Contadini,
potenti e monaci
Il cibo ha avuto un ruolo centrale nella storia dell’umanità. Parlare
dell’alimentazione nel Medioevo significa affrontare un aspetto
fondamentale della società del periodo, in cui a brevi fasi d’abbondanza
si alternano periodi di carestia. Il forte senso di insicurezza, di
precarietà e di paura che pervade gran parte di questa fase storica crea
un atteggiamento nei confronti del cibo molto particolare. E, in
effetti, esso diviene un vero e proprio status symbol: chi mangia ha
potere, e mangiare per chi è affamato significa compiere un’azione
esagerata, vorace, quasi violenta. I religiosi possono mangiare ma si
autoreprimono, secondo la dottrina cristiana che stigmatizza la gula tra
i peccati: l’alternanza di privazione e abbondanza accresce, come
afferma lo studioso Leo Moulin, "l’ossessione del cibo, l’importanza del
mangiare e, come contropartita, la sofferenza (e i meriti) rappresentati
dalle mortificazioni alimentari". Durante il Medioevo non solo il cibo,
come dice lo storico Massimo Montanari ma "anche la fame diventa oggetto
di privilegio".
Il cibo dei
contadini
È dopo il Mille che la ricerca del cibo diviene più difficile: l’aumento
considerevole di popolazione, la diminuzione delle aree da mettere a
coltura, la sempre più invasiva presenza sul territorio delle bannalità
signorili, come riserve di pascolo, di caccia e di pesca, rende la vita
dura ai contadini. La carne scarseggia, diviene sempre più pregiata,
sinonimo di abbondanza e di prosperità. I pochi animali domestici sono
considerati bestie da fatica, essenziali per svolgere il gravoso lavoro
nei campi. Aumenta quindi il consumo di cereali, dalla segale al grano
saraceno: il termine companatico, che si diffonde proprio in questo
periodo, sta a indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto
basato ormai quasi esclusivamente sul pane.
Esso è presente a ogni pasto, di tutte le varietà e colori: d’orzo, di
spelta, di segale, di castagne. Spesso, la tonalità differente indica
l’appartenenza a una precisa fascia sociale, oppure a una certa area
geografica. Nei centri urbani, invece, si diffonde l’uso del pane di
grano duro, più chiaro di quello mangiato nelle campagne. Il vino,
secondo la tradizione greco-romana, rimane un alimento diffuso anche tra
le classi più povere: è nutriente, rende più allegri, si può usare come
anestetico, tutti ottimi motivi perché anche i ceti privilegiati ne
favoriscano il consumo.
La tavola di chi vive dei prodotti della terra non può non prevedere la
presenza delle verdure dell’orto, dal cavolo alle zucchine, dalle
cipolle agli spinaci. Piatto consueto sono, infatti, le zuppe di verdure
di stagione, spesso mescolate ai legumi: ceci, fave, lenticchie, facili
da essiccare e ricche di proteine, accompagnano frequentemente i pasti
sostituendosi alla carne. Essa, in prevalenza bianca, è destinata ai
giorni di festa: polli, galline, qualche coniglio rappresentano l’unica
variante più sostanziosa per la classe dei lavoratori della terra. Le
erbe aromatiche, tipiche dell’area mediterranea, dal timo al rosmarino,
dalla nepitella al basilico, insieme al poco grasso e all’olio
arricchiscono queste semplici pietanze, che stanno alla base
dell’alimentazione contadina.
Il cibo dei
potenti
Una delle rappresentazioni tipiche della società signorile medievale è
il momento del banchetto. Sulla tavola imbandita, diverse qualità di
carni arrostite stanno a indicare il cibo preferito dal ceto nobiliare,
dai potenti che giudicano una debolezza l’astensione volontaria, segno
di umiliazione e di perdita del proprio rango: nei documenti dell’epoca,
essa equivale all’obbligo di deporre le armi e quindi a una totale
perdita d’identità. Del resto, lo stesso Carlo Magno, stando al suo
biografo Eginardo, è mangiatore quotidiano di arrosti, nonostante in
tarda età soffra di gotta e i medici gli consiglino di passare a piatti
più leggeri.
Attraverso i libri di contabilità del tempo che ci sono pervenuti, siamo
in grado di mettere a fuoco un mondo di aristocratici abituato a bere
abitualmente vino, ad accompagnare le carni saporite bianche - capponi,
oche, galline, polli - e rosse - manzo, maiale - ma in special modo la
selvaggina e gli agnelli con pane di grano, uova e formaggi. Le verdure
e i legumi, sconsigliati dai medici del tempo agli stomaci raffinati in
quanto poco digeribili, hanno un ruolo marginale sulle tavole dei
ricchi, così come la frutta.
Il miele, unico dolcificante conosciuto - lo zucchero di provenienza
araba non è ancora diffuso - è invece consumato in abbondanza. La
modalità di cottura più diffusa è la bollitura, che utilizza molte
spezie provenienti dalle Indie come il pepe, il coriandolo, la cannella,
la noce moscata, i chiodi di garofano, ormai difficili da trovare e
assai costose, che insaporiscono i cibi e le bevande, ritardano la
putrefazione e addolciscono i sapori aciduli. Anche le erbe aromatiche
sono molto in uso: in questo modo la carne, soprattutto selvaggina, dai
cervi ai caprioli, dalle anatre ai fagiani, diviene meno dura e acquista
maggiore sapore, anche perché accompagnata spesso dal lardo. Gli stessi
arrosti sono prima bolliti, e solo in un secondo tempo vengono fatti a
pezzi e infilzati nello spiedo.
Il cibo dei
monaci
L’idea della privazione del cibo, di un regime alimentare sorvegliato ed
essenziale sta alla base della concezione di vita monastica diffusa nel
Medioevo. Proprio per questo, in tutte le Regule che ci sono pervenute,
da quella di Benedetto a quella di Giovanni Cassiano, il tema del cibo
ricorre costantemente e risulta di fondamentale importanza. Se
l’abbondanza di cibo è simbolo del potere delle armi, il "digiuno"
diviene sinonimo di spiritualità e misticismo. Nella cultura medievale,
il corpo impedisce l’elevazione verso dio, tenendo ancorato l’uomo a
desideri e pulsioni che vanno costantemente mortificati. La carne è il
primo alimento che deve essere bandito, perché meglio interpreta la
forza e la potenza guerriera. In realtà, questo vale per il primo
monachesimo, più severo e rigoroso nel rispettare i precetti
dell’ordine.
La carne, bandita dunque inizialmente dalle mense e sostituita da pesce,
legumi, uova e formaggi, tende a ricomparire a partire dall’XI secolo,
anche perché più consistente comincia a essere la presenza del ceto
aristocratico tra i religiosi. Nei giorni di festa, che non sono pochi
nel calendario liturgico, la carne, soprattutto di maiale, è presente
nei pasti dei monaci cucinata in maniera differente. Compare anche nelle
dispense, conservata sotto sale, essiccata o insaccata. Stando alle
fonti dell’epoca, nell’Abbazia di Cluny, una delle più importanti
dell’Occidente cristiano, due sono i regimi alimentari che si alternano
durante l’anno, uno invernale e uno estivo. Mangiare coincide con un
momento collettivo, e i monaci si ritrovano in refettorio una volta nei
giorni feriali e due in quelli festivi.
Il pranzo, che coincide con il mezzogiorno, prevede due piatti caldi: il
potagium di legumi e la minestra di verdura, e un terzo piatto, il
generale o la pietanza, serviti a giorni alterni durante la settimana,
che porta in tavola uova, formaggi, verdure. Il vino e il pane bianco
non mancano mai. Nel periodo estivo i pasti sono due, poiché aumentano
le ore di veglia e di lavoro. La cena, piuttosto frugale, si basa su ciò
che resta del pranzo insieme ad un pò di frutta di stagione.
Dopo il Mille, questo regime così severo tende poco alla volta a
divenire più elastico: si moltiplicano le cose da fare, le occupazioni
da svolgere, soprattutto di tipo amministrativo. I patrimoni da gestire
si accrescono, in seguito agli imponenti lasciti testamentari, ai
possedimenti che si espandono e che allontanano il monaco dalla
dimensione frugale e semplice cui è abituato, dettata dalla regola del
proprio ordine. Così il momento del pasto e il regime alimentare si
modificano: la semplicità delle origini è superata, per lasciare spazio
all'abbondanza e alla varietà dei cibi. Le cucine, sempre più spaziose e
dalle dispense cariche di prodotti pregiati, divengono luogo di
prosperità, di piacere: la gula si incontra con la luxuria, i due
peccati condannati dal cristianesimo che tanto spesso l'immaginario
medievale accomuna, così come tanta letteratura del tempo, da Chaucer a
Boccaccio, ci ha tramandato.
Lo Vino
I frutti
fermentano spontaneamente; quindi la vinificazione non è altro che un
perfezionamento di questo processo naturale e nel tempo si è diffusa in
tutte le parti del mondo in cui gli uomini vivevano in prossimità di
viti selvatiche. Un tipo di vite, la Vitis vinifera, produce la quasi
totalità del vino che si beve nel mondo ai nostri giorni. Si pensa che
questa varietà abbia avuto origine in Transcaucasia (le attuali Georgia
e Armenia). Le prime testimonianze della coltivazione della Vitis
vinifera risalgono al IV millennio a.C. nell'antica Mesopotamia, mentre
un'anfora contenente tracce di vino trovata in Iran è stata datata
intorno al 3500 a.C. In seguito la cultura del vino ha raggiunto
l'Europa tramite l'Egitto, la Grecia e la Spagna. Il vino aveva un ruolo
importante nei costumi della civiltà greca e di quella romana. I greci
portarono le proprie viti e iniziarono la produzione del vino nelle loro
colonie nel Sud dell'Italia; i romani, poi, praticarono la viticoltura
durante tutta la durata dell'impero. Per quanto riguarda l'inizio della
viticoltura in Francia, vi sono due ipotesi contrastanti: le
testimonianze attualmente disponibili suggeriscono che i coloni greci di
Massalia (l'attuale Marsiglia) vi importarono il vino; alcuni studiosi
credono, invece, che, già prima dell'arrivo dei greci, i celti avessero
iniziato la viticoltura, sebbene a suffragare questa ipotesi esistano
come prova solamente semi di vite selvatica. In epoca romana la Gallia
divenne una fonte talmente importante di vino che si promulgarono leggi
per tutelare i produttori italici.
Produzione del
vino dal Medioevo a oggi
Dopo la caduta
dell'impero romano e la dominazione di popolazioni germaniche, nei
territori precedentemente occupati dai romani la produzione di vino
diminuì. Divenne, in alcuni casi, un'attività riservata ai monasteri, in
quanto il vino era considerato indispensabile per la celebrazione
eucaristica. Fra il XII e il XVI secolo, tuttavia, la produzione di vino
tornò nuovamente a diffondersi e per tutto questo periodo il vino fu il
principale prodotto da esportazione della Francia. Durante il XVII
secolo si sviluppò la produzione di bottiglie e ritornò in auge l'uso
del tappo di sughero (dimenticato dal tempo dei romani) che rese
possibile una migliore conservazione del vino. Molti fra i migliori
vitigni della regione di Bordeaux furono sviluppati tra la fine del XVII
e l'inizio del XVIII secolo dai signori locali; fu allora che si
incominciò a produrre lo champagne, mentre commercianti inglesi
parallelamente svilupparono la coltura delle viti nella valle del Douro
in Portogallo.
Per quanto
riguarda i territori extraeuropei, in Cile si incominciò nel XVI secolo,
in Sudafrica nel XVII, in America nel XVIII e in Australia nel XIX. Dal
1863 in poi, la viticoltura europea subì la devastazione della
fillossera, un insetto che provoca il disseccamento delle foglie e
attacca le radici della vite. La fillossera proveniva dall'America, e fu
proprio da lì che giunse anche la soluzione del problema: dal 1880 in
poi si innestarono vitigni americani resistenti alla fillossera sulla
Vitis vinifera europea. Durante la prima metà del XX secolo, la
coltivazione della vite e la produzione di vino subirono un crollo, a
causa dei conflitti politici e delle guerre, contrassegnato anche da
problemi di adulterazioni, frodi e sovrapproduzione. La sovrapproduzione
rimane ancora oggi un grave problema, fondamentalmente irrisolto per
tutta l'Europa, anche se, specie per i prodotti DOC (a denominazione di
origine controllata) e DOCG (a denominazione di origine controllata e
garantita), vengono stabilite quantità massime di produzione per ettaro.
La seconda metà del XX secolo ha, invece, segnato importanti progressi
tecnici sia nella viticoltura, sia nella vinificazione e ha visto una
crescente diffusione di queste attività in tutto il mondo.
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