvezi, se avessero tentato di passare suo malgrado. Quando giunse il
giorno fissato con gli ambasciatori ed essi ritornarono, Cesare disse che, conforme alle
tradizioni e ai precedenti del popolo romano, non poteva concedere ad alcuno il transito
attraverso la provincia e si dichiarò pronto a impedir loro il passaggio nel caso
cercassero di far ricorso alla forza. Gli Elvezi, persa questa speranza, cercarono di
aprirsi un varco sia di giorno, sia, più spesso, di notte, o per mezzo di barche legate
insieme e di zattere, che avevano costruito in gran numero, o guadando il Rodano nei punti
in cui era meno profondo. Respinti dalle fortificazioni e dall'intervento dei nostri
soldati, rinunciarono ai loro tentativi.





9



Agli Elvezi rimaneva solo la strada attraverso le terre dei Sequani; contro il loro volere,
però, non avrebbero potuto passare, perché era troppo stretta. Da soli non sarebbero
riusciti a persuadere i Sequani, perciò mandarono degli emissari all'eduo Dumnorige, per
ottenere via libera grazie alla sua intercessione. Dumnorige era molto potente presso i
Sequani per il favore di cui godeva e per le sue elargizioni, ed era amico degli Elvezi
perché aveva preso in moglie una elvetica, la figlia di Orgetorige; inoltre, spinto dalla
brama di regnare, tendeva a novità politiche e voleva, mediante i benefici resi, tenere
legati a sé quanti più popoli possibile. Perciò, si assume l'incarico e ottiene che i
Sequani concedano agli Elvezi il permesso di transito e che le due parti si scambino
ostaggi: i Sequani per non ostacolare gli Elvezi durante l'attraversamento del paese, gli
Elvezi per attraversarlo senza provocare offese o danni.





10



A Cesare viene riferito il disegno degli Elvezi di attraversare i territori dei Sequani e
degli Edui per spingersi nella regione dei Santoni, non lontani dai Tolosati, un popolo
stanziato nella nostra provincia. Si rendeva conto che, se ciò fosse accaduto, la presenza
di uomini bellicosi e ostili, al confine di quelle zone pianeggianti ed estremamente
fertili, avrebbe rappresentato un grave pericolo per la provincia. Di conseguenza, posto il
legato T. Labieno a capo delle fortificazioni costruite, si dirige a marce forzate in
Italia, dove arruola due legioni e ne mobilita altre tre, che svernavano nei pressi di
Aquileia. Con le cinque legioni si dirige nella Gallia transalpina per la via più breve,
attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e i Caturigi, appostatisi sulle alture,
tentano di sbarrare la strada al nostro esercito. Respinti questi popoli in una serie di
scontri, da Ocelo, la più lontana città della Gallia cisalpina, Cesare dopo sei giorni di
marcia giunge nel territorio dei Voconzi, nella Gallia transalpina. Da qui conduce
l'esercito nelle terre degli Allobrogi e, poi, dei Segusiavi, il primo popolo fuori della
provincia, al di là del Rodano.





11



Gli Elvezi, oltrepassati con le loro truppe gli impervi territori dei Sequani, erano giunti
nella regione degli Edui e ne devastavano i campi. Gli Edui, non essendo in grado di
difendere se stessi, né i propri beni, inviano a Cesare un'ambasceria per chiedergli aiuto:
in ogni circostanza avevano acquisito meriti presso il popolo romano, perciò non avrebbero
dovuto vedere, quasi al cospetto del nostro esercito, i loro campi saccheggiati, i loro
figli asserviti, le loro città espugnate. Nello stesso tempo gli Ambarri, affini per razza
agli Edui, informano Cesare che i loro campi erano stati devastati e che essi difficilmente
avrebbero potuto tenere lontane dalle loro città le forze nemiche. Allo stesso modo gli
Allobrogi, che al di là del Rodano avevano villaggi e possedimenti, fuggono e si rifugiano
da Cesare, dicendogli che nulla rimaneva loro, se non la terra dei campi. Cesare, spinto da
tali notizie, decide di non dover aspettare che gli Elvezi giungano nei territori dei
Santoni, dopo aver distrutto tutti i beni degli alleati di Roma.





12



C'è un fiume, la Saona, che scorre attraverso i territori degli Edui e dei Sequani e si
versa nel Rodano con incredibile placidità, tanto che a occhio non è possibile stabilire
quale sia il senso della corrente. Gli Elvezi lo stavano attraversando con zattere e
imbarcazioni legate. Cesare, non appena fu informato dagli esploratori che i tre quarti
degli Elvezi erano già sull'altra sponda e che circa un quarto era rimasto al di qua della
Saona, dopo mezzanotte partì dall'accampamento con tre legioni e raggiunse gli Elvezi che
non avevano ancora varcato il fiume. Li colse alla sprovvista, mentre erano ancora
impacciati dalle salmerie: ne uccise la maggior parte, i superstiti fuggirono e si
nascosero nelle selve circostanti. Questa tribù (infatti, il popolo degli Elvezi si divide,
nel suo complesso, in quattro tribù) si chiamava dei Tigurini. I Tigurini, all'epoca dei
nostri padri, erano stati gli unici a sconfinare, avevano ucciso il console L. Cassio e
sottoposto i suoi soldati all'onta del giogo. Così, o per caso o per volontà degli dèi
immortali, la prima a pagare le proprie colpe fu proprio la tribù che aveva inferto al
popolo romano una memorabile sconfitta. Cesare vendicò non solo le offese pubbliche, ma
anche quelle private, perché i Tigurini, nella stessa battaglia in cui era morto Cassio,
avevano ucciso il legato L. Pisone, avo di suo suocero L. Pisone.





13



Dopodiché, per poter raggiungere le rimanenti truppe degli Elvezi, Cesare ordina di
costruire un ponte sulla Saona e, così, trasborda sull'altra riva le sue truppe. Gli
Elvezi, scossi dal suo arrivo repentino, quando si resero conto che per attraversare il
fiume a Cesare era occorso un giorno solo, mentre essi avevano impiegato venti giorni di
enormi sforzi, gli mandarono degli ambasciatori. Li guidava Divicone, già capo degli Elvezi
all'epoca della guerra di Cassio. Divicone parlò a Cesare in questi termini: se il popolo
romano siglava la pace con gli Elvezi, essi si sarebbero recati dove Cesare avesse deciso e
voluto, per rimanervi; se, invece, continuava con le operazioni di guerra, si ricordasse
sia del precedente rovescio del popolo romano, sia dell'antico eroismo degli Elvezi. Aveva
attaccato all'improvviso una sola tribù, quando gli uomini ormai al di là del fiume non
potevano soccorrerla: non doveva, dunque, attribuire troppo merito, per la vittoria, al suo
grande valore, o disprezzare gli Elvezi, che avevano imparato dai padri e dagli avi a
combattere da prodi più che con l'inganno o gli agguati. Perciò, non si esponesse al
rischio che il luogo dove si trovavano prendesse il nome e tramandasse alla storia la
disfatta del popolo romano e il massacro del suo esercito.





14



A tali parole Cesare così rispose: tanto meno doveva esitare, perché ciò che gli
ambasciatori degli Elvezi avevano ricordato era impresso nella sua mente, e quanto minore
era stata la colpa del popolo romano, tanto maggior dolore provava lui per la sconfitta: se
i Romani avessero avuto coscienza di qualche torto commesso, facilmente si sarebbero tenuti
in guardia; ma non pensavano di aver compiuto qualcosa per cui temere, né di dover temere
senza motivo, e questo li aveva traditi. E se anche avesse voluto dimenticare le antiche
offese, poteva forse rimuovere dalla mente le recenti? Gli Elvezi, contro il suo volere,
non avevano cercato di aprirsi a forza un varco attraverso la provincia, non avevano
infierito contro gli Edui, gli Ambarri, gli Allobrogi? Che si gloriassero in modo tanto
insolente e si stupissero di aver evitato così a lungo la punizione delle offese inflitte,
concorreva a uno stesso scopo: gli dèi immortali, di solito, quando vogliono castigare
qualcuno per le sue colpe, gli concedono, ogni tanto, maggior fortuna e un certo periodo di
impunità, perché abbia a dolersi ancor di più, quando la sorte cambia. La situazione stava
così, ma lui era disposto a far pace: gli Elvezi, però, dovevano consegnargli ostaggi, a
garanzia che le promesse le avrebbero mantenute, e risarcire gli Edui, i loro alleati e gli
Allobrogi per i danni arrecati. Divicone replicò che gli Elvezi avevano imparato dai loro
antenati a ricevere, non a consegnare ostaggi; di ciò il popolo romano era testimone. Detto
questo, se ne andò.





15



Il giorno seguente gli Elvezi tolgono le tende. Lo stesso fa Cesare e, per vedere dove si
dirigevano, manda in avanscoperta tutta la cavalleria, di circa quattromila unità,
reclutata sia in tutta la provincia, sia tra gli Edui e i loro alleati. I nostri, inseguita
con troppo slancio la retroguardia degli Elvezi, si scontrano con la cavalleria nemica in
un luogo sfavorevole: pochi dei nostri cadono. Gli Elvezi, esaltati dal successo, poiché
con cinquecento cavalieri avevano sbaragliato un numero di nemici così alto, incominciarono
a fermarsi, di tanto in tanto, con maggiore audacia e a provocare con la loro retroguardia
i nostri. Cesare tratteneva i suoi e si accontentava, per il momento, di impedire al nemico
ruberie, foraggiamenti e saccheggi. Proseguirono per circa quindici giorni la marcia, in
modo che gli ultimi reparti del nemico e i nostri primi non distassero più di cinque o sei
miglia.





16



Nel frattempo, Cesare ogni giorno chiedeva agli Edui il grano che gli avevano promesso
ufficialmente. Infatti, a causa del freddo, dato che la Gallia, come già si è detto, è
situata a settentrione, non solo il frumento nei campi non era ancora maturo, ma non c'era
neppure una quantità sufficiente di foraggio. Del grano, poi, che aveva fatto portare su
nave risalendo la Saona, Cesare non poteva far uso, perché gli Elvezi si erano allontanati
dal fiume ed egli non voleva perderne il contatto. Gli Edui rimandavano di giorno in
giorno: dicevano che il grano lo stavano raccogliendo, che era già in viaggio, che stava
per arrivare. Cesare, quando si rese conto che da troppo tempo si tirava in lungo e che
incalzava il giorno della distribuzione ai soldati, convocò i principi degli Edui, presenti
in buon numero nell'accampamento; tra di essi c'erano Diviziaco e Lisco. Quest'ultimo era
il "vergobreto" - come lo chiamano gli Edui - ossia il magistrato che riveste la carica più
alta, è eletto annualmente e ha potere di vita e di morte sui suoi concittadini. Cesare li
accusa duramente: non lo aiutavano proprio quando il grano non poteva né comprarlo, né
prenderlo dai campi, in un momento così critico e con il nemico così vicino, tanto più che
aveva intrapreso la guerra spinto soprattutto dalle loro preghiere. Perciò, si lamenta
ancor più pesantemente di essere stato abbandonato.





17



Solo allora Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espone ciò che in precedenza aveva
passato sotto silenzio: c'erano degli individui che godevano di grande prestigio tra il
popolo e che, pur non rivestendo cariche pubbliche, avevano da privati più potere dei
magistrati stessi. Erano loro a indurre la massa, con discorsi sediziosi e proditori, a non
consegnare il grano dovuto: sostenevano che, se gli Edui non erano più capaci di conservare
la signoria sul paese, era meglio sopportare il dominio dei Galli piuttosto che dei Romani;
i Romani, una volta sconfitti gli Elvezi, avrebbero senza dubbio tolto la libertà agli Edui
insieme agli altri Galli. E le stesse persone rivelavano ai nemici i nostri piani e tutto
ciò che accadeva nell'accampamento. Lisco non era in grado di tenerle a freno, anzi, adesso
che era stato costretto a palesare a Cesare la situazione così critica, si rendeva conto di
quale pericolo stesse correndo. Ecco il motivo per cui aveva taciuto il più a lungo
possibile.





18



Cesare intuiva che il discorso alludeva a Dumnorige, fratello di Diviziaco, ma non voleva
trattare l'argomento di fronte a troppa gente; così, si affretta a sciogliere l'assemblea,
ma trattiene Lisco. A tu per tu gli chiede delucidazioni su ciò che aveva detto durante la
riunione. Lisco parla con maggior libertà e minor timore. Cesare, poi, prende segretamente
informazioni anche da altre fonti e scopre che era vero: si trattava proprio di Dumnorige,
un individuo di estrema audacia, di gran credito presso il popolo per la sua liberalità e
avido di rivolgimenti. Per parecchi anni aveva ottenuto a basso prezzo l'appalto delle
dogane e di tutte le altre imposte, perché nessuno osava fare concorrenza alle sue offerte.
In questo modo aveva aumentato il patrimonio familiare e si era procurato ingenti mezzi per
fare delle elargizioni. A sue spese finanziava costantemente un gran numero di cavalieri,
che aveva sempre intorno a sé; inoltre, non solo in patria, ma anche tra le genti
confinanti godeva di molta autorità e, per aumentarla, aveva dato in sposa sua madre a un
uomo molto nobile e potente della tribù dei Biturigi, aveva preso in moglie una donna degli
Elvezi, aveva fatto maritare una sua sorella dal lato materno e altre sue parenti con
uomini che appartenevano ad altri popoli. Favoriva gli Elvezi ed era ben disposto nei loro
confronti per ragioni di parentela; nutriva anche un odio personale nei confronti di Cesare
e dei Romani, perché con il loro arrivo il suo potere era diminuito e suo fratello
Diviziaco aveva riacquistato la precedente posizione di influenza e di onore. Nel caso di
una sconfitta dei Romani aveva forti speranze di ottenere il regno con l'appoggio degli
Elvezi; sotto il dominio del popolo romano non poteva nutrire speranze non solo di regnare,
ma neppure di mantenere l'influenza che aveva. Cesare, continuando nella sua indagine,
veniva anche a sapere che nel malaugurato scontro di cavalleria di recente avvenuto, il
primo a fuggire era stato Dumnorige con i suoi (infatti, era lui il comandante della
cavalleria che gli Edui avevano mandato di rinforzo a Cesare): la loro fuga aveva seminato
il panico tra gli altri cavalieri.





19



Cesare, una volta appurato tutto ciò, poiché ai sospetti si aggiungevano dati di assoluta
certezza (Dumnorige aveva fatto passare gli Elvezi attraverso i territori dei Sequani;
aveva promosso lo scambio degli ostaggi; aveva agito sempre senza ricevere ordini da Cesare
o dal suo popolo, anzi a loro insaputa; era, infine, accusato dal magistrato degli Edui),
riteneva che vi fossero motivi sufficienti per procedere personalmente contro Dumnorige o
per invitare il suo popolo a punirlo. A tutte le precedenti considerazioni, una sola si
opponeva: Cesare aveva conosciuto l'eccezionale devozione verso il popolo romano, la
disposizione davvero buona nei propri confronti, la straordinaria fedeltà, giustizia e
misura di Diviziaco, fratello di Dumnorige. Intervenendo contro quest'ultimo, quindi,
temeva di offendere i sentimenti di Diviziaco. Perciò, prima di muoversi contro Dumnorige,
convocò Diviziaco: allontanati i soliti interpreti, utilizzò, per il colloquio, C. Valerio
Trocillo, principe della provincia della Gallia, suo parente, nel quale riponeva la massima
fiducia. Cesare inizia subito col ricordare a Diviziaco tutto ciò che in sua presenza era
stato detto su Dumnorige durante l'assemblea dei Galli e lo mette al corrente delle
informazioni che ciascuno, singolarmente, gli aveva dato sul conto del fratello. Gli
chiede, anzi lo prega di non offendersi, se lui stesso, aperta un'inchiesta contro
Dumnorige, emetterà un giudizio o inviterà gli Edui a emetterlo.





20



Diviziaco abbracciò Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò a implorarlo di non prendere
provvedimenti troppo gravi nei confronti del fratello. Diceva di sapere che era vero, ma ne
era addolorato più di chiunque altro, perché a rendere potente Dumnorige era stato proprio
lui, Diviziaco, quando era molto influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo
fratello non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige, però, si era servito
delle risorse e delle forze acquisite, finendo non solo per diminuire il favore di cui
godeva suo fratello, ma quasi per rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco diceva di essere
mosso sia dall'affetto fraterno, sia dall'opinione della sua gente. Se Cesare condannava
Dumnorige a una pena grave, nessuno avrebbe creduto all'estraneità di Diviziaco, che aveva
una posizione di privilegio, come amico di Cesare, ragion per cui egli avrebbe perso
l'appoggio di tutti i Galli. Piangendo, continuava a rivolgergli parole di supplica.
Cesare, prendendogli la destra, lo consola, gli chiede di non aggiungere altro e gli
dichiara che la sua influenza contava per lui tanto, che avrebbe sacrificato al suo
desiderio e alle sue preghiere sia l'offesa arrecata alla repubblica, sia il proprio
risentimento. Alla presenza del fratello convoca Dumnorige, gli espone gli addebiti da
muovergli, le cose che aveva capito e quelle di cui il suo popolo si lamentava. Lo
ammonisce a evitare in futuro tutti i sospetti e gli dice che gli perdonava il passato in
virtù di suo fratello Diviziaco. Lo mette, però, sotto sorveglianza per poter sapere che
cosa facesse e con chi parlasse.





21



Nello stesso giorno Cesare venne informato dagli esploratori che i nemici si erano fermati
alle pendici di un monte a otto miglia dal suo accampamento. Mandò allora ad accertare
quale fosse la conformazione del monte e se c'era una via d'accesso. Gli riferirono che vi
si poteva salire con facilità. Ordina a T. Labieno, legato propretore, di salire dopo
mezzanotte sulla sommità del monte con due legioni, avvalendosi delle guide che avevano
effettuato il sopralluogo, e gli chiarisce il suo piano. Lui stesso, dopo le tre di notte,
per la stessa via percorsa dal nemico, muove contro gli Elvezi, mandando avanti tutta la
cavalleria. In avanscoperta, con gli esploratori, viene spedito P. Considio, che aveva fama
di soldato espertissimo per avere servito prima nell'esercito di L. Silla e, poi, in quello
di M. Crasso.





22



All'alba, mentre Labieno teneva la sommità del monte e Cesare non distava più di
millecinquecento passi dall'accampamento dei nemici, ignari, come si seppe in seguito dai
prigionieri, sia del suo arrivo, sia della presenza di Labieno, Considio a briglia sciolta
si precipita da Cesare e gli comunica che il monte, di cui Labieno doveva impadronirsi, era
nelle mani dei nemici: lo aveva capito dalle armi e dalle insegne galliche. Cesare comanda
alle sue truppe di ritirarsi sul colle più vicino e le schiera a battaglia. Labieno aveva
ricevuto ordine di non attaccare finché non avesse visto nei pressi dell'accampamento
nemico le truppe di Cesare: lo scopo era di sferrare l'assalto contemporaneamente da tutti
i lati. Labieno, perciò, teneva la sommità del monte e aspettava i nostri, senza attaccare.
Solo a giorno già inoltrato Cesare seppe dagli esploratori che il monte era in mano ai
suoi, che gli Elvezi avevano spostato l'accampamento e che Considio, in preda al panico,
aveva riferito di avere visto ciò che, in realtà, non aveva visto. Quel giorno Cesare segue
i nemici alla solita distanza e si ferma a tre miglia dalle loro posizioni.





23



L'indomani, considerando che mancavano solo due giorni alla distribuzione di grano e che
Bibracte, la città degli Edui più grande e più ricca in assoluto, non distava più di
diciotto miglia, Cesare pensò di dover provvedere ai rifornimenti. Smette di seguire gli
Elvezi e si affretta verso Bibracte. Alcuni schiavi, fuggiti dalla cavalleria gallica del
decurione L. Emilio, riferiscono al nemico la faccenda. Gli Elvezi, o perché pensavano che
i Romani si allontanassero per paura, tanto più che il giorno precedente non avevano
attaccato pur occupando le alture, o perché contavano di poter impedire ai nostri
l'approvvigionamento di grano, modificarono i loro piani, invertirono il senso di marcia e
incominciarono a inseguire e a provocare la nostra retroguardia.





24



Cesare, quando se ne accorse, ritirò le sue truppe sul colle più vicino e mandò la
cavalleria a fronteggiare l'attacco nemico. Nel frattempo, a metà del colle dispose, su tre
linee, le quattro legioni di veterani, mentre in cima piazzò le due legioni da lui appena
arruolate nella Gallia cisalpina e tutti gli ausiliari, riempiendo di uomini tutto il
monte. Ordinò, frattanto, che le salmerie venissero ammassate in un sol luogo e che lo
difendessero le truppe schierate più in alto. Gli Elvezi, che venivano dietro con tutti i
loro carri, raccolsero in un unico posto i bagagli, si schierarono in formazione
serratissima, respinsero la nostra cavalleria, formarono la falange e avanzarono contro la
nostra prima linea.





25



Cesare ordinò di allontanare e nascondere prima il suo cavallo, poi quelli degli altri:
voleva rendere il pericolo uguale per tutti e togliere a ognuno la speranza della fuga.
Spronati i soldati, attaccò. I nostri riuscirono con facilità a spezzare la falange nemica
lanciando dall'alto i giavellotti; una volta disunita la falange, sguainarono le spade e si
gettarono all'assalto. I Galli combattevano con grande difficoltà: molti dei loro scudi
erano stati trafitti e inchiodati da un solo lancio di giavellotti; i giavellotti si erano
piegati, per cui essi non riuscivano né a svellerli, né a lottare nel modo migliore con la
mano sinistra impedita. Molti, dopo avere a lungo agitato il braccio, preferirono gettare a
terra gli scudi e combattere a corpo scoperto. Alla fine, spossati per le ferite,
incominciarono a ritirarsi e a cercar riparo su un monte, che si trovava a circa un miglio
di distanza; lì si attestarono. Mentre i nostri si spingevano sotto, i Boi e i Tulingi, che
con circa quindicimila uomini chiudevano lo schieramento nemico e proteggevano la
retroguardia, aggirarono i nostri e li assalirono dal fianco scoperto. Vedendo ciò, gli
Elvezi che si erano rifugiati sul monte incominciarono a premere di nuovo e a riaccendere
lo scontro. I Romani operarono una conversione e attaccarono su due fronti: la prima e la
seconda linea per tener testa agli Elvezi già vinti e respinti, la terza per reggere
all'urto dei nuovi arrivati.





26



Così, si combatté su due fronti a lungo e con accanimento. Alla fine, quando non poterono
più sostenere l'attacco dei nostri, parte degli Elvezi, come aveva già fatto prima, si mise
al sicuro sul monte, parte si ritirò là dove avevano ammassato i bagagli e i carri. A dire
il vero, per tutto il tempo della battaglia, durata dall'una del pomeriggio fino al
tramonto, nessuno poté vedere un solo nemico in fuga. Nei pressi delle salmerie si lottò
addirittura fino a notte inoltrata, perché gli Elvezi avevano disposto i carri come una
trincea e dall'alto scagliavano frecce sui nostri che attaccavano. Alcuni, appostati tra i
carri e le ruote, lanciavano matare e tragule, colpendo i nostri. Dopo una lunga lotta, i
soldati romani si impadronirono dell'accampamento e delle salmerie. Qui vennero catturati
la figlia di Orgetorige e uno dei figli. Sopravvissero allo scontro centotrentamila Elvezi
e per tutta la notte marciarono ininterrottamente. Senza fermarsi mai neppure nelle notti
seguenti, dopo tre giorni giunsero nei territori dei Lingoni. I nostri, invece, sia per
curare le ferite riportate dai soldati, sia per dare sepoltura ai morti, si attardarono per
tre giorni e non poterono incalzarli. Cesare inviò ai Lingoni una lettera e dei messaggeri
per proibir loro di fornire grano o altro agli Elvezi: in caso contrario, li avrebbe
trattati alla stessa stregua. Al quarto giorno riprese a inseguire gli Elvezi con tutte le
truppe.





27



Agli Elvezi mancava tutto il necessario per proseguire la guerra, perciò inviarono degli
ambasciatori a offrire la resa. Cesare era ancora in marcia quando gli si fecero incontro;
si gettarono ai suoi piedi e gli chiesero pace, piangendo e supplicando. Cesare ordinò agli
Elvezi di aspettarlo dove adesso si trovavano, ed essi obbedirono. Appena giunto, chiese la
consegna degli ostaggi, delle armi e degli schiavi fuggiti. Mentre gli Elvezi stavano
ancora provvedendo alla ricerca e alla raccolta, scese la notte, nelle prime ore della
quale circa seimila uomini della tribù dei Verbigeni lasciarono l'accampamento degli Elvezi
e si diressero verso il Reno e i territori dei Germani: forse temevano di essere uccisi,
una volta consegnate le armi, oppure speravano di salvarsi, pensando che in mezzo a tanta
gente che si era arresa la loro fuga potesse rimanere nascosta o passare del tutto
inosservata.





28



Cesare, appena lo seppe, ordinò ai popoli, attraverso i cui territori erano passati i
Verbigeni, di cercarli e di riportarglieli, se volevano essere giustificati ai suoi occhi.
Trattò come nemici i Verbigeni catturati, mentre accettò la resa degli Elvezi che gli
consegnarono ostaggi, armi e fuggiaschi. Comandò agli Elvezi, ai Tulingi e ai Latobici di
ritornare nei territori dai quali erano partiti e, poiché in patria erano andati perduti
tutti i raccolti e non avevano più nulla con cui sfamarsi, diede disposizione agli
Allobrogi di rifornirli di grano. Ordinò agli Elvezi di ricostruire le città e i villaggi
incendiati. La sua intenzione era, soprattutto, di non lasciare spopolate le zone dalle
quali gli Elvezi si erano mossi: non voleva che i Germani d'oltre Reno passassero nei
territori degli Elvezi, più fertili, venendo a confinare con la provincia della Gallia e
con gli Allobrogi. I Boi, che avevano dato prova di grande valore, ottennero il permesso di
stabilirsi nei territori degli Edui, che lo avevano richiesto. Ai Boi gli Edui diedero
campi da coltivare e, in seguito. concessero parità di diritti e la stessa condizione di
libertà di cui essi stessi godevano.





29



Nell'accampamento degli Elvezi vennero trovate e consegnate a Cesare delle tavolette
scritte in caratteri greci. Si trattava di un elenco nominativo degli uomini in grado di
combattere che avevano lasciato i loro territori; c'era anche, a parte, una lista
riguardante i bambini, i vecchi e le donne. La somma dei due elenchi contava
duecentosessantatremila Elvezi, trentaseimila Tulingi, quattordicimila Latobici,
ventitremila Rauraci, trentaduemila Boi. Circa novantaduemila erano, tra di essi, gli
uomini in grado di portare armi. Il totale ammontava a trecentosessantottomila. Si tenne,
per ordine di Cesare, un censimento generale degli Elvezi che rientravano in patria:
risultarono centodiecimila.





30



Terminata la guerra con gli Elvezi, da quasi tutta la Gallia vennero a congratularsi con
Cesare, in veste di ambasciatori, i più autorevoli cittadini dei vari popoli. Si rendevano
conto che Cesare, con questa guerra, aveva punito gli Elvezi per le vecchie offese da essi
inflitte al popolo romano, ma ne aveva tratto vantaggio la Gallia non meno di Roma: gli
Elvezi, pur godendo di grandissima prosperità, avevano abbandonato la loro terra per
portare guerra a tutta la Gallia, conquistarla e scegliersi per insediamento, tra tutte le
regioni del paese, la zona che avessero giudicato più vantaggiosa e fertile, assoggettando
gli altri popoli con un tributo. Chiesero a Cesare il permesso di fissare una data per una
riunione generale dei Galli: volevano presentargli delle richieste, sulle quali c'era
completo accordo. Cesare acconsentì e tutti giurarono solennemente di non rivelare gli
argomenti trattati, se non su incarico dell'assemblea stessa.





31



Dopo che l'assemblea fu sciolta, si ripresentarono a Cesare i principi delle varie
popolazioni, gli stessi che già erano venuti da lui. Gli chiesero di poter trattare con
lui, segretamente, di questioni che riguardavano non solo loro, ma la salvezza comune.
Ottenuto il permesso, si gettarono tutti ai suoi piedi, supplicandolo: desideravano e si
preoccupavano di non fare trapelare nulla del loro colloquio tanto quanto di vedere
esaudite le proprie richieste, perché erano certi che avrebbero subito i peggiori tormenti,
se la cosa si fosse risaputa. Parlò a nome di tutti l'eduo Diviziaco: tutta la Gallia era
divisa in due fazioni con a capo, rispettivamente, gli Edui e gli Arverni. I due popoli si
erano contesi tenacemente la supremazia per molti anni, fino a che gli Arverni e i Sequani
non erano ricorsi all'aiuto dei Germani, assoldandoli. In un primo tempo, avevano passato
il Reno circa quindicimila Germani; quando, però, questa gente rozza e barbara aveva
incominciato ad apprezzare i campi, la civiltà e le ricchezze dei Galli, il loro numero era
aumentato: adesso, in Gallia, ammontavano a circa centoventimila. Gli Edui e i popoli loro
soggetti li avevano affrontati più di una volta, ma avevano subito una grave disfatta,
perdendo tutti i nobili, tutti i senatori, tutti i cavalieri. In passato, gli Edui
detenevano il potere assoluto in Gallia sia per il loro valore, sia per l'ospitalità e
l'amicizia che li legava al popolo romano; adesso, invece, prostrati dalle battaglie e
dalle calamità, erano stati costretti dai Sequani a consegnare in ostaggio i cittadini più
insigni e a vincolare il popolo con il giuramento di non chiedere la restituzione degli
ostaggi, di non implorare l'aiuto del popolo romano e di non ribellarsi mai alla loro
autorità. Ma lui, Diviziaco, non erano riusciti a costringerlo: tra tutti gli Edui, era
l'unico a non aver giurato, né consegnato i propri figli in ostaggio. Era fuggito dalla sua
terra ed era venuto a Roma dal senato per chiedere aiuto, proprio perché solo lui non era
vincolato da giuramenti o da ostaggi. Ma ai Sequani vincitori era toccata sorte peggiore
che agli Edui vinti: Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito nei territori dei Sequani
e aveva occupato un terzo delle loro campagne, le più fertili dell'intera Gallia; adesso
ordinava ai Sequani di evacuarne un altro terzo, perché pochi mesi prima lo avevano
raggiunto circa ventimila Arudi e a essi voleva trovare una regione in cui potessero
stanziarsi. In pochi anni tutti i Galli sarebbero stati scacciati dai loro territori e
tutti i Germani avrebbero oltrepassato il Reno. Non c'era paragone, infatti, tra le
campagne dei Galli e dei Germani, né tra il loro tenore di vita. Ariovisto, poi, da quando
aveva vinto l'esercito dei Galli ad Admagetobriga, regnava con superbia e crudeltà,
chiedeva in ostaggio i figli di tutti i più nobili e riservava loro ogni specie di
punizione e di tortura, se non eseguivano gli ordini secondo il suo cenno e volere. Era un
uomo barbaro, iracondo e temerario. Non era possibile sopportare più a lungo le sue
prepotenze. Se non avessero trovato aiuto in Cesare e nel popolo romano, a tutti i Galli
non restava che seguire la decisione degli Elvezi: emigrare dalla patria, cercarsi altra
dimora, altre sedi lontane dai Germani e tentare la sorte, qualunque cosa accadesse. Ma se
Ariovisto avesse avuto notizia di tutto questo, senza dubbio avrebbe inflitto terribili
supplizi agli ostaggi in sua mano. Cesare, avvalendosi del prestigio suo e dell'esercito
oppure sfruttando la recente vittoria o il nome del popolo romano, poteva impedire che
aumentasse il numero dei Germani in Gallia e difendere tutto il paese dai torti di
Ariovisto.





32



Quando Diviziaco ebbe finito il suo discorso, tutti i presenti, tra grandi pianti,
iniziarono a chiedere aiuto a Cesare, il quale notò che solo i Sequani non si comportavano
per nulla come gli altri, ma, senza alzare lo sguardo da terra, tenevano la testa bassa,
tristi. Stupito, ne chiese loro il motivo. I Sequani non risposero, continuando a rimanere
in silenzio, nello stesso atteggiamento di tristezza. Più volte Cesare ripeté la sua
domanda, senza ottenere la benché minima risposta. Intervenne ancora Diviziaco: la sorte
dei Sequani era molto più misera e pesante di quella degli altri perché non osavano,
neppure in una riunione segreta, lamentarsi e implorare aiuto e rabbrividivano per la
crudeltà di Ariovisto come se fosse lì presente, anche se era lontano. E poi, perché gli
altri, almeno, avevano la possibilità di fuggire; essi, invece, che avevano accolto
Ariovisto nei loro territori e avevano visto le loro città cadere nelle sue mani, dovevano
sopportare tormenti d'ogni sorta.





33



Cesare, sapute queste cose, rinfrancò i Galli con le sue parole e la promessa che avrebbe
preso a cuore la faccenda: aveva fondate speranze che Ariovisto, in considerazione dei
benefici ricevuti e del prestigio di Cesare, avrebbe posto fine ai suoi torti. Detto ciò,
sciolse l'assemblea. Molte considerazioni, oltre alle precedenti, lo spingevano a ritenere
che fosse necessario riflettere sulla situazione e occuparsene: primo, vedeva che gli Edui,
più volte definiti dal senato fratelli e consanguinei, si trovavano sotto il dominio e la
schiavitù dei Germani e capiva che loro ostaggi si trovavano nelle mani di Ariovisto e dei
Sequani, cosa che giudicava una vergogna per sé e per la repubblica, data la potenza del
popolo romano; secondo, riteneva pericoloso per Roma che, a poco a poco, i Germani
prendessero l'abitudine di oltrepassare il Reno e di stanziarsi in Gallia in numero molto
elevato. Infatti, stimava che questa gente, rozza e barbara, una volta occupata tutta la
Gallia, non avrebbe fatto a meno di passare nella nostra provincia e di dirigersi verso
l'Italia, come un tempo i Cimbri ed i Teutoni, soprattutto tenendo conto che solo il Rodano
divide la nostra provincia dalla regione dei Sequani. Stimava, dunque, di doversi occupare
al più presto del problema. Ariovisto stesso, poi, aveva assunto una superbia e una
arroganza tale, che non lo si poteva più sopportare.





34



Perciò, Cesare decise di mandare ad Ariovisto degli ambasciatori, incaricati di chiedergli
che scegliesse un luogo per un colloquio, a metà strada tra loro: voleva trattare di
questioni politiche della massima importanza per entrambi. Agli ambasciatori Ariovisto così
rispose: se gli serviva qualcosa da Cesare, si sarebbe recato di persona da lui; ma se era
Cesare a volere qualcosa, toccava a lui andare da Ariovisto. Inoltre, non osava recarsi
senza esercito nelle zone della Gallia possedute da Cesare, né era possibile radunare
l'esercito senza ingenti scorte di viveri e grandi sforzi. Del resto, si domandava con
meraviglia che cosa Cesare o, in generale, il popolo romano avessero a che fare nella sua
parte di Gallia, da lui vinta in guerra.



35



Ricevuta tale risposta, Cesare manda di nuovo ad Ariovisto degli ambasciatori, coi compito
di comunicargli quanto segue: durante il consolato di Cesare, il senato e il popolo romano
lo avevano definito re e amico. Adesso, poiché così dimostrava a Cesare e al popolo romano
la sua gratitudine, rifiutandosi di venire a colloquio benché invitato e ritenendo di non
dover discutere o conoscere questioni di interesse comune, Cesare, allora, gli notificava
le proprie richieste: primo, di non far più passare in Gallia altri Germani; secondo, di
restituire gli ostaggi ricevuti dagli Edui e di permettere ai Sequani di rendere quelli che
detenevano per ordine suo; infine, di non provocare ingiustamente gli Edui e di non muovere
guerra né a essi, né ai loro alleati. Regolandosi così, Ariovisto si sarebbe garantito per
sempre il favore e l'amicizia del popolo romano. Cesare, invece, se non avesse ottenuto
quanto chiedeva, non sarebbe rimasto indifferente alle offese inflitte agli Edui, perché
sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone il senato aveva stabilito che il governatore
della Gallia transalpina doveva difendere gli Edui e gli altri amici del popolo romano, per
quanto ciò rispondesse agli interessi di Roma.





36



Ariovisto replicò così: il diritto di guerra permetteva ai vincitori di dominare i vinti a
proprio piacimento; allo stesso modo il popolo romano era abituato a governare i vinti non
secondo le imposizioni altrui, ma a proprio arbitrio. Se Ariovisto non dava ordini ai
Romani su come esercitare il loro diritto, non c'era ragione che i Romani ponessero
ostacoli a lui, quando applicava il suo. Gli Edui avevano tentato la sorte in guerra,
avevano combattuto ed erano usciti sconfitti; perciò, li aveva resi suoi tributari. Era
Cesare a fargli un grave torto, perché con il suo arrivo erano diminuiti i versamenti dei
popoli sottomessi. Non avrebbe restituito gli ostaggi agli Edui, ma neppure avrebbe mosso
guerra a essi, né ai loro alleati, se rispettavano gli obblighi assunti, pagando ogni anno
i tributi. In caso contrario, poco sarebbe servito loro il titolo di fratelli del popolo
romano. Se Cesare lo aveva avvertito che non avrebbe lasciato impunite le offese inferte
agli Edui, gli rispondeva che nessuno aveva combattuto contro Ariovisto senza subire una
disfatta. Attaccasse pure quando voleva: si sarebbe reso conto del valore degli invitti
Germani, che erano addestratissimi e per quattordici anni non avevano mai avuto bisogno di
un tetto.





37



Nel momento stesso in cui a Cesare veniva riferita la risposta di Ariovisto, giungevano
emissari da parte degli Edui e dei Treveri. Gli Edui si lamentavano che gli Arudi, da poco
trasferitisi in Gallia, devastavano il loro territorio: neppure la consegna degli ostaggi
era valsa a ottenere la pace da Ariovisto. I Treveri, invece, dicevano che le cento tribù
degli Svevi si erano stabilite lungo le rive del Reno e tentavano di attraversarlo; li
guidavano i fratelli Nasua e Cimberio. Cesare, fortemente scosso dalle notizie, pensò di
dover stringere i tempi per evitare di incontrare maggiore resistenza, se il nuovo gruppo
degli Svevi si fosse aggiunto alle precedenti truppe di Ariovisto. Perciò, fatta al più
presto provvista di grano, mosse contro Ariovisto forzando le tappe.





38



Dopo tre giorni di marcia gli riferirono che Ariovisto era partito dai suoi territori già
da tre giorni e si dirigeva con tutte le truppe verso Vesonzione, la più grande città dei
Sequani, per occuparla. Cesare giudicò di dover impedire a ogni costo che Vesonzione
cadesse. Infatti, nella città si trovava, in abbondanza, tutto ciò che serve in guerra;
inoltre, era così protetta dalla conformazione naturale, da permettere con facilità le
operazioni belliche: il fiume Doubs la circonda quasi completamente, come se il suo corso
fosse stato tracciato con un compasso; dove non scorre il fiume, in una zona che si estende
per non più di milleseicento piedi, sorge un monte molto elevato, la cui base tocca da
entrambi i lati le sponde del Doubs. Un muro circonda il monte, lo unisce alla città e ne
fa una roccaforte. Cesare qui si diresse, a marce forzate di giorno e di notte. occupò la
città e vi pose un presidio.





39



Nei pochi giorni in cui Cesare si trattenne a Vesonzione per rifornirsi di grano e di
viveri, i Galli e i mercanti, interrogati dai nostri soldati, andavano dicendo che i
Germani erano uomini dal fisico imponente, incredibilmente valorosi e avvezzi al
combattimento; spesso li avevano affrontati, ma non erano neppure riusciti a sostenerne
l'aspetto e lo sguardo. Di colpo, in seguito a tali voci, un timore così grande si
impadronì dei nostri, da sconvolgere profondamente le menti e gli animi di tutti. Dapprima,
si manifestò tra i tribuni militari, i prefetti e gli altri privi di grande esperienza
militare, che avevano seguito Cesare da Roma per ragioni di amicizia. Tutti adducevano
scuse, chi l'una, chi l'altra, sostenendo di avere dei motivi che li costringevano a
partire, e ne chiedevano a Cesare il permesso. Alcuni, trattenuti dalla vergogna,
rimanevano, per non destare sospetti di timore, ma non potevano contraffare l'espressione
del volto, né talora trattenere le lacrime; al sicuro, nelle loro tende, si lamentavano del
loro destino o compiangevano con i loro amici il comune pericolo. In ogni angolo
dell'accampamento si facevano testamenti. I discorsi e la paura di questa gente, a poco a
poco, impressionavano anche le persone provviste di grande esperienza militare: legionari,
centurioni e capi della cavalleria. Chi voleva apparire meno pusillanime diceva di
paventare non tanto il nemico, quanto la strada molto stretta e l'estensione delle foreste
che li dividevano da Ariovisto, oppure di avere paura che il frumento non potesse essere
trasportato tanto facilmente. Alcuni avevano addirittura riferito a Cesare che, all'ordine
di togliere le tende e di avanzare, i soldati non avrebbero obbedito, né levato il campo,
terrorizzati com'erano.





40



Cesare, messo in allarme, riunì il consiglio di guerra e convocò anche i centurioni di ogni
grado. Li rimproverò aspramente, perché, soprattutto, avevano la presunzione di chiedersi e
di rimuginare dove li portasse e con quali intenzioni. Sotto il suo consolato, Ariovisto
aveva ricercato con molta ansia l'amicizia del popolo romano: chi poteva immaginarsi che
sarebbe venuto meno ai propri doveri così avventatamente? Dal canto suo, era convinto che
Ariovisto, conosciute le richieste e constatata l'equità dei patti proposti, non avrebbe
respinto l'appoggio di Cesare e del popolo romano. E se, spinto da un demenziale impulso,
avesse mosso guerra ai Romani, che cosa mai dovevano temere? Che motivo c'era di non aver
più fiducia nel valore dei soldati o nella sua efficienza di generale? Ai tempi dei loro
padri avevano già affrontato il pericolo rappresentato da quei nemici, quando i Cimbri e i
Teutoni erano stati sconfitti da C. Mario e l'esercito si era meritato non meno gloria del
comandante stesso; un pericolo simile lo avevano corso, e non erano passati molti anni,
anche in Italia con la rivolta degli schiavi, che però si erano avvalsi della pratica e
della disciplina imparate dai Romani. Tali esempi permettevano di giudicare come sia
positiva in sé la fermezza d'animo: proprio il nemico, temuto a lungo e senza motivo quando
era privo d'armi, lo avevano successivamente sconfitto quando era armato e già vincitore.
Infine, i Germani erano lo stesso popolo con il quale gli Elvezi si erano più volte
scontrati, non solo nei propri territori, ma anche nei loro, riportando la vittoria nella
maggior parte dei casi. E gli Elvezi non erano riusciti a tener testa all'esercito romano.
Chi era rimasto scosso perché i Galli erano stati sconfitti e messi in fuga, avrebbe
scoperto, se si fosse informato, che Ariovisto aveva logorato i suoi avversari con una
guerra di attesa, tenendosi per molti mesi in un accampamento tra le paludi, senza esporsi
mai. Poi, quando ormai i Galli disperavano di poter combattere e si erano disuniti, li
aveva assaliti, riuscendo, così, a sconfiggerli grazie ai suoi calcoli e ai suoi piani più
che al suo valore. Ma se c'era spazio per questi calcoli contro dei barbari privi di
esperienza militare, neppure Ariovisto stesso si illudeva di poter così sorprendere il
nostro esercito. Chi esprimeva il proprio timore, fingendo di essere preoccupato per le
scorte di grano e per la strada molto stretta, era un insolente, perché osava negare il
senso del dovere del comandante o addirittura voleva impartirgli delle direttive. I suoi
compiti di comandante erano di indurre i Sequani, i Leuci e i Lingoni a fornire il grano,
ormai maturo nei campi; quanto alla strada, avrebbero giudicato tra breve essi stessi. Se
si mormorava che i soldati non avrebbero eseguito gli ordini, né levato il campo, non se ne
curava affatto: conosceva, infatti, casi di disobbedienza da parte delle truppe, ma si
trattava di comandanti che avevano fallito un'impresa ed erano stati abbandonati dalla
fortuna dei quali era stato scoperto qualche misfatto e dimostrata l'avidità. Ma tutta la
sua vita comprovava la sua onestà, la guerra contro gli Elvezi la sua fortuna. Perciò,
avrebbe dato subito l'ordine che voleva rimandare a più tardi: avrebbe levato le tende la
notte successiva, dopo le tre, per accertarsi al più presto se in loro prevaleva la
vergogna, unita al senso del dovere, oppure la paura. E se, poi, nessuno lo avesse seguito,
si sarebbe messo in marcia, comunque, con la sola decima legione, su cui non aveva dubbi:
sarebbe stata la sua coorte pretoria. Nei confronti della decima legione Cesare aveva avuto
una benevolenza particolare e in essa riponeva la massima fiducia per il suo valore.





41



Dopo il discorso di Cesare, lo stato d'animo di tutti mutò in modo sorprendente e in ognuno
nacque una gran voglia di agire, un gran desiderio di combattere. Per prima la decima
legione, attraverso i tribuni militari, lo ringraziò per lo straordinario apprezzamento
ricevuto e confermò di essere prontissima a scendere in campo. Poi le altre legioni, con i
tribuni militari e i centurioni più alti in grado, provvidero a scusarsi con Cesare: non
avevano mai nutrito dubbi o timori, né avevano pensato che la valutazione delle scelte
strategiche spettasse a loro, ma al comandante. Cesare ne accettò le scuse e a Diviziaco,
l'unico a cui riservava la massima fiducia tra i Galli, chiese l'itinerario da seguirsi per
portare l'esercito in luoghi aperti compiendo un giro di oltre cinquanta miglia. Come aveva
preannunziato, dopo le tre di notte partì. Il settimo giorno di marcia ininterrotta fu
informato dagli esploratori che le truppe di Ariovisto distavano dai nostri ventiquattro
miglia.





42



Ariovisto, informato dell'arrivo di Cesare, gli manda degli ambasciatori: il colloquio
sollecitato in precedenza poteva, per quanto lo riguardava, aver luogo, perché Cesare si
era avvicinato ed egli stimava di non correre pericolo. Cesare non respinge la proposta,
perché riteneva ormai che Ariovisto avesse riacquistato il buon senso, visto che offriva
spontaneamente ciò che prima aveva negato, quando ne era stato richiesto. Inoltre, Cesare
nutriva grandi speranze che Ariovisto, in considerazione dei grandi benefici ricevuti da
lui e dal popolo romano, avrebbe deposto la sua ostinazione, una volta conosciuto che cosa
si voleva da lui. Il colloquio fu fissato da lì a cinque giorni. Nel periodo di tempo che
lo precedette, si ebbe un'intensa attività diplomatica. Ariovisto pose come condizione che
Cesare non portasse al colloquio truppe di fanteria, perché temeva di cadere in
un'imboscata: entrambi sarebbero giunti con la cavalleria, altrimenti non si sarebbe
presentato. Cesare non voleva che, per il frapporsi di un pretesto, il colloquio saltasse,
ma neppure osava mettersi nelle mani della cavalleria dei Galli; decise, perciò, che la
cosa più conveniente era lasciare a terra i cavalieri Galli e mettere in sella i soldati
della decima legione, nella quale riponeva la massima fiducia, per avere, se c'era bisogno
di agire, la scorta più leale possibile. Mentre veniva eseguita l'operazione, uno dei
soldati della decima legione, non senza spirito, disse che Cesare aveva fatto per loro più
di quanto avesse promesso: aveva detto che li avrebbe presi come coorte pretoria, adesso li
faceva passare addirittura al rango equestre.





43



C'era un'ampia pianura, con un rialzo di terra abbastanza grande, all'incirca a pari
distanza dagli accampamenti di Ariovisto e di Cesare. Qui, come stabilito, si incontrarono
per il colloquio. A duecento passi dal rialzo, Cesare fermò i legionari che lo seguivano a
cavallo. Anche i cavalieri di Ariovisto si fermarono alla stessa distanza. Ariovisto chiese
che si parlasse senza scendere da cavallo e che ciascuno portasse con sé dieci uomini.
Quando giunsero sul posto, Cesare iniziò il suo discorso ricordando i benefici resi ad
Ariovisto da lui e dal senato: era stato definito re e amico, gli erano stati inviati doni
in abbondanza. Onori del genere toccavano a poche persone ed i Romani, di solito, li
concedevano in considerazione di servigi eccezionali; Ariovisto, invece, pur non avendo né
titoli, né motivo per pretendere simili privilegi, li aveva ottenuti grazie al favore e
alla liberalità di Cesare e del senato. E gli illustrava anche quanto fossero antiche e
giuste le ragioni dei legami che intercorrevano tra i Romani e gli Edui, quante e quali
onorifiche disposizioni il senato avesse preso nei loro riguardi, come gli Edui avessero
sempre detenuto l'egemonia su tutta la Gallia, ancor prima di cercare la nostra amicizia.
Il popolo romano voleva, per consuetudine, che gli alleati e gli amici non solo non
perdessero nulla del potere acquisito, ma vedessero crescere il favore, la dignità, l'onore
di cui godevano: chi poteva, dunque, tollerare che venisse tolto agli Edui ciò che avevano
offerto all'amicizia del popolo romano? Ribadì, poi, le stesse richieste presentate dai
suoi ambasciatori: che Ariovisto non muovesse guerra né agli Edui, né ai loro alleati,
restituisse gli ostaggi e, se non poteva rimandare indietro nessuno dei Germani ormai
presenti in Gallia, almeno non permettesse che altri oltrepassassero il Reno.





44



Ariovisto dedicò poche parole alle richieste di Cesare, ma molte ne spese per elencare i
propri meriti: aveva passato il Reno non per volontà sua, ma su richiesta e invito dei
Galli; non aveva certo lasciato la patria e i congiunti senza viva speranza di forti
ricompense; in Gallia occupava sedi che gli erano state concesse; gli ostaggi gli erano
stati consegnati spontaneamente; percepiva tributi secondo il diritto di guerra, che i
vincitori sono soliti imporre ai vinti. Non era stato lui ad aggredire i Galli, ma i Galli
lui; tutti i popoli della Gallia si erano mossi ed erano scesi in campo contro di lui; li
aveva respinti e sconfitti, tutti, in una sola battaglia. Se i Galli intendevano
riprovarci, era pronto a battersi di nuovo, ma, se desideravano la pace, non era giusto che
si rifiutassero di pagare il tributo fino ad allora versato volontariamente. L'amicizia del
popolo romano doveva essere per lui non un danno, ma un vanto e una protezione, e con
questa speranza l'aveva richiesta. Se a causa del popolo romano doveva rimetterci i tributi
e restituire i prigionieri, avrebbe rinunciato all'amicizia di Roma con lo stesso piacere
con cui l'aveva cercata. Se faceva passare al di qua del Reno molti Germani, era per
difendersi, non per assalire la Gallia: lo testimoniava il fatto che era venuto solo perché
lo avevano chiamato e non aveva mosso guerra, ma si era difeso. Era giunto in Gallia prima
del popolo romano, il cui esercito, in precedenza, non era mai uscito dai confini della
provincia della Gallia. Che cosa cercava Cesare, come mai entrava nei possedimenti di
Ariovisto? Questa parte di Gallia era sua, così come l'altra era nostra. Come non era
ammissibile che i Romani cedessero, se i Germani avessero attaccato il nostro territorio,
così noi, allo stesso modo, eravamo in torto a interferire nel suo diritto. Se Cesare
dichiarava che gli Edui avevano ricevuto il titolo di amici dal senato, gli rispondeva che
non era così barbaro, né sprovveduto da ignorare che gli Edui non avevano aiutato i Romani
nel recente conflitto con gli Allobrogi, né si erano avvalsi del sostegno del popolo romano
nella lotta contro di lui e i Sequani. Doveva sospettare che Cesare simulasse questa
amicizia e tenesse in Gallia un esercito con il solo scopo di sopraffarlo. Se Cesare non si
ritirava con le sue truppe dalle regioni in questione, lo avrebbe considerato non un amico,
ma un nemico. E se lo avesse ucciso, avrebbe fatto cosa gradita a molti nobili e capi del
popolo romano; lo aveva saputo da loro emissari: con la morte di Cesare poteva guadagnarsi
il favore e l'amicizia di tutti loro. Ma se Cesare si allontanava e gli concedeva il libero
possesso della Gallia, lo avrebbe ricompensato ampiamente e gli avrebbe consentito di
muovere qualsiasi guerra volesse, senza travaglio o pericolo alcuno.





45



Cesare, in risposta, spiegò lungamente ad Ariovisto perché non poteva venir meno
all'impegno preso: né lui, né il popolo romano avevano l'abitudine di abbandonare gli
alleati molto benemeriti; inoltre, non riteneva che la Gallia spettasse ad Ariovisto più
che al popolo romano. Q. Fabio Massimo aveva sconfitto gli Arverni e i Ruteni; il popolo
romano li aveva perdonati, non aveva ridotto a provincia i loro territori, né imposto
tributi. Se occorreva riandare ai tempi più antichi, il dominio del popolo romano in Gallia
era il più giusto; se bisognava rispettare il decreto del senato, la Gallia doveva rimanere
libera, perché, vinta in guerra da Roma, aveva voluto mantenere le proprie leggi.





46



Mentre il colloquio andava svolgendosi in questo modo, a Cesare venne riferito che i
cavalieri di Ariovisto si avvicinavano al rialzo e si dirigevano contro i nostri,
scagliando pietre e frecce. Allora interruppe il discorso, raggiunse i suoi e diede ordine
tassativo di non rispondere ai nemici neanche con un dardo. Infatti, anche se nello scontro
con la cavalleria nemica non prevedeva alcun pericolo per la sua legione prediletta,
tuttavia non ritenne opportuno ingaggiar battaglia, perché i nemici, battuti, non potessero
sostenere di essere caduti vittima di un tradimento di Cesare, durante il colloquio. Quando
tra le nostre truppe si sparse la voce, dappertutto, del tono di arroganza assunto da
Ariovisto, che aveva interdetto ai Romani tutta la Gallia, e di come i suoi cavalieri
avessero assalito i nostri, causando l'interruzione del colloquio, nell'esercito si destò
un ardore e un desiderio di combattere ancor più vivo.





47



Due giorni dopo, Ariovisto inviò a Cesare un'ambasceria: voleva trattare delle questioni di
cui avevano cominciato a discutere senza giungere a una conclusione: perciò, gli chiedeva
di scegliere un giorno per un nuovo incontro o, se preferiva, di mandare uno dei suoi in
veste di legato. Cesare non vedeva motivo di riprendere il colloquio, tanto più che il
giorno precedente i Germani non avevano saputo trattenersi dal lanciare frecce contro i
nostri. Riteneva che mandare uno dei suoi in veste di legato, mettendolo nelle mani di
quegli uomini rozzi, fosse molto pericoloso. La cosa più utile gli sembrò inviare C.
Valerio Procillo, un giovane di notevolissimo valore e civiltà, figlio di C. Valerio
Caburo, il quale aveva ricevuto la cittadinanza romana da C. Valerio Flacco: gli dava piena
fiducia, conosceva la lingua gallica, che Ariovisto parlava piuttosto bene per lunga
consuetudine e, infine, i Germani non avevano motivo di essere scorretti nei riguardi di C.
Valerio Procillo. Con lui inviò M. Mezio, che aveva con Ariovisto vincoli di ospitalità.
Cesare li incaricò di sentire le proposte e di riferirgliele. Ma quando Ariovisto li vide
nel suo accampamento, alla presenza del suo esercito cominciò a gridare: cosa venivano a
fare da lui? Volevano spiarlo? I due tentarono di rispondere, ma Ariovisto li obbligò a
tacere e li fece gettare in catene.





48



Quel giorno stesso Ariovisto si spostò in avanti e si stabilì ai piedi di un monte, a sei
miglia dall'accampamento di Cesare. L'indomani transitò con le sue truppe davanti al campo
romano, lo oltrepassò e pose le tende a due miglia di distanza, con l'intento di impedire a
Cesare di ricevere il grano e i viveri che venivano forniti dai Sequani e dagli Edui. Da
quel momento, per cinque giorni consecutivi, Cesare condusse le sue truppe davanti al
campo, in formazione da combattimento, per dare ad Ariovisto la possibilità di misurarsi
con lui, se lo voleva. Ma Ariovisto, per tutti e cinque i giorni, tenne bloccato il suo
esercito nell'accampamento, limitandosi quotidianamente a semplici scaramucce di
cavalleria. I Germani erano addestrati in questa tecnica militare disponevano di seimila
cavalieri e di altrettanti fanti molto veloci e forti; ciascun cavaliere aveva scelto tra
tutta la truppa, a propria tutela, un fante, insieme al quale entrava nella mischia. I
cavalieri si riparavano presso i fanti, che, se c'era qualche pericolo, si precipitavano;
se il cavaliere veniva ferito piuttosto gravemente e cadeva da cavallo, lo attorniavano; se
dovevano spingersi più lontano o ripiegare più alla svelta, si erano garantiti con
l'esercizio una tale rapidità, da reggere all'andatura dei cavalli, tenendosi aggrappati
alla criniera.





49



Constatato che Ariovisto rimaneva nel suo accampamento, Cesare, per non vedersi tagliati i
rifornimenti, scelse una zona adatta per porre le tende, al di là del posto in cui si erano
stabiliti i Germani, a una distanza di circa seicento passi da essi. Schierato l'esercito
su tre linee, giunse al luogo prescelto e ordinò che le prime due linee rimanessero in armi
e che la terza fortificasse l'accampamento. Il luogo distava, come già si è detto, circa
seicento passi dal nemico. Ariovisto vi inviò circa sedicimila uomini senza bagagli e tutta
la cavalleria, per atterrire i nostri e impedire l'opera di fortificazione. Cesare, non di
meno, come aveva in precedenza stabilito, ordinò alle prime due linee di respingere il
nemico e alla terza di portare a termine i lavori. Fortificato il sito, con una parte delle
truppe ausiliarie lasciò due legioni e ricondusse nel campo maggiore le quattro rimanenti.





50



Il giorno successivo, secondo la sua abitudine, Cesare fece uscire le sue truppe dai due
accampamenti, le schierò a battaglia non molto lontano dal campo maggiore e diede al nemico
la possibilità di combattere. Quando si rese conto che neppure allora i nemici si sarebbero
fatti avanti, verso mezzogiorno ordinò ai suoi soldati di rientrare negli accampamenti.
Solo allora Ariovisto inviò una parte delle sue truppe ad assalire il campo minore. Fino a
sera si combatté con accanimento da ambo le parti. Al tramonto Ariovisto richiamò le sue
truppe, che avevano inflitto ai nostri molte perdite, ma molte ne avevano subite. Cesare
chiese ai prigionieri per quale motivo Ariovisto non accettasse lo scontro aperto e ne
scoprì la causa: presso i Germani era consuetudine che le madri di famiglia, consultando le
sorti e i vaticini, dichiarassero se era vantaggioso combattere o no. In questo caso, il
responso era stato il seguente: il destino è avverso alla vittoria dei Germani, se
combatteranno prima della luna nuova.





51



Il giorno successivo Cesare lasciò in entrambi gli accampamenti un presidio a suo parere
sufficiente e dispiegò tutte le truppe degli alleati davanti all'accampamento minore, ben
visibili, sfruttandole per ingannare il nemico, dato che i legionari erano inferiori ai
Germani, dal punto di vista numerico; sistemato l'esercito su tre linee, avanzò fino
all'accampamento dei nemici. Solo allora i Germani furono costretti a condurre fuori le
loro truppe e si disposero secondo le varie tribù, a pari distanza le une dalle altre: gli
Arudi, i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi, gli Svevi. Tutto intorno
collocarono carri e carriaggi, per togliere a chiunque la speranza di fuggire. Sui carri
fecero salire le loro donne, che, mentre essi partivano per combattere, piangevano e con le
mani protese li imploravano di non renderle schiave dei Romani.





52



Cesare mise a capo di ciascuna legione i rispettivi legati e il questore, perché ognuno li
avesse a testimoni del proprio valore; egli stesso guidò l'attacco alla testa dell'ala
destra, perché si era accorto che da quella parte lo schieramento nemico era molto debole.
Al segnale, i nostri attaccarono con tale veemenza e i nemici si slanciarono in avanti così
all'improvviso e con tale rapidità, che non si ebbe il tempo di lanciare i giavellotti. Ci
si sbarazzò di essi e si combatté corpo a corpo, con le spade. I Germani formarono
rapidamente, secondo la loro abitudine, delle falangi e ressero all'assalto condotto con le
spade. Si videro molti soldati romani salire sopra le varie falangi, strappare via con le
mani gli scudi dei nemici e colpire dall'alto. Mentre l'ala sinistra dello schieramento
nemico veniva respinta e messa in fuga, l'ala destra con la sua massa premeva violentemente
sui nostri. Il giovane P. Crasso, comandante della cavalleria, essendo nei movimenti più
libero di chi combatteva nel folto dello schieramento, se ne accorse e mandò la terza linea
in aiuto dei nostri in difficoltà.





53



Questa mossa salvò le sorti della battaglia: i nemici volsero tutti le spalle e non si
fermarono prima di aver raggiunto il Reno, che distava circa cinque miglia dal luogo dello
scontro. Qui, pochissimi o cercarono di attraversare il fiume a nuoto, confidando nelle
proprie forze, o scovarono delle imbarcazioni e si misero in salvo. Tra di loro ci fu
Ariovisto, il quale trovò legata alla riva una piccola barca che gli servì per fuggire;
tutti gli altri Germani furono inseguiti dalla nostra cavalleria e uccisi. Ariovisto aveva
due mogli: una sveva, che si era portato da casa, l'altra norica, sorella del re Voccione,
che gli era stata inviata dal fratello stesso e che Ariovisto aveva sposato in Gallia.
Entrambe morirono nella rotta. Delle due figlie, una fu uccisa, l'altra catturata. C.
Valerio Procillo, mentre durante la fuga veniva portato via dai suoi guardiani legato con
triplice catena, si imbatté proprio in Cesare, che con la cavalleria stava inseguendo i
nemici. Ciò procurò a Cesare una gioia non minore della vittoria stessa, perché si vedeva
restituito, strappato alle mani del nemico, l'uomo più onesto della provincia della Gallia,
suo amico e ospite: la Fortuna non aveva voluto togliere nulla alla sua grande gioia e
contentezza e aveva impedito la morte di C. Valerio Procillo. Il giovane raccontava che, in
sua presenza, erano state consultate tre volte le sorti per decidere se doveva essere arso
sul rogo subito o in un secondo tempo: era vivo per beneficio delle sorti. Anche M. Mezio
fu ritrovato e riportato a Cesare.





54



Quando al di là del Reno si ebbe notizia della battaglia, gli Svevi, che erano giunti alle
rive del fiume, incominciarono a ritornare in patria. Non appena gli Ubi, che abitano nei
pressi del Reno, si accorsero che gli Svevi erano in preda al panico, li inseguirono e ne
uccisero un gran numero. Cesare, che in una sola campagna aveva concluso due grandissime
guerre, tradusse l'esercito negli accampamenti invernali, nelle terre dei Sequani, un po'
prima di quanto non richiedesse la stagione. Qui lasciò Labieno come comandante e si recò
in Gallia cisalpina, per tenervi le sessioni giudiziarie.

 

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Ultimo aggiornamento: 21-03-05.