Si
chiama WTO – Organizzazione Mondiale del Commercio.
di Nico Gibaldo
Il 29 novembre scorso si è tenuto il terzo meeting ministeriale del
World Trade Organization (WTO), a Seattle, USA. I sostenitori del "free
trade" hanno preparato un ricco menù per questo incontro; volevano
imporre le loro regole in settori come l’alimentazione, l’agricoltura,
i servizi sanitari, l’istruzione, i diritti di proprietà intellettuale
sulle forme di vita.
L’insurrezione inscenata dai 40mila dimostranti contro il vertice del
World Trade Organization – con replica poche settimane più tardi a
Davos, in Svizzera – ha acquisito già valore simbolico, divenendo
emblema di un nuovo, se possibile antagonismo sociale. E siccome la
portata del "nemico" – il potere neocolonialista delle
multinazionali – è planetaria, analoga dev’essere la scala su cui si
misura chi lo combatte.
Questo è il sintomo della titanica mutazione in corso nei processi
economici, fulcro della quale è la massima concentrazione dei capitali
(caso più clamoroso, la recente fusione fra America On Line e Time Warner)
associata al decentramento della produzione materiale, verso quei paesi
dov’è ancora possibile lo sfruttamento intensivo della manodopera.
Del resto, tra i tycoons della nuova era non v’è motto più
diffuso del classico "essere da nessuna parte per essere
ovunque". Come delle razze aliene, Mc Donald’s e Nike sono aziende
che non hanno radicamento in un territorio o in una comunità, qui sta la
loro forza ma anche la loro vulnerabilità.
Ma cos’è e come opera il WTO?
Nato nel 1995, il WTO è l’organizzazione mondiale per il commercio
che ha ottenuto in dote gli accordi scaturiti dalle varie trattative
commerciali svoltesi nel corso degli anni dal 1947 (anno della prima
versione del GATT, l’Accordo sulle tariffe e il Commercio) ad oggi.
Il WTO è l’organismo preposto a dirimere le questioni giuridiche fra
nazioni, nell’ambito del commercio, e ad essere la sede ufficiale delle
trattative mondiali. E’ uno degli strumenti principali della
globalizzazione attuata dalle multinazionali. Anche se ufficialmente
dichiara di basarsi sul "free trade", nei fatti, le oltre 700
pagine di regole che costituiscono gli accordi su cui si basa, creano un
commercio regolato di fatto dalle multinazionali. Secondo il sistema
gestito dal WTO l’efficienza economica, tradotta in profitti per le
società, domina qualsiasi altro valore.
Qualcuno chiama questo modello neoliberismo, e lo riassume come:
trascurare le regole ambientali, la salvaguardia dei diritti dei
lavoratori e della salute pubblica in modo da fornire lavoro e materie
prime a basso costo alle multinazionali.
Si sta rafforzando un sistema mondiale di regole che stabiliscono che
le "corporation" hanno solo diritti, i governi hanno solo doveri…
e la democrazia sta finendo nel cestino dei rifiuti. Ora le società
transnazionali vogliono ancora di più, un nuovo "Millenium
Round" di trattative per accelerare la corsa all’espansione pei
poteri del WTO.
Le regole su cui si basa il WTO, si occupano di quello che in gergo si
definiscono come barriere non doganali (non-tariff barriers to trade), in
pratica leggi sanitarie, regolamenti sui prodotti, sistemi fiscali
interni, politiche d’investimenti e qualsiasi altra legge di un paese
che in qualche modo può influenzare il commercio di qualche prodotto. L’influenza
del WTO nelle legislazioni interne si è fatta perciò pesante.
Attualmente sono 134 i paesi che ne fanno parte e 33 sono osservatori.
Ufficialmente le decisioni sono prese per consenso ma nella pratica a
tirare le fila sono Canada, Giappone, USA ed Unione Europea.
Il WTO permette a un paese di chiamarne in giudizio un altro
accusandolo di violare le regole del commercio internazionale. Il Paese
che perde la causa ha allora tre possibilità:
affrontare sanzioni commerciali.
Tutti gli accordi firmatari hanno in comune alcuni punti, fra i quali i
più importanti sono:
1. Riduzione delle tasse doganali. Con l’eliminazione o la
riduzione dei dazi doganali sui prodotti si riducono le spese di
esportazione, creando al contempo, nuovi mercati ai produttori.
2. Trattamento di Nazione più favorita. Obbliga ogni Stato a
trattare investitori e compagnie straniere allo stesso modo.
3. Eliminazione di quote restrittive. Proibisce l’uso di
restrizioni all’import-export delle merci.
Il problema è che apparentemente possono sembrare dei buoni principi,
ma calati nella realtà delineano un formidabile ambiente in cui la
sovranità nazionale decade a favore delle società multinazionali che,
grazie al loro potere, sono le uniche a poter sfruttare le nuove regole.
Gli Stati Uniti chiamarono in giudizio l’Unione Europea poiché
questa aveva messo al bando le importazioni di carne trattata con ormoni.
Risultato: nel 1998 il WTO ha accettato la tesi americana, intimando all’UE
di eliminare il bando entro il 13 maggio 1999, e in seguito ha stabilito
il valore delle sanzioni applicabili.
Riguardo all’etichettatura dei cibi, il WTO riconosce il Codex
Alimentarius, un’agenzia al cui interno vi sono anche rappresentanti di
multinazionali, come arbitro degli standard di sicurezza alimentare. Le
regole dell’SPS (l’accordo riguardante gli standard sanitari e
fitosanitari) restringono il diritto di un paese ad etichettare i prodotti
con informazioni che possono interessare il consumatore, come il metodo di
produzione o la presenza di organismi geneticamente manipolati.
Anche come dimostra questo caso, il diritto dei consumatori ad avere
cibi sani e sistemi di allevamento più naturali sono stati ignorati.
Per quanto riguarda, poi, l’agribusiness secondo il WTO, la tesi è
che un paese piuttosto che divenire autosufficiente deve poter acquistare
tutto sul mercato internazionale pagando con i proventi delle sue
esportazioni. Ma il problema è che i paesi meno sviluppati esportano per
lo più materie prime i cui prezzi sono per lo più in calo. Negli ultimi
quattro anni il prezzo dei prodotti agricoli è sceso sempre più mentre
sono rimasti alti quelli dei prodotti "lavorati". Le regole
vanno allora modificate per impedire le concentrazioni che stanno portando
a condizioni di monopolio.
La Cargill ad esempio, controlla il 40% delle esportazioni di grano
statunitense e un terzo dei semi di soia ( l’alimento principale ad
essere geneticamente manipolato).
Le multinazionali, poi, accusano i governi di incoraggiare lo sviluppo
locale restringendo le loro possibilità di accesso. La loro tesi è che
in regime di concorrenza anche le piccole società miglioreranno i propri
servizi (per sopravvivere). In realtà, anche attraverso mega accorpamenti
di società, le multinazionali consolideranno il loro potere eliminando la
competizione che predicano tanto.
DOPO SEATTLE: risposte per una strategia.
Dopo Seattle diventa possibile scorgere il vero orizzonte problematico
del nostro tempo. Le soluzioni non verranno dalla politica, e neppure dall’agitazione
dei movimenti antagonisti. Le soluzioni verranno dal processo di
autoorganizzazione del sapere. La politica tradizionale non ha più alcuna
efficacia, né potenza di trasformazione reale. Prima di tutto perché le
forme tradizionali di azione politica sono del tutto incapaci di misurarsi
con la dimensione transnazionale delle grandi aziende globali. La legge,
che nell’era del capitalismo moderno aveva regolato e in qualche misura
contenuto l’aggressività economica del capitale, ora non funziona più
per la semplice ragione che la legge è fondata su un principio di
sovranità nazionale, e i flussi di capitale si sono globalizzati,
sfuggendo al controllo delle agenzie nazionali e delle legislazioni
statali. Gli stati non sono più capaci di tenere sotto controllo i
processi economici decisivi, i flussi di informazione e quelli finanziari,
i processi di lavoro e di scambio. Da questa crisi della legge e della
sovranità nazionale è nata l’esigenza di una legislazione
sopranazionale, di cui la formazione di organismi globali per il commercio
è un segnale. Per il momento i tentativi di legiferazione transnazionale
non sono riusciti. Il fallimento del World Trade Organization è un segno
delle difficoltà che il grande capitale multinazionale incontra nella
creazione di organismi sopranazionali di controllo e di governo. Ma, allo
stesso modo, le organizzazioni e i gruppi che si propongono di contrastare
la prepotenza aggressiva delle multinazionali devono fare i conti con una
dimensione nuova dell’agire politico.
Ma Seattle non si ripeterà per la semplice ragione che gli apparati
repressivi di tutto il mondo sono all’erta, per cui la mobilitazione di
piazza servirà soltanto a prendere legnate e rinfocolare una specie di
masochismo sacrificale.
D’altra parte, nel movimento ambientalista e antiglobalista a
vocazione verde ha cominciato a fiorire una letteratura utopica. Si tratta
di proposte di creazione di organismi politici e finanziari fondati sul
rispetto dell’ambiente e della vita umana, sulla solidarietà
internazionale e lo scambio equo e solidale. Si tratta di progetti utopici
quanto quelli di legiferazione internazionale del WTO o del MAI (Accordo
Multilaterale sugli Investimenti). Di fronte alla globalizzazione
economica tutte le volontà politiche sembrano ugualmente impotenti.
Cosa fare allora?
Si tratta di creare l’alternativa: un sistema economico
fondamentalmente nuovo. L’economia attuale, fondata sulla distruzione
delle risorse naturali, deve essere sostituita da un sistema economico
basato sulle risorse naturali.
Il processo che si è messo in moto dopo Seattle è molto serio. Si
tratta prima di tutto di un processo di acquisizione di informazioni e
conoscenza del funzionamento globale del capitalismo ad alta tecnologia.
Questo processo non può svolgersi attraverso gli organismi della politica
tradizionale, i partiti e i sindacati, che possono al massimo difendere
gli interessi dei loro aderenti su base nazionale. Solo la rete globale, e
dunque Internet, può funzionare come luogo e strumento per questo
processo di conoscenza e autoorganizzazione. Ne è prova un sito come
Global Exchange (www.globalexchange.org), che fornisce informazioni, in
inglese, su alcune situazioni in cui le aziende multinazionali americane o
europee esercitano in paesi poveri lo sfruttamento schiavistico del lavoro
e organizza campagne di opinione e azione contro le aziende responsabili.
Il compito che sta svolgendo Global Exchange è importantissimo: esso
denuncia la disuguaglianza planetaria a partire dalla condizione del
proletariato industriale di nuova formazione. Il salario globale si
delinea all’orizzonte come un grande problema dell’epoca che verrà.
Oggi gli investimenti capitalistici si rivolgono verso i paesi poveri
perché il costo del lavoro è enormemente più basso che nei paesi di
tradizione operaia consolidata.
Ecco allora che l’unica forza sociale capace di rompere il potere
delle multinazionali è quella parte della classe virtuale che matura una
coscienza sociale alternativa. E’ una situazione del tutto nuova, quella
in cui ci troviamo. La classe virtuale è quello strato sociale che non
appartiene più al ciclo di lavoro industriale, ma che occupa un ruolo
decisivo nel processo lavorativo globale, in quanto si trova proprio nel
luogo da cui il processo di globalizzazione promana.
L’aspetto più significativo dei fatti di Seattle non è stata l’insurrezione
di strada, bensì la predisposizione meticolosa di una rete di
comunicazione che ha saputo coordinare decine di media indipendenti e
infiltrare il media-system globale chiamando a raccolta, per la prima
volta, l’interezza della virtual class planetaria, costringendola
a prendere posizione su questioni che riguardano il futuro del sapere,
della scienza, della tecnologia e della distribuzione delle risorse del
pianeta.
La rivolta di strada è stata un’ottima e indispensabile cassa di
risonanza, ma tentare di ripeterla significherebbe rimanere ostaggi di una
visione antica del movimento. Seattle ha rappresentato in realtà il primo
atto di convocazione dell’intelligenza collettiva planetaria in funzione
anticapitalistica.
Questa è la strada da percorrere: l’autoorganizzazione in rete del
lavoro cognito, dell’intelligenza produttiva e della comunicazione.
"Dobbiamo far rumore perché il silenzio serve solo a loro!
Documentati e fai conoscere quello che sta succedendo al WTO, spiegando
che non sono cose lontane dalla vita quotidiana, al contrario anche quello
che mangiamo è influenzato direttamente dagli accordi stabiliti e
regolati da questo organismo".