I Cavalieri Medioevali
La nascita della Cavalleria
Nel V secolo
dell’era cristiana l’Impero Romano d’Occidente crollò sotto i colpi
delle tribù barbariche che invasero i suoi territori e vi si
stabilirono. Tra queste tribù assunsero sempre più importanza i Franchi,
che si erano insediati nelle terre dell’antica Gallia e nella Valle del
Reno. Essi allargarono gradualmente la loro sfera d’influenza, tanto
che, nell’anno 800, il loro re Carlomagno potè assumere il titolo di
imperatore del Sacro Romano Impero, riunendo sotto il suo scettro quasi
tutta l’Europa occidentale. Carlomagno, come già i suoi predecessori,
incrementò il numero di cavalieri militanti nell’esercito franco,
assegnando loro, per pagare il costoso armamento ed il lungo
addestramento necessari per combattere a cavallo, ampie estensioni di
terre demaniali. Allorchè nel IX secolo l’Impero Carolingio, sconvolto
da guerre civili e da invasioni, si disgregò, la società si riorganizzò
intorno a questi armati locali, cui i contadini si offrirono in servitù
in cambio di protezione. A loro volta i signori locali si legarono in un
analogo rapporto di vassallaggio con i signori più importanti, in una
catena di reciproci legami di fedeltà che permearono, condizionando,
tutta la società europea e che assunse il nome di “feudalesimo”.
Al centro del
sistema stava il rango di cavaliere:
la capacità,
sia tecnica che economica, di combattere a cavallo, che
contraddistingueva la classe dominante.
Questo nuovo
ordine sociale, basato su una classe di cavalieri al servizio di un
nobile locale (conte, marchese,duca) e, servita a sua volta, dai
contadini, si consolidò definitivamente intorno all’XI secolo.
I Normanni
Nel tentativo di porre un argine alle continue incursioni dei Vichinghi
nella Francia settentrionale, il re Carlo il Semplice, nel 911, diede in
feudo alcune terre della regione ad un gruppo di questi invasori
nordici. Essi chiamarono la
nuova patria “Normandia” (terra degli uomini del nord), il loro capo
Rollone, ne divenne il primo duca. I Vichinghi combattevano a piedi, ma
i Normanni, come da allora cominciarono a chiamarsi, adottarono la
tattica franca del combattimento a cavallo,
diventando in
breve tempo cavalieri formidabili.
Nel 1066 alla
morte del re d’Inghilterra Edoardo il Confessore, il duca Guglielmo di
Normandia (che era un suo cugino), sostenne che il defunto sovrano gli
avesse promesso il trono e, a sostegno delle sue pretese, invase
l’Inghilterra. I Normanni sconfissero il nuovo re Aroldo in una
battaglia presso Hastings ed introdussero, nel regno conquistato, la
cavalleria di tipo franco, l’ordinamento feudale che ne era la
conseguenza e l’uso del castello che ne era l’espressione
architettonica. Più o meno, nello stesso periodo, bande di cavalieri
normanni affermarono il loro dominio sull’Italia meridionale e sulla
Sicilia.
L’Educazione del Cavaliere
Quando un
rampollo di nobile casata era ritenuto maturo per iniziare la sua
educazione di cavaliere (ciò avveniva intorno ai sette anni), veniva
inviato come paggio nella dimora di un gentiluomo (spesso un parente,
come uno zio, oppure un grande signore).
Qui imparava
sia a stare in società, sia a cavalcare. Intorno ai quattordici anni
passava al seguito di un cavaliere in qualità di scudiero. Apprendeva
così a maneggiare le armi, ad accudire il cavallo del suo signore, a
tenere in ordine il suo equipaggiamento.
Accompagnava il
cavaliere in battaglia, aiutandolo ad indossare l’armatura e
soccorrendolo quando era ferito o disarcionato. Imparava a tirare con
l’arco ed a trinciare la carne da mettere in tavola. Infine, se svolgeva
in modo soddisfacente questo apprendistato, intorno ai ventuno anni,
riceveva la sospirata investitura a cavaliere.
I giovani che
volevano assurgere al rango di cavaliere, dovevano curare con attenzione
la loro preparazione fisica. Così, gli scudieri esercitavano in
continuazione i loro muscoli e si addestravano con costanza nell’impiego
delle armi. Era un tirocinio di notevole durezza, a cui non tutti
resistevano. Infatti, solo quelli che resistevano, potevano aspirare al
cavalierato.
Il compito
iniziale dello scudiero, come si evince dal nome stesso, era quello di
portare lo scudo del cavaliere. Sembra infatti che, nell’XI e XII
secolo, molti scudieri venissero dalle classi inferiori e molti
rimanevano in questa condizione perché nel XIII secolo diventare
cavaliere era così costoso che parecchi si sforzavano di evitare la
promozione, mantenendo il rango inferiore.
Lo scudiero era
infine nominato cavaliere con una solenne cerimonia di investitura. Il
“buffetto”, affibbiato con la mano sulla guancia o sulla nuca del neo
cavaliere, venne sostituito nel XIII secolo da un colpetto dato con il
piatto della spada. Il cavaliere cingeva poi spada e speroni, ornamenti
con cui partecipava alle successive celebrazioni, in cui faceva sfoggio
della sua abilità. La cerimonia d’investitura era sempre seguita da un
altro cavaliere (spesso il signore presso cui il neocavaliere era stato
scudiero e, talvolta, anche dallo stesso re).
Il Vestito di
Ferro
Inizialmente
l’armatura dei cavalieri era costituita da una cotta di maglia:
una specie di
tunica
fatta di molti e piccoli anelli di ferro fittamente collegati fra loro.
Nel corso del XII secolo questa corazzatura andò estendendosi, venendo a
proteggere anche le braccia e le gambe mediante maniche e cosciali di
maglia metallica. Si cominciò anche a portare una sottocotta imbottita e
trapuntata avente il compito di smorzare i colpi.
Nel Trecento si
diffuse tra i cavalieri l’uso di piastre di ferro per proteggere gli
arti, o le parti più esposte di essi. Anche il torso venne protetto
sempre più spesso con piastre metalliche fissate ad una veste d’arme di
tessuto. Nel secolo successivo, alcuni cavalieri cominciarono a portare
una completa armatura metallica, che proteggeva ogni parte del corpo. Il
peso completo di una simile corazzatura si aggirava intorno ai 20 25 kg,
così ben distribuiti tuttavia, da consentire ad un guerriero armato di
tutto punto, di correre, saltare o montare a cavallo senza alcun aiuto,
anche se, allora come oggi, correvano storie di cavalieri (peraltro del
tutto infondate) che si facevano issare a cavallo con una gru, perché
paralizzati dal peso dell’armatura. In realtà, il vero problema della
corazza era un altro: la grande scatola di ferro, quasi senza aerazione,
diventava rapidamente un forno.
A partire dal
XV secolo si generalizzò l’uso di proteggere i cavalieri con un’armatura
completa di piastre metalliche, sagomate in modo che le punte e le lame
delle armi, scivolassero sulle loro superfici levigate. Questo
accorgimento permetteva di smorzare la forza dei colpi, e quindi,
consentiva di realizzare corazze ragionevolmente leggere. Le armature
imitavano spesso le fogge delle vesti civili. Alcune erano parzialmente
verniciate di nero, sia per proteggere il metallo, sia per ragioni
decorative; altre venivano azzurrate, così da riflettere i raggi solari
e diminuire il riscaldamento del metallo sotto il sole.
Qualche
esemplare di pregio venne decorato al bulino e, nel Cinquecento, si
diffuse l’abitudine di incidere i disegni decorativi con l’acido. Bordi
e fregi erano spesso in oro, o dorati: finitura che, in alcuni casi
speciali, veniva estesa a tutta l’armatura.
Opinione comune
è che le armature a piastra fossero goffe e rigide. Ma, se questo fosse
stato vero, non sarebbero mai state usate in battaglia. In realtà, un
uomo in armatura poteva fare quasi ogni cosa che fosse capace di fare
quando non la indossava. Il “segreto” stava nel modo in cui gli armaioli
sagomavano le piastre, affinchè si potessero muovere l’una rispetto
all’altra seguendo i movimenti del cavaliere. Alcune piastre erano
incernierate e potevano ruotare una sull’altra. Altre erano unite da
perni scorrenti in un’asola, in modo da poter non solo ruotare, ma anche
scorrere. Molte erano connesse mediante stringhe interne di cuoio, che
ne facilitavano lo scorrimento reciproco. Quelle sagomate a tubo avevano
imbocchi a flangia o a manicotto, così da infilarsi l’una nell’altra e
da ruotare senza scoprire parti del corpo.
Le armature più
antiche erano abbastanza facili da indossare: si infilava la maglia
dalla testa e quindi si affibbiavano sulla schiena le piastre di
rinforzo per il torso, i fianchi e le spalle.
Infilarsi le
armature a piastre metalliche era, invece, notevolmente più complicato,
anche se,
con l’aiuto di
uno scudiero, un cavaliere poteva prepararsi al combattimento (o
togliersi l’armatura) in pochi minuti. Si iniziava con l’indossare la
“veste d’armi”, cioè l’indumento che stava sotto l’armatura, quindi si
mettevano in posizione i vari pezzi dell’armatura stessa, cominciando
rigorosamente da quelli inferiori e finendo con l’elmo.
Nel
Quattrocento, alcuni pezzi dell’armatura, venivano fissati alla veste
d’armi, ma nel secolo successivo, ogni piastra veniva, di regola,
assicurata alle altre per mezzo di corregge, perni o ganci.
Le parti
dell’armatura
Il cimiero:
questo ornamento rendeva agevole l’identificazione sul campo di
battaglia, tuttavia già in quell’epoca, andava perdendo popolarità a
favore di elmi meno ornati, come il bacinetto con visiera.
Il
bacinetto:
o elmetto con visiera, nato in Italia nel XIV secolo, aveva
probabilmente in origine una celata ribaltabile sulla fronte. Ma venne
poi affermandosi la più pratica incernieratura laterale, quella che in
Germania veniva scherzosamente chiamata Hundgugel, museruola.
Maglia
metallica:
nelle cotte di maglia ogni anello era intrecciato, mentre era ancora
aperto, con quattro altri anelli.Poi veniva ribattuto così da chiudersi.
Il peso di una simile corazza si aggirava attorno ai 9-14 kg, in parte
gravanti sulle spalle del combattente. Poiché la maglia era flessibile,
un colpo inferto con forza, poteva provocare serie contusioni, od anche
fratture letali.
Lo scudo:
i cavalieri protetti dalla sola maglia metallica, erano molto
vulnerabili da parte di forti colpi di mazza o di lancia. Dovevano
perciò proteggersi dietro grandi scudi. Nel Quattrocento, grazie ai
progressi della corazza a piastre, gli scudi divennero molto più piccoli
e leggeri.
Il Cavaliere e le sue Armi
La spada era
l’arma più importante del cavaliere, il
simbolo stesso
della cavalleria. Fin verso la fine del Duecento, la tipica spada da
combattimento era a lama larga ed a doppio taglio; ma, con il
diffondersi delle
armature a
piastre, vennero in uso spade più lunghe e sottili, adatte a colpire di
punta, così da infilarsi nei sottili spazi, tra una piastra e l’altra.
Venne
acquisendo favore anche la mazza ferrata, eccellente per fracassare le
armature. Prima di impugnare la spada o la mazza, tuttavia, il cavaliere
caricava l’avversario con la lancia abbassata.
Anche la lancia
venne trasformandosi con il tempo, aumentando la sua lunghezza e
munendosi, a partire dal Trecento, di una guardia circolare a protezione
dell’impugnatura.
Altre armi,
come l’ascia da guerra a manico corto, potevano essere saltuariamente
usate nel combattimento a cavallo. Gli spadoni dall’impugnatura
allungata, da afferrare a due mani, erano invece riservate per i
combattimenti a piedi.
In Sella
Le cavalcature
erano un elemento costoso, ma fondamentale, nell’equipaggiamento del
cavaliere. Occorrevano cavalli per combattere, altri per cacciare, altri
ancora per le giostre, per i tornei e per trasportare i bagagli. La
cavalcatura più costosa era il destriero, cioè il cavallo da battaglia.
Si trattava, generalmente, di uno stallone di grosse dimensioni. La sua
cassa toracica ne faceva un animale molto solido e resistente, ma era
anche agile nei movimenti. Le razze più apprezzate erano quelle dei
paesi mediterranei: Italia, Francia, Spagna (in effetti l’attuale razza
Andalusa è quella più vicina, nei suoi caratteri, al destriero
medievale).
Dal XIII secolo
in poi diventò normale, per un cavaliere, disporre di almeno due
destrieri, più numerosi i cavalli adibiti ad altri scopi. Tra questi
spiccava il “corsiero”, veloce cavalcatura da caccia (talvolta la
definizione veniva usata anche per cavalli da battaglia, così come il
“destriero” poteva indicare l’animale da torneo).
Per viaggiare
veniva usato il “palafreno”, dal carattere più docile e malleabile,
mentre per trasportare i bagagli si utilizzavano tranquille e robuste
bestie da soma.
Anche il
cavallo da battaglia portava, generalmente, una corazzatura a protezione
della testa, del collo e del petto, mentre il resto del corpo era
rivestito da una gualdrappa colorata e, spesso, decorata affinchè
mostrasse le insegne araldiche del cavaliere; poteva anche essere
imbottita per attutire i colpi ed, in qualche caso, era addirittura di
maglia metallica.
Il Nemico piu’
pericoloso
La cavalleria
feudale trovò, abbastanza presto, una fanteria capace di tenerle testa.
Nel 1066 ad Hastings, i fanti sassoni armati d’ascia decimarono la
cavalleria normanna. Nel 1302, a Courtrai, le milizie fiamminghe, per
quanto armate di bastoni, volsero in fuga i cavalieri francesi. Le
falangi scozzesi, armate di lance corte, bloccarono le furiose cariche
della cavalleria inglese a Bannockburn, nel 1314. La stessa tattica
venne usata con successo dai picchieri svizzeri.
Anche gli archi
si rivelarono micidiali contro la cavalleria. I “lunghi archi” della
fanteria inglese, spezzarono l’assalto dei cavalieri francesi a Crécy,
nel 1346, e sterminarono gli stessi cavalieri (per l’occasione caricati
a piedi) ad Azincourt, nel 1415. Le balestre, poi, con i loro dardi
corti scagliati con una grande forza propulsiva, erano letali. E nel
primo Quattrocento, gli Ussiti boemi, sbaragliarono la cavalleria
germanica usando massicce concentrazioni di armi da fuoco, appostate
dietro barricate di carri che spezzavano l’impeto dei cavalieri.
In Battaglia
Le regole della
cavalleria imponevano rispetto per il nemico vinto. Il che, oltre ad
essere umano, permetteva di lucrare il riscatto dei prigionieri, per lo
meno se di alto rango. Ma questo codice morale non era sempre osservato
da parte di uomini eccitati che avevano visto in faccia la morte. Gli
arcieri inglesi, per esempio, massacrarono senza pietà (con l’aiuto dei
loro cavalieri) i nobili francesi battuti a Crécy (1346), a Poitiers
(1356), ad Azincourt (1415). Da parte loro i cavalieri davano raramente
quartiere ai fanti nemici volti in fuga, inseguendoli ed abbattendoli
spietatamente. Il rischio di una battaglia campale era enorme: vi si
poteva perdere l’intero esercito, od anche il trono. Perciò la tattica
preferita dai comandanti era il saccheggio e la devastazione del
territorio nemico. Così ci si procacciavano provviste a buon mercato, si
distruggevano le proprietà dell’avversario e si dimostrava ai suoi
sudditi che il loro signore non era in grado di proteggerli. Per
contrastare questa tattica, l’invaso cercava di braccare quanto più da
vicino poteva l’esercito nemico, così da impedirne lo sparpagliamento
nel territorio.
Sicuramente, queste parole non danno un’immagine fiera ed orgogliosa di
un cavaliere, ma dobbiamo ricordarci che stiamo parlando del particolare
momento di una battaglia o di una guerra, e, per antonomasia, questi
momenti non sono i più adatti a mostrare le virtù di un Cavaliere, che ,
in tempo di pace, si comporterebbe in tutt’altro modo.
Il Castello
Il castello era
sia la residenza privata del signore feudale, sia il centro delle sue
attività economiche e la base dei suoi soldati. I primi castelli vennero
probabilmente eretti nel IX secolo nella Francia nord occidentale, come
difesa verso i disordini civili e le invasioni vichinghe. Alcuni erano
in pietra, ma la maggior parte consisteva di terrapieni sormontati da
palizzate di tronchi. Lentamente, tuttavia, si affermò l’impiego della
pietra o, secondo la disponibilità del luogo, del mattone, cioè di
materiali più durevoli e meglio resistenti al fuoco.
Nel
Quattrocento, infine, l’aumentato bisogno di comfort, frutto di una
società più sviluppata e ricca, e l’avvento delle armi da fuoco, resero
obsoleti i castelli feudali. Parte delle loro funzioni militari vennero
assunte dal forte, un nuovo tipo di fortificazione eretta (consistente
sostanzialmente in una piattaforma per cannoni) e tenuta in funzione
dallo stato, non più dai signori feudali.
I castelli
erano strutturati in modo da difendere i loro occupanti contro gli
attacchi dei possibili nemici. Il primo ostacolo che un attaccante
generalmente incontrava era il fossato, che girava tutto intorno al
castello e che era spesso munito di palizzate per intralciare e
rallentare i movimenti dei soldati che vi scendessero per attaccare le
mura.
Talvolta il
fossato era riempito d’acqua: un mezzo eccellente per tenere lontano il
nemico. Dalle cortine sporgevano, poi, ad intervalli regolari le torri,
dalle quali gli arcieri potevano colpire di fianco il nemico che si
accostava alle mura. I difensori potevano disporre anche di piccole
porte (posterle) da cui effettuare di sorpresa sortite contro gli
attaccanti. Il castello serviva, poi, come rifugio per la cavalleria,
che da esso poteva uscire per attaccare il nemico o devastarne i
territori.
Spessissimo
troviamo nei castelli medievali le caratteristiche finestre strombate
(cioè strette verso l’esterno e larghe verso l’interno, in modo da far
entrare più luce), che sorgevano principalmente nei piani bassi, erano
il più possibile strette per difendersi sia dai proiettili nemici sia da
possibili incursioni da parte di intrusi che scalassero le mura.
La costruzione
delle fortificazioni erano estremamente costose e potevano richiedere
anni di lavoro. Il feudatario ed il capomastro sceglievano di comune
accordo il luogo della costruzione (di solito uno spiazzo sopraelevato),
e ne impostavano le linee. Occorreva poi cavare la pietra necessaria.
Bisognava apprestare grandi quantità di acqua, sabbia e calce per la
malta. Materiali e manodopera erano, generalmente, forniti dal signore.
Gli ingressi
erano sempre ben difesi e muri provvisti di una “scarpa” (si allargano
cioè alla base) per meglio resistere ad eventuali lavori di scavo.
Il “dongione”
era un grosso torrione, dalle mura di grande spessore, e poteva ospitare
comodamente un feudatario con tutto il suo seguito. In genere il piano
terra era usato come magazzino ed il primo piano per la guarnigione; il
salone del piano superiore fungeva da sala dei banchetti ed, al caso, da
dormitorio, mentre l’ultimo piano era occupato dal signore e la sua
famiglia.
Ed ecco la
descrizione, naturalmente succinta, di alcuni tipi di costruzioni.
Motte e
Recinto:
i castelli del X – XII secolo consistevano essenzialmente in un fossato,
dietro cui si innalzavano dei terrapieni sormontati da una palizzata.
Molti, specie nell’Europa settentrionale, avevano al centro una “motta”,
cioè un tumulo artificiale di terra coronato da una torre (“il mastio”),
residenza del signore e postazione per l’ultima difesa. Nel recinto
attorno, trovavano posto le costruzioni ausiliarie.
Il
Castello di pietra:
il cassero o dongione (keep per gli inglesi), cioè il grande mastio di
pietra, divenne frequente nel corso del XII secolo. Quelli più grandi
potevano ospitare con una certa larghezza il signore ed il suo seguito.
Anche le cortine esterne erano ora frequentemente di pietra, rafforzate
da torri (quadrate o tonde) disposte ad intervalli.
Cerchie
multiple:
i castelli concentrici, che cominciano ad apparire nel XIII secolo,
presentavano due cerchie successive di mura, l’una dentro l’altra. Le
costruzioni più interne erano solitamente più alte di quelle esterne,
così da poterle “comandare”, cioè batterle con il proprio fuoco. Ove
esistevano, si utilizzavano anche i fiumi per mettere un ulteriore
ostacolo tra attaccanti e difensori.
Castello
recinto:
le palizzate lignee intorno alla motta vennero spesso rimpiazzate da una
più solida cortina in pietra, formando così un “castello recinto”. In
qualche caso all’interno si cercò di innalzare una torre, ma il terreno
di riporto delle motte non garantiva un appoggio abbastanza stabile. Il
duecentesco castello di Clifford’s Tower, in Inghilterra, crollò proprio
per questa ragione.
Le tecniche di
assedio
Allorché un
nemico assaltava un castello, cominciava con l’intimare agli occupanti
di arrendersi e se questi rifiutavano, doveva tentare di espugnare la
fortificazione. Poteva scegliere tra due tattiche: o stringere d’assedio
il castello, impedendo a chiunque di entrare od uscire, finchè gli
assediati non si arrendevano per fame, od usare la forza. In questo caso
poteva tentare di scavare una galleria fin sotto le mura, per poi
incendiare i puntelli sorreggenti lo scavo e far crollare le mura
soprastanti, o per sbucare inaspettato all’interno della fortezza.
Oppure, poteva battere le mura stesse con arieti, con catapulte o
(successivamente) con i cannoni. O, ancora, poteva tentare di scalare le
cortine con le scale o con una torre d’assedio, munita di ponte levatoio
in cima, per consentirne lo “sbarco” degli attaccanti sulle cortine.
Vita al
Castello
Il castello non
era solo una costruzione militare: era innanzi tutto la casa del signore
feudale e della sua famiglia. Il suo ambiente più importante era la
grande sala comune, dove tutti si riunivano per i pasti, e dove si
svolgeva la multiforme vita di tutti i giorni. Poi, ma non sempre,
c’erano le stanze private del signore, la cucina, spesso esterna, la
cappella, l’armeria, l’officina del maniscalco, le stalle, i canili, i
recinti per i vari animali ed i magazzini che contenevano le provviste.
Essenziale era una riserva di acqua interna – meglio ancora un pozzo-
per garantire l’approvvigionamento idrico in caso di assedio. I muri
esterni potevano essere imbiancati per proteggerli dalle intemperie;
quelli interni erano spesso intonacati con cura e decorati con disegni
ed affreschi. I castelli fungevano anche da luoghi di sosta per i nobili
durante i loro spostamenti. In previsione del loro arrivo, gli
appartamenti privati erano tirati a lucido, e, sul pavimento, si
stendevano paglia pulita, canne ed erbe aromatiche.
Il Signore
del Maniero
Alcuni
cavalieri erano semplicemente dei mercenari che combattevano per denaro.
Altri, soprattutto fino al XIII secolo inoltrato, erano al servizio del
loro signore feudale, e vivevano a sue spese, nel suo castello, come
truppe personali. Altri ancora, però, avevano ricevuto dal signore un
possedimento terriero in cambio del loro servizio. Questi vassalli
minori si costruivano allora, sulla terra ricevuta, un piccolo castello,
generalmente di pietra, comprendente, oltre alla loro residenza, gli
edifici adatti alla tenuta a agricola, da cui traevano il loro
sostentamento. Infatti i contadini della proprietà erano tenuti, in
cambio dell’alloggio loro concesso, a prestare gratuitamente i loro
servizi al signore del luogo, lavorando nei suoi campi e cuocendo il
pane nel suo forno (pagando per il “privilegio”). Egli riceveva, come
del resto la Chiesa, una parte dei prodotti della terra; ribadiva il suo
patronato invitando talvolta i suoi contadini a feste popolari;
amministrava la giustizia seduto nel cortile o nel salone del castello.
Molto spesso, inoltre, aveva una casa nella città vicina, dove si recava
per sbrigare gli affari.
I nobili
costituivano una classe assai variegata al suo interno. Alcuni erano
potenti signori proprietari di molti castelli, in cui si recavano di
tanto in tanto se necessario, ma che erano, generalmente, affidati alle
cure di un “balivo”, che periodicamente si recava in città a scambiare
le derrate della proprietà con i prodotti portati dai mercanti ed a
consegnare al signore, spesso indebitato con gli usurai cittadini, le
rendite del feudo.
Le famiglie
numerose erano comuni; il figlio maggiore seguiva le orme paterne
abbracciando la carriera delle armi. Le figlie potevano sperare di
sposare a loro volta dei gentiluomini, mentre i figli cadetti e le
figlie non maritate finivano sovente in convento.
Purtroppo
spesso, i nobili del Medioevo, non sapevano né leggere né scrivere,
infatti, per firmare un documento, imprimevano generalmente il loro
sigillo (inciso su un anello o su un punzone) sulla ceralacca fusa.
La
Castellana
Le donne del
Medioevo, anche quelle di nobile schiatta, avevano ben pochi dei diritti
che godono le donne odierne. Le ragazze erano spesso già maritate a
quattordici anni; il matrimonio era combinato dalla famiglia e
comportava il pagamento di una dote, cioè di un dono al marito per
compensarlo di aver “accettato” la moglie. Con il matrimonio, i beni
della moglie passavano in proprietà al marito, ciò che faceva dei
cavalieri degli attenti cacciatori di dote. Tuttavia la castellana
godeva, nella vita privata, di una sostanziale parità con il suo
compagno. Era per lui l’aiuto più sicuro, ed assumeva la responsabilità
della proprietà quando egli era lontano, giungendo ad organizzare la
difesa del castello contro eventuali nemici che l’attaccassero e
l’assediassero.
La castellana
sovrintendeva alle “attività” domestiche del castello: la cucina e la
vita di tutti i giorni. Poteva avere dei dipendenti per sbrigare gli
affari di casa, ma toccava sempre a lei sorvegliare gli acquisti ed
autorizzare le spese.
Spettava a lei
anche accogliere, con la dovuta cortesia, gli ospiti e provvedere alla
loro sistemazione. Aveva dame di compagnia per intrattenerla, serventi
per accudirla e nutrici per allevare i figli. I figli erano
importantissimi: il compito principale della donna medievale era,
infatti, quello di provvedere alla prole.
Le donne
nobili, al contrario dei cavalieri, erano spesso ben istruite. Più d’una
sapeva leggere e scrivere, capiva il latino, parlava lingue straniere.
Inoltre importante era che sapessero filare la lana.
Il rango delle
dame era indicato dalla ricchezza dei gioielli che indossavano
(generalmente corone e spille).
Caccia e Falconeria
I sovrani ed i
signori medievali erano appassionati cultori di caccia e falconeria.
L’esercizio della caccia procurava carne fresca, costituiva un
realistico addestramento alla guerra e permetteva ai cavalieri di
dimostrare il loro coraggio nell’affrontare a viso aperto degli animali
selvaggi pericolosi, come il cinghiale. I monarchi Normanni riservarono
al proprio esclusivo uso vaste aree delle foreste inglesi, comminando
delle severe pene ai bracconieri ed a chiunque violasse le riserve
reali. Gli animali cacciati andavano dal daino al cinghiale, dagli
uccelli ai conigli. I cavalieri cacciavano spesso a cavallo, ricavandone
una grande eccitazione ed un buon allenamento al combattimento.
Talvolta, invece, erano i battitori a spingere la preda a ridosso dei
cacciatori appostati. Erano usati per la caccia anche archi o balestre,
il che forniva un’utile familiarità con questa armi. La caccia con il
falco era altrettanto diffusa, e gli uccelli ben addestrati erano molto
ricercati. Solo i membri dell’alta aristocrazia, in realtà, avevano la
possibilità di addestrare falconi di razza.
Un altro
prezioso alleato del cacciatore era il cane, che veniva fatto oggetto di
attenzioni continue. Gastone Febo di Foix raccomandava l’uso di certe
erbe contro la rogna, le affezioni degli occhi, degli orecchi e della
gola, e persino la rabbia. Le zampe, punte dai rovi, richiedevano molta
attenzione. Gli arti lussati venivano sistemati dai “conciaossa”, e le
fratture erano, naturalmente, immobilizzate con stecche.
Una delle armi
più versatili e diffusa era la balestra. Poteva essere usata anche da
cavallo e si poteva facilmente ricaricare con una leva a piè di porco o
con un avvolgitore a manovella. Dal momento che la corda era tirata
sino al nottolino d’arresto e vi si fissava, scattando se si tirava il
grilletto, la balestra poteva essere portata in giro già armata,pronta
all’uso in caso si avvistasse qualche preda. Le balestre da caccia erano
spesso sontuosamente decorate.
Per la caccia
al cinghiale veniva usata una lancia che era un’arma solida e pesante,
capace di bloccare un cinghiale in corsa, od anche un orso. Per impedire
che la punta penetrasse troppo a fondo in profondità nelle carni della
preda, era prevista una sbarretta sporgente a mezz’asta. Anche le spade
per la caccia al cinghiale avevano la lama con due sporgenze laterali.
Infine,
un’ultima annotazione particolarmente gradita dal gentil sesso, anche
alle donne era permesso partecipare alla caccia.
L’Ideale
Cavalleresco
Benché i
cavalieri fossero uomini di guerra, si facevano un punto d’onore di
comportarsi, appunto, “cavallerescamente” con i loro nemici. Nel corso
del XII secolo questo atteggiamento tradizionale assunse la forma di un
preciso codice di comportamento, che sottolineava, con particolare
enfasi, il dovere di comportarsi cortesemente verso le donne.
I poemi
sull’amor cortese, recitati dai trovatori della Linguadoca, erano
basati su questo codice; anche le storie cavalleresche così popolari nel
Duecento, ribadivano tale ideale di vita. Le gerarchie ecclesiastiche
favorivano questa evoluzione, al punto di fare dell’investitura a
cavaliere una vera e propria cerimonia religiosa, con tanto di veglia
d’arme e bagno purificatore. Ma , purtroppo, pur se numerosi libri
ribadirono gli ideali cavallereschi, nella realtà, fu ben difficile far
corrispondere i comportamenti quotidiani ad un simile alto ideale.
Il Torneo
I guerrieri
dovevano esercitarsi continuamente alla battaglia, ed il torneo nacque,
intorno all’XI secolo, proprio come pratica di addestramento bellico:
due quadre contrapposte di cavalieri, talvolta coadiuvate da schiere di
fanteria, combattevano una finta battaglia –indicata con il nome
francese di melée, mischia,- in un vasto spiazzo campestre. I cavalieri
sconfitti cedevano al vincitore cavallo ed armatura: un buon combattente
poteva così arricchirsi lecitamente, esercitandosi alla lotta. Nei primi
tempi si impiegavano armature da battaglia ed armi vere. Benché i tornei
fossero popolarissimi tra i cavalieri, e moltissimo pubblico affluisse
per vederli, la Chiesa non smise mai di disapprovarli, a causa dello
spargimento inutile di sangue che causavano.
Per questa
ragione, a partire dal XIII secolo, vennero introdotte armi “cortesi”,
cioè spuntate. Nel Torneo ad armi spuntate si affrontavano due squadre
di cavalieri armati di grossi randelli o di armi spuntate. Lo scopo dei
contendenti era quello di colpire il cimiero, posto sugli elmi degli
avversari, evitando la faccia (protetta comunque da apposite griglie).
Ogni cavaliere aveva al suo fianco un portastendardo; una serie di
serventi (chiamati “valletti”) erano pronti a raccoglierlo se cadeva. Al
centro del campo, tra le due corde che separavano le squadre
contendenti, cavalcava il cavaliere d’onore; sulle tribune si
accalcavano le dame e trovavano posto i giudici del torneo.
Nel frattempo,
comparivano altri tipi di combattimento simulato come la “Giostra,” la
“Tenzone” ed il combattimento a piedi. Nel Quattrocento si diffuse il
pas d’armes: uno o più sfidanti scendevano in lizza, cioè sul
terreno di scontro, e sfidavano a duello altri cavalieri. Infine, nel
Seicento, al torneo si sostituì una carica stilizzata di cavalleria, il
“Carosello”.
Il rutilante
scenario di un torneo era il luogo ideale per far mostra di blasoni e di
ogni altro tipo di fantasioso ornamento araldico. I cavalieri vi
indossavano anche svolazzanti pennacchi, che, invece, erano scomparsi
ben presto sui campi di battaglia.
Le dame
ispezionavano vessilli ed elmi dei concorrenti prima del torneo. Se una
di esse veniva a conoscenza che un cavaliere aveva violato le leggi
della cavalleria, ne gettava l’elmo a terra ed il concorrente veniva
escluso.
La Giostra
Nel corso del
XIII secolo al torneo si aggiunse una nuova, spettacolare forma di
combattimento,: la Giostra. In essa i cavalieri si combattevano uno
contro l’altro singolarmente, in duello. Era, dunque, uno scontro in cui
un combattente poteva dimostrare la sua valentia senza turbamento di
elementi estranei. Generalmente i contendenti si battevano a cavallo,
usando le lance, tuttavia, in qualche occasione, continuavano la lotta
anche a colpi di spada. I due cavalieri si lanciavano l’uno contro
l’altro al galoppo, cercando ognuno di disarcionare l’avversario con un
ben assestato colpo di lancia. Se non ci riusciva, ma comunque si
arrivava a spezzare la lancia contro lo scudo dell’opponente, si
“segnava un punto”. Talvolta ci si scontrava in una “giostra di guerra”
usando lance da battaglia dalla punta acuminata, che potevano anche
uccidere un uomo (disfida di Barletta); ma in generale ci si batteva in
una “giostra di pace”, impiegando lance smussate o con un tampone in
cima: una specie di coroncina che distribuiva su una superficie maggiore
l’impatto del colpo. Per la giostra si svilupparono anche armature di
tipo particolare, che garantivano una maggiore protezione. Nel corso del
XV secolo si introdusse anche una sorta di barriera che separava i
settori dei due avversari, così da impedire le collisioni frontali.
Il
combattimento a piedi
Già nel corso
del Duecento accadeva in qualche giostra che i cavalieri, dopo aver
spezzato le loro lance, smontassero di sella e si affrontassero con le
spade. Ma nel secolo successivo simili combattimenti a piedi divennero
frequenti e programmati. Ogni contendente doveva effettuare un numero
prestabilito di assalti, in alternanza con l’avversario, gruppi di
armigeri erano pronti ad intervenire se i contendenti si eccitavano
troppo.
Le cronache
quattrocentesche riferiscono che ognuno dei contendenti scagliava un
giavellotto; quindi la lotta proseguiva con la spada, con l’ascia o con
armi in asta. Ancora più tardi si affermarono scontri a squadre, con due
gruppi di armati combattenti ai lati opposti di una barriera: era il
cosiddetto “torneo appiedato”. Infatti, proprio come nel torneo a
cavallo, ogni uomo doveva spezzare una lancia contro l’avversario e poi
continuare a battersi utilizzando spade dal filo smussato.
L’Araldica
Gli uomini
hanno sempre decorato i loro scudi. Nel corso del XII secolo, però,
questa ornamentazione si stabilizzò secondo certe regole predefinite,
che consentivano ad un cavaliere di identificarsi con precisione
attraverso i disegni del proprio scudo o della propria sopravveste: era
nata l’araldica. Si è spesso sostenuto che essa nacque
dall’impossibilità di distinguere il volto del cavaliere sotto i nuovi
elmi con celata; ma probabile che la ragione vera sia stata la necessità
di distinguere facilmente i combattenti nel corso di un torneo.
L’araldica si basava su regole ferree; uno stemma era proprietà
esclusiva di un determinato cavaliere, e dopo la sua morte passava al
figlio primogenito; gli altri figli usavano una variante delle “armi”,
come si chiamavano, del padre. Queste “armi” erano descritte con un
rigido linguaggio convenzionale, così come rigidamente codificati erano
i colori ed i “metalli” (argento e oro) usati negli stemmi.
I Cavalieri del
Sol Levante
L’Europa non fu
l’unico continente ad avere una classe di guerrieri professionisti. Il
Giappone sviluppò una società per molti versi simile al sistema feudale
del Medioevo europeo: in effetti il samurai nipponico è l’equivalente
del cavaliere europeo. Anch’egli era un guerriero, spesso combattente a
cavallo, che giurava fedeltà ad un grande feudatario, ed, a sua volta,
riceveva la fedeltà da altri guerrieri.
I guerrieri
giapponesi, proprio come quelli occidentali, avevano bisogno di servi
sia per essere accuditi e sia per indossare l’armatura. Il Samurai aveva
il potere di vita e dimorte sui propri servi ed i suoi contadini, che
coltivavano le sue terre.
Il Samurai
aveva un legame profondo con la propria spada che era chiamata katana
ed era
inguainata in
fodero di legno chiamato saya. La guardia a protezione della mano
era formata da un ovale di metallo lavorato, lo tsuba. L’elsa (tsuka)
era ricoperta di ruvida pelle di pescecane, per garantire una solida
presa, e decorata con filo di seta: era terminata all’estremità da un
piccolo pomolo appiattito, il
kashira.
Il corredo
di spade (daisho) comprendeva anche una spada più corta (wakizashi)
portata alla cintura.
Non era facile
usare una katana nel modo migliore e sfruttare tutte le potenzialità
della sua affilatissima lama: ad un samurai occorrevano molti anni di
duro lavoro per apprendere le decine e decine di schemi di
combattimento, ed assimilarli in maniera perfetta.
Dopo la “Guerra
Gempei” del 1180-1185, il Giappone ebbe un imperatore, ma il potere
effettivo rimase nelle mani del comandante militare, lo Shogun
E, quando in
seguito alle continue guerre civili, il potere dello Shogun si indebolì
(verso la metà del XVI secolo), il Giappone si frantumò in una serie di
regni feudali, ognuno governato da un daimyo (equivalente del
barone). Nel 1543 i mercanti portoghesi introdussero in Giappone le
prime armi da fuoco, che provocarono la formazione di eserciti
professionali ed il declino dei samurai. Rinacque il potere dello Shogun,
dopo una vittoria all’inizio del XVII secolo. L’ultima grande battaglia
tra samurai fu combattuta nel 1615.
I Mercenari
Accadeva
talvolta, sul campo di battaglia, che i corpi di cavalleria, per quanto
pesantemente armati, non riuscissero a spezzare la resistenza opposta da
schiere di fanti ben disciplinati. La guerra tra Svizzera e Borgogna,
nel 1476-1477, dimostrò che, infatti, la cavalleria feudale non era in
grado di sconfiggere solide falangi di fanti armati di picche, sostenuti
da archibugieri. Così, con il Cinquecento, la fanteria divenne ( e
rimase) “la regina delle battaglie”. In Germania un corpo di fanteria,
che si chiamò Landsknechte (lanzichenecchi in italiano), copiò le
tattiche dei vicini Svizzeri, basate sulla combinazione di archibugieri
e picchieri. Erano nate le truppe mercenarie. Le forze feudali, che
combattevano a difesa della propria terra, vennero gradualmente
rimpiazzate da eserciti permanenti di “soldati”, cioè di uomini pagati
per combattere, fossero essi veri e propri mercenari o combattenti
reclutati sul posta. In questi eserciti esistevano ancora molti
cavalleggeri: ma il loro ruolo andava diventando sempre meno importante.
Il Declino
della Cavalleria
I sovrani
preferivano sempre più ricorrere ad eserciti di professionisti,
lasciando che i cavalieri feudali oziassero nei loro ormai inutili
castelli; finchè, nel Seicento, la guerra divenne esclusivo appannaggio
di milizie mercenarie, reclutate tra le classi inferiori. I nobili erano
ancora usati come ufficiali (generalmente di cavalleria), ma ormai la
concezione medievale di una classe di guerrieri a cavallo era diventata
un ricordo del passato.
Così come era
sparita l’idea che un cavaliere dovesse essere obbligatoriamente figlio
di un altro cavaliere. Il titolo era diventato semplicemente un
appellativo onorifico, un riconoscimento che il monarca concedeva a
coloro (anche non nobili) che egli voleva far oggetto di particolari
distinzioni. E così accade tutt’oggi in molti Paesi. Tuttavia i
“cavalieri antiqui” non sono del tutto dimenticati. Il loro fascino
continua ad aleggiare nella nostra società, rinfocolato dalla romantica
presenza dei castelli e dal sopravvivere delle leggende cavalleresche,
come quella di Re Artù, narrate dai poemi medievali o da quelli
rinascimentali come il Tasso e l’Ariosto, e riprese dal Romanticismo
ottocentesco.
|