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 Istituto Karatedo Shotokan Italia

                             

                             

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Katsu Kangae Wa Motsuna. Makenu Kangae Wa Hitsoyu. “non pensare che devi vincere. Piuttosto pensa che non devi perdere. Nel karate-do noi diciamo : ” fai ciò che è giusto “. Poi, eventualmente, sarai un vero vincitore nel karate e nella vita. Non misurare il successo da quello che è fuori te stesso, migliorati interiormente e il resto seguirà di conseguenza. La voglia di vincere fa parte della natura umana, …ma se voi desiderate vincere a qualsiasi costo perdete l’equilibrio.

 

Quando si perde l’equilibrio, si perde anche la comprensione, la capacità di giudizio, addirittura si perdono i movimenti, se sto gareggiando il mio corpo diventa rigido e non saprò più muovermi con scioltezza. Con l’equilibrio invece, mi posso muovere in ogni direzione, in qualsiasi momento, fisicamente ed emotivamente. C’è bisogno d’equilibrio in ogni aspetto della nostra vita. Se si osserva un problema da un solo lato, non si è in grado di vedere la verità.

L’essere bravi nel kata e nel kumite non è essere bravi nel karate-do. Queste sono solo capacità tecniche. Una vera arte marziale comprende giusta attitudine, spirito di comprensione, emozioni e intelligenza. Ognuno di noi possiede una propria personalità. Attraverso lo studio del karate siamo in grado di apprendere molto di noi stessi. Le nostre debolezze e i nostri punti di forza e saremo inoltre in grado riconoscere i punti deboli e forti degli altri, così facendo apprenderemo anche un nuovo modo di vivere il mondo. Forse capiremo come controllare le nostre azioni e i nostri comportamenti. Guadagneremo abbastanza esperienza per essere capaci di giudizio. Tutto questo accadrà solo quando ci lasceremo alle spalle la preoccupazione di vincere o di perdere.

Nel dojo ci si allena alla vita, in gara invece a vincere, ed è qui che nasce il conflitto.

Quando si da troppa importanza alle gare si comincia ad essere preoccupati circa la vittoria e la sconfitta. Poi si comincia a sviluppare uno spirito di competizione e rivalità e s’inizia a fare paragoni.

Molto spesso capita di vedere un bravo atleta sconfitto per aver impegnato troppa concentrazione nel cercare i punti deboli dell’avversario. Se voi pensate di essere migliori del vostro avversario, quello è il momento in cui incomincerete a perdere. Questo non è il giusto modo, d’altronde se penso d’essere inferiore a lui sarò sicuramente sconfitto.

Ogni sforzo e azione dovrebbero essere condotti al 100%. Solo così riuscirete a dare il meglio di voi stessi. Al momento decisivo chi avrà il maggiore equilibrio sarà il vincitore. Questo perché le gare e i tornei sono importanti come metodo d’allenamento, per verificare il nostro equilibrio e non per dimostrare le nostre capacità atletiche.

Quando vi allenate non pensate a diventare campioni o a come prendere la cintura nera. Cercate solo di dare il massimo senza un secondo fine. Questo è un concetto chiave delle arti marziali, cercate di avere un comportamento normale in tutta la vostra vita.

Non è per cercate di essere forti per vincere una gara o per picchiare qualcuno che vi dovete allenare, ne per difesa personale. È l’allenamento quotidiano per rendersi migliori quello che conta, e se lo farete in maniera corretta, mantenendo il giusto equilibrio, il vostro corpo comincerà a muoversi liberamente e nel modo giusto così sarete capaci di vincere in gara naturalmente.

Quando ci svuotiamo di preconcetti e di idee siamo in grado di vedere le intenzioni del nostro avversario (mushin), non dovete avere schermi precostruiti di attacco, ma le vostre tecniche devono essere spontanee e prive di vincoli, muovetevi apertamente e liberi.

 

Il M° Funakoshi era contrario alle gare, era molto preoccupato per come la vera essenza del karate potesse andare distrutta. Può essere che il maestro Nakayama lo convinse che c’era del valore nel presentare il karate alla società e ad un vasto pubblico. All’inizio eravamo molto confusi su come rendere questo accessibile a tutti, ci confrontavamo continuamente su nuove idee e su come organizzare e su come codificare un sistema di gara. Le nostre prime gare erano circolari egli schemi di combattimento provenivano direttamente dal jiyu-ippon kumite. Poi in seguito adottammo l’idea dell’area quadrata per la gara prendendo l’idea dalle basi d’appoggio degli ascensori degli aerei da guerra, sui quali noi davamo le dimostrazioni di karate a bordo delle portaerei americane dopo la 2° guerra mondiale.

 

Dopo svariati anni di sperimentazione, finalmente formulammo un regolamento ufficiale di gara e il M° Funakoshi lo accettò per i tornei. Fin dall’inizio ci rendemmo conto dell’enorme importanza delle regole e dei sistemi di giudizio, ma nessuno aveva esperienza di gara a quel tempo.

All’inizio i migliori combattenti erano i Sensei Mikami e Kanazawa, essi erano allievi del corso istruttori e lavoravano soprattutto sul kihon e kata e sulle loro applicazioni. Ma non vi erano sistemi di allenamento al kumite. Anche oggi molte delle tecniche usate in combattimento provengono dal kata. Il kata è l’essenza, la bibbia, la storia del karate. All’inizio gli spostamenti erano solo in linea retta, come quelli del kendo, ma con un vasto uso di tecniche di gamba e di braccia.

Oggigiorno, invece, gli spostamenti da competizione sono molti di più, più liberi e vasti, ma le tecniche sono spesso limitate al gyaku-tsuki e maegeri. Fu solo dopo il 6° campionato JKA, che si cominciò a vedere la super specializzazione.

Quello è specializzato nei pugni, quell’altro nei calci. Il M° Nakayama non si sentiva a proprio agio con questi sistemi, ma concesse ugualmente di sviluppare ed andare avanti con l’organizzazione delle gare. Al momento ancora non riusciamo a riconoscere il vero karate nel kumite da gara.

SAKKI

 

Testo per il corpo istruttorio della japan karate association

Libera traduzione dall’inglese del M° Fabrizio Castellani

 

Una delle cose a cui un serio praticante di arti marziali aspira è la capacità di percepire il SAKKI (aurea assassina). Sakki è la parola con cui i giapponesi descrivono la sensazione, o quella intangibile vibrazione che l’avversario trasmette quando è in procinto di portare un attacco. Si dice che se si riesce a sviluppare questa percezione, saremo in grado di contrattaccare il nostro aggressore prima che lui sia capace di terminare la sua tecnica. In Giappone si dice che certe satana o armi in genere siano impregnate di questa aurea assassina al pari di una forza misteriosa ed intangibile, d’altronde la fantasia popolare è piena di questi riferimenti, vedi per esempio la spada nella roccia di Re Artù.

 

In occidente quasi ognuno di noi ha avuto l’occasione di sperimentare il Sakki in un modo o nell’altro. Esso è caratterizzato da una vaga sensazione di disagio che si instaura nel corpo e nella mente senza un apparente motivo logico ogni volta che entriamo in una stanza piena di persone a noi sconosciute. Addirittura riusciamo a pensare che li dietro “c’è qualcosa che non va“. Le mamme poi sono famose per aver sviluppato il Sakki, che si manifesta nelle telefonate a tarda notte ai figli lontani da casa: “ti ho chiamato per sapere come stai… avevo una strana sensazione!“. Loro lo chiamano intuizione materna. Ma comunque al di là di come lo vogliamo chiamare, la capacità di percepire il Sakki, ha un’altissima considerazione nelle arti marziali e se qualcuno riesce effettivamente ha sviluppare questa capacità di prevedere gli eventi, ha intrapreso una buona strada che lo porterà verso l’invulnerabilità.

 

Personalmente ritengo impossibile sviluppare questa capacità almeno per quanto concerne 25 anni di pratica, ma credo che ci voglia molto più tempo anche solo per percepirne una vaga idea. Nella JKA vi è una storia che gira riguardo il Sakki e che viene ripetuta da ogni istruttore alle proprie cinture nere e sebbene questa storia è da attribuirsi a Sensei Takagi, segretario generale della JKA, potremmo far finta che sia accaduta a noi.

 

La storia è del periodo antecedente alla seconda guerra mondiale quando il M° G. Funakoshi era impegnato a dare dimostrazioni a tutto il Giappone allo scopo di promuovere la sua arte. A tale scopo, usava farsi accompagnare in questi viaggi da un suo allievo anziano con la mansione di assisterlo. Del resto è compito dell’allievo aiutare il maestro per le dimostrazioni nonché provvedere a tutte le necessità quando il maestro è fuori di casa o dal dojo. Ogni volta che visitavano un’ università il maestro Funakoshi si sedeva in un angolo in profonda meditazione mentre il suo allievo insegnava, sotto la guida del Sensei stesso. Un giorno il maestro rivelò ai suoi allievi che questi viaggi gli risultavano molto stancanti e che ne cominciava ad accusare la stanchezza, cosicché chiese di aiutarlo nella pratica in modo che egli potesse migliorare tecnicamente. “Il modo in cui mi potreste aiutare” disse “è molto semplice: dovete attaccarmi quando meno me lo aspetto cercando di colpirmi con un pugno o un calcio. Se riuscite a toccarmi significa che non sono allenato sufficienza e che necessito di

più pratica.”

 

Chiaramente nessuno dei suoi allievi era intenzionato a mettere in pratica questo, soprattutto per il grande rispetto e affetto che nutrivano nei confronti dell’anziano maestro e perché temevano che egli potesse farsi male. Man mano che il tempo passava e nessuno attaccava il maestro, egli diventava sempre più nervoso: “vi ho detto di aiutarmi ad allenarmi e voi disubbidite alla mia richiesta, vi ripeto che dovete cercare di colpirmi con un pugno o un calcio, questo è l’unico modo che mi permette di progredire.”

Cosi, a mal in cuore, i sempai (allievi più anziani) decisero di accontentare il maestro, usando però il massimo controllo per scongiurare ogni incidente. Un giorno Sensei Takagi stava insegnando nel dojo e notò che il maestro Funakoshi, che era seduto in un angolo esterno all’area di allenamento si stava appisolando, incominciando a russare dolcemente. “Questo è il momento giusto , lo colpirò al volto ma senza affondare troppo cosi gli dimostrerò l’inutilità di questa sua richiesta e così la smetterà di chiedere queste cose”. Così Sensei Takagi si avvicinò al dormiente M° Funakoshi e una volta accertatosi che il russare del maestro era reale lo attacco con un tsuki (pugno). Senza neanche aprire gli occhi il maestro sposto la testa sulla destra in modo che il pugno mancò il bersaglio di 10 cm. A questo punto aprì gli occhi e guardando gli attoniti allievi disse: “non buono Takagi devi allenarti di più”. E cosi dicendo richiuse gli occhi e tornò a russare.

 

Ogni volta che Sensei Takagi ripeteva e ripeteva questa incredibile storia ai suoi compagni di pratica veniva deriso “Sensei t i stava prendendo in giro,non stava realmente dormendo, faceva finta e tu ci sei cascato come u pollo. Prova di nuovo quando sei sicuro che stia dormendo e così la facciamo finita con questa stupidaggine.” L’occasione si presentò poco tempo dopo mentre egli accompagnava Sensei durante un tour di dimostrazioni e stage. Un giorno, dopo una dimostrazione e uno stage tenuto in una cittadina dell’entroterra, il maestro Funakoshi si ritirò nella sua stanza d’albergo per riposare, mentre Takagi era in dojo per prendere il gj (abito d’allenamento) del maestro per portarlo in lavanderia a lavare. Tornando su, sbircio nella camera del maestro e si accorse che egli era profondamente addormentato, tanto che russava rumorosamente e giaceva sdraiato sul letto con il braccio destro sopra agli occhi. “Questa è l’occasione perfetta“ pensò “e se anche non fosse addormentato, non mi può vedere, questa volta ci riuscirò.” Quando Takagi entrò nella stanza e posò il gj sulla sedia accanto al letto, Sensei non accennò la ben che minima reazione, continuando a russare profondamente. Così Takagi si avvicinò molto cautamente al letto dove l’anziano maestro dormiva e si fermò a qualche centimetro dalla testa. Takagi si rese conto che questa volta il maestro sembrava veramente indifeso e pensò che sarebbe stato scorretto approfittarsi della situazione e dopo tutto non se sentiva di colpire un vecchio inerme e addormentato. Così decise che dopo tutto era meglio lasciare stare e il mattino dopo raccontare al maestro cosa era successo, che era stato svariati minuti con il pugno sopra il suo naso e che lui non si era accorto di nulla. Mentre Takagi si gingillava con questi pensieri provando fuori distanza la tecnica per colpire il maestro, Funakoshi senza muoversi di colpo esordì con voce chiara: “Takagi se stai per colpirmi è bene che ti muovi perché io sono stanco morto ed ho bisogno di riposare.”

 

Si dice che masatomo Takagi a quel tempo era cintura nera 5° dan, si ritirò dalla stanza del maestro in gran fretta e non provò mai più ad attaccare il suo insegnante.

 

TRA ORIENTE ED OCCIDENTE

Il karate tradizionale quale anello di congiunzione

 

Wakari mashita.

 

Sì, capisco… però…Oggigiorno possiamo considerare l’introduzione del karate in occidente un fatto compiuto da circa un trentennio, ed alcuni fortunati, i quali hanno avuto l’insegnamento di istruttori giapponesi, ancora si domandano:” proprio non capisco sensei, talvolta lei è cosi disponibile, pronto a socializzare con me… e talvolta invece sembra molto distante, irraggiungibile, freddo. Ma è mai possibile che non possa dire chiaramente cosa desidera o cosa voglia da me?”

La verità è che noi occidentali siamo troppo bruschi,sbrigativi e che 30 anni non sono sufficienti per comprendere pienamente quei principi cardine della cultura giapponese, la quale si è sviluppata nel corso di qualche migliaio di anni. Molto probabilmente in circa un centinaio da adesso, saremo in grado di assorbire e comprendere la cultura giapponese in maniera più completa , con l’ausilio della pratica delle arti marziali. D’altronde uno studio più approfondito della tradizione e dell’etica della società giapponese nel corso della storia è da considerarsi un grande aiuto nella comprensione del rituale nel karate tradizionale.

 

Una delle maggiori difficoltà da capire tra “loro e noi” è il concetto del Tate Shakai ovvero “società verticale”. Tate Shakai significa che l’intera società giapponese è basata sul principio del Oyabun-Kobun. Oya significa genitore e ko significa figlio. Chiunque in Giappone comprende questo concetto e tutti si adeguano ad esso. Questo è il principio che non solo definisce il rapporto padre figlio, ma anche il rapporto capoufficio e impiegato, maestro e discepolo, etc. Oyabun-Kobun è profondamente radicato nella cultura giapponese ed è lo stesso principio gerarchico che si sviluppa nel dojo tra sempai e kohai (anziano giovane praticante). Per cui definiamo i due ruoli

sempai-kohai quali struttura portante della gerarchia su cui si basa l’intero sistema nipponico. Questo concetto abbraccia tutti i campi del sociale, la scuola, il lavoro, la famiglia, il circolo sportivo, il dojo, …..ed ogni individuo sa benissimo che è Oyabun e chi è kobun , ovvero chi è sempai e chi kohai. Nel dojo la relazione sempai-kohai si basa sull’identificazione di coloro che si allenano da più tempo, o meglio coloro che hanno acquisito più esperienza degli altri; indipendentemente dalle capacità tecniche o motorie, colui con maggiore esperienza è sempai mentre colui che ha meno esperienza e kohai. È responsabilità del sempai lo sviluppo e la crescita

del kohai che dovrà a sua volta soddisfare le esigenze dell’allievo anziano. Per esempio il giovane allievo dovrebbe portare sempre la borsa al sempai, cedergli il passo e offrirgli da bere mentre egli non rifiuterà mai di aiutare e consigliare e criticare il proprio kohai.

 

Tutto il sistema Oyabun-Kobun e sempai-kohai è regolato dal principio del mibun. Il sistema dei diritti e dei doveri. Nessuno però ha assoluto potere su un altro senza rispettare una concomitanza d’intenti equamente suddivisa tra i due ruoli. Noi occidentali spesso interpretiamo male il concetto del mibun che implica delle limitazioni all’ingenuità del kohai. Quello che intendo dire e che noi siamo abituati fino dall’infanzia a ricevere il credito e il tornaconto per le nostre azioni positive o idee innovative o che comunque aiutino il miglioramento del nostro stato. All’interno del sistema Oyabun-Kobun e sempai-kohai, il kohai dovrebbe senza alcuna remora le proprie idee

innovative al proprio sempai, il quale avrà il compito di far attribuire i meriti al kohai. Per esempio se inventa un sistema di allenamento innovativo, umilmente lo presenterà al suo sempai, il quale a sua volta se lo reputerà valido lo sperimenterà in allenamento; conseguentemente regolerà la questione dicendo agli altri che quel metodo di allenamento era stato proposto dal kohai. In questo modo il kohai avrà preso i suoi meriti e il sempai avrà preso credito dimostrando di avere un ottimo kohai sotto di lui. Se invece un kohai decide di mostrare le sue idee buone in giro direttamente da lui, questo viene considerato un grave segno di insubordinazione ed un tentativo di scavalco, a questo punto il sempai sarà costretto a ridurre in modo violento il ruolo del suo kohai ad un ruolo subordinato e marginale. Questo è in palese conflitto con la mentalità occidentale, ma è un concetto giusto e normale nel principio dell’on , ossia “debito universale”.

 

On è la parola giapponese con cui si indica il debito universale che ha ogni giapponese nei confronti del suo prossimo e di cui si fa carico. Secondo la credenza nipponica, ognuno riceve un on, per esempio un on ricevuto dall’imperatore si chiama ko-on e quello che uno riceve dai propri genitori è un oya-on. Un on ricevuto da un insegnante è un shi-no-on. Quando uno riceve un on, diventa a sua volta il padrino di quel on e si chiama jin-on. Insieme a quello di on si sviluppa il principio di giri , che è direttamente associato ai codici di etica , onore, dovere e debito. Giri è il massimo aspetto di questo complicato sistema, esso è il forte senso del dovere e del rispetto verso i rispettivi on-jin. Per cui giri verso l’imperatore (chu giri), verso la propria famiglia e la proprio discendenza, gli avi (ko giri) , il senso del dovere per il proprio lavoro (nimmu giri). Non vi è modo di distinguere il debito che ci lega al giri, esso è infinito come è infinito il dovere di ripagare (gimu).

Il giri comprende il dovere di far rispettare il proprio nome e la propria famiglia, il dovere di non fallire mai, il dovere di lavare l’onta subita dalla famiglia nostra e il dovere di controllare le proprie emozioni senza lasciarsi andare troppo.

 

Per cui con questo sistema di on e giri che comprende l’alternarsi del senso d’obbligo, quello del dovere e quello dell’onore da difendere, ci dà un’idea più chiara sulla complessa mentalità giapponese. Nella complessa relazione tra maestro e discepolo si sviluppa il concetto del tsukiai, che rappresenta il debito sociale che ha lo studente nei confronti dell’insegnante. L’allievo a questo punto dovrebbe cercare di ripagare gli insegnamenti ricevuti provvedendo in maniera assoluta a soddisfare le esigenze del proprio sensei. Provvede alla pulizia dei suoi abiti, a quella della casa dove vive, gli offre cibo e bevande, si assicura che il sensei goda di un alloggio appropriato e

dignitoso e inoltre prontamente aiuterà il sensei a risolvere i problemi che possono intervenire nella vita del maestro.

 

Oggi la commercializzazione dell’arte del karate ha completamente stravolto questa mentalità, eliminando tutto questo e  quindi togliendo il debito semplicemente pagando la quota sociale della palestra. Tutto questo complesso e intricato sistema di comportamento risulta difficile da comprendere per il popolo occidentale, abituati a comprare le lezioni di karate e tutte le attrezzature ad essa inerenti riducendo in questo modo il rapporto con il dojo ad un dare ed avere che si sviluppa nel pagare la quota in denaro. L’impostazione moderna di una scuola di arti marziali, farebbe inorridire il maestro Funakoshi alla vista di un tale degrado tecnico e spirituale del karate moderno. Tecnico in quanto ogni istruttore avverte il bisogno di codificare tecniche e kata nuovi ubbidendo solo al proprio istinto che gli dice di fare così, o basando la variazione sulla sua

profonda sapienza dell’arte (in genere pari a circa una manciata di anni). È anche molto triste vedere come oggi gli istruttori vengono relegati ad un misero ruolo di “mescitori e distributori” di tecniche sportive, spogliati dalle vesti di maestri, confinati a semplici allenatori a cui tutti ritengono di potersi relazionare chiamandoli per nome come quando si chiama un conoscente o il proprio barbiere. Al di là di tutto rimane la speranza che certi principi etici non vadano del tutto perduti nel marasma del grande mondo chiamato karate sportivo. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi nel perseverare con assidua costanza nella tecnica e metodologia Shotokan e in quei principi morali, etici e comportamentali di cui il mio Sensei M° James Field- n.d.R. è fonte inesauribile di esempio, umiltà e ispirazione.

 

M° Fabrizio Castellani

 

 

 

 

 

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