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I Cavalieri Medioevali

La nascita della Cavalleria

Nel V secolo dell’era cristiana l’Impero Romano d’Occidente crollò sotto i colpi delle tribù barbariche che invasero i suoi territori e vi si stabilirono. Tra queste tribù assunsero sempre più importanza i Franchi, che si erano insediati nelle terre dell’antica Gallia e nella Valle del Reno. Essi allargarono gradualmente la loro sfera d’influenza, tanto che, nell’anno 800, il loro re Carlomagno potè assumere il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero, riunendo sotto il suo scettro quasi tutta l’Europa occidentale. Carlomagno, come già i suoi predecessori, incrementò il numero di cavalieri militanti nell’esercito franco, assegnando loro, per pagare il costoso armamento ed il lungo addestramento necessari per combattere a cavallo, ampie estensioni di terre demaniali. Allorchè nel IX secolo l’Impero Carolingio, sconvolto da guerre civili e da invasioni, si disgregò, la società si riorganizzò intorno a questi armati locali, cui i contadini si offrirono in servitù in cambio di protezione. A loro volta i signori locali si legarono in un analogo rapporto di vassallaggio con i signori più importanti, in una catena di reciproci legami di fedeltà che permearono, condizionando, tutta la società europea e che assunse il nome di “feudalesimo”.

Al centro del sistema stava il rango di cavaliere:

la capacità, sia tecnica che economica, di combattere a cavallo, che contraddistingueva la classe dominante.

Questo nuovo ordine sociale, basato su una classe di cavalieri al servizio di un nobile locale (conte, marchese,duca) e, servita a sua volta, dai contadini, si consolidò definitivamente intorno all’XI secolo.

I Normanni

Nel tentativo di porre un argine alle continue incursioni dei Vichinghi nella Francia settentrionale, il re Carlo il Semplice, nel 911, diede in feudo alcune terre della regione ad un gruppo di questi invasori nordici. Essi chiamarono la nuova patria  “Normandia” (terra degli uomini del nord), il loro capo Rollone, ne divenne il primo duca. I Vichinghi combattevano a piedi, ma i Normanni, come da allora cominciarono a chiamarsi, adottarono la tattica franca del combattimento a cavallo,

diventando in breve tempo cavalieri formidabili.

Nel 1066 alla morte del re d’Inghilterra Edoardo il Confessore, il duca Guglielmo di Normandia (che era un suo cugino), sostenne che il defunto sovrano gli avesse promesso il trono e, a sostegno delle sue pretese, invase l’Inghilterra. I Normanni sconfissero il nuovo re Aroldo in una battaglia presso Hastings ed introdussero, nel regno conquistato, la cavalleria di tipo franco, l’ordinamento feudale che ne era la conseguenza e l’uso del castello che ne era l’espressione architettonica. Più o meno, nello stesso periodo, bande di cavalieri normanni affermarono il loro dominio sull’Italia meridionale e sulla Sicilia.

L’Educazione del Cavaliere

Quando un rampollo di nobile casata era ritenuto maturo per iniziare la sua educazione di cavaliere (ciò avveniva intorno ai sette anni), veniva inviato come paggio nella dimora di un gentiluomo (spesso un parente, come uno zio, oppure un grande signore).

Qui imparava sia a stare in società, sia a cavalcare. Intorno ai quattordici anni passava al seguito di un cavaliere in qualità di scudiero. Apprendeva così a maneggiare le armi, ad accudire il cavallo del suo signore, a tenere in ordine il suo equipaggiamento.

Accompagnava il cavaliere in battaglia, aiutandolo ad indossare l’armatura e soccorrendolo quando era ferito o disarcionato. Imparava a tirare con l’arco ed a trinciare la carne da mettere in tavola. Infine, se svolgeva in modo soddisfacente questo apprendistato, intorno ai ventuno anni, riceveva la sospirata investitura a cavaliere.

I giovani che volevano assurgere al rango di cavaliere, dovevano curare con attenzione la loro preparazione fisica. Così, gli scudieri esercitavano in continuazione i loro muscoli e si addestravano con costanza nell’impiego delle armi. Era un tirocinio di notevole durezza, a cui non tutti resistevano. Infatti, solo quelli che resistevano, potevano aspirare al cavalierato.

Il compito iniziale dello scudiero, come si evince dal nome stesso, era quello di portare lo scudo del cavaliere. Sembra infatti che, nell’XI e XII secolo, molti scudieri venissero dalle classi inferiori e molti rimanevano in questa condizione perché nel XIII secolo diventare cavaliere era così costoso che parecchi si sforzavano di evitare la promozione, mantenendo il rango inferiore.

Lo scudiero era infine nominato cavaliere con una solenne cerimonia di investitura. Il “buffetto”, affibbiato con la mano sulla guancia o sulla nuca del neo cavaliere, venne sostituito nel XIII secolo da un colpetto dato con il piatto della spada. Il cavaliere cingeva poi spada e speroni, ornamenti con cui partecipava alle successive celebrazioni, in cui faceva sfoggio della sua abilità. La cerimonia d’investitura era sempre seguita da un altro cavaliere (spesso il signore presso cui il neocavaliere era stato scudiero e, talvolta, anche dallo stesso re).

Il Vestito di Ferro

Inizialmente l’armatura dei cavalieri era costituita da una cotta di maglia: una specie di tunica fatta di molti e piccoli anelli di ferro fittamente collegati fra loro. Nel corso del XII secolo questa corazzatura andò estendendosi, venendo a proteggere anche le braccia e le gambe mediante maniche e cosciali di maglia metallica. Si cominciò anche a portare una sottocotta imbottita e trapuntata avente il compito di smorzare i colpi.

Nel Trecento si diffuse tra i cavalieri l’uso di piastre di ferro per proteggere gli arti, o le parti più esposte di essi. Anche il torso venne protetto sempre più spesso con piastre metalliche fissate ad una veste d’arme di tessuto. Nel secolo successivo, alcuni cavalieri cominciarono a portare una completa armatura metallica, che proteggeva ogni parte del corpo. Il peso completo di una simile corazzatura si aggirava intorno ai 20 25 kg, così ben distribuiti tuttavia, da consentire ad un guerriero armato di tutto punto, di correre, saltare o montare a cavallo senza alcun aiuto, anche se, allora come oggi, correvano storie di cavalieri (peraltro del tutto infondate) che si facevano issare a cavallo con una gru, perché paralizzati dal peso dell’armatura. In realtà, il vero problema della corazza era un altro: la grande scatola di ferro, quasi senza aerazione, diventava rapidamente un forno.

A partire dal XV secolo si generalizzò l’uso di proteggere i cavalieri con un’armatura completa di piastre metalliche, sagomate in modo che le punte e le lame delle armi, scivolassero sulle loro superfici levigate. Questo accorgimento permetteva di smorzare la forza dei colpi, e quindi, consentiva di realizzare corazze ragionevolmente leggere. Le armature imitavano spesso le fogge delle vesti civili. Alcune erano parzialmente verniciate di nero, sia per proteggere il metallo, sia per ragioni decorative; altre venivano azzurrate, così da riflettere i raggi solari e diminuire il riscaldamento del metallo sotto il sole.

Qualche esemplare di pregio venne decorato al bulino e, nel Cinquecento, si diffuse l’abitudine di incidere i disegni decorativi con l’acido. Bordi e fregi erano spesso in oro, o dorati: finitura che, in alcuni casi speciali, veniva estesa a tutta l’armatura.

Opinione comune è che le armature a piastra fossero goffe e rigide. Ma, se questo fosse stato vero, non sarebbero mai state usate in battaglia. In realtà, un uomo in armatura poteva fare quasi ogni cosa che fosse capace di fare quando non la indossava. Il “segreto” stava nel modo in cui gli armaioli sagomavano le piastre, affinchè si potessero muovere l’una rispetto all’altra seguendo i movimenti del cavaliere. Alcune piastre erano incernierate e potevano ruotare una sull’altra. Altre erano unite da perni scorrenti in un’asola, in modo da poter non solo ruotare, ma anche scorrere. Molte erano connesse mediante stringhe interne di cuoio, che ne facilitavano lo scorrimento reciproco. Quelle sagomate a tubo avevano imbocchi a flangia o a manicotto, così da infilarsi l’una nell’altra e da ruotare senza scoprire parti del corpo.

Le armature più antiche erano abbastanza facili da indossare: si infilava la maglia dalla testa e quindi si affibbiavano sulla schiena le piastre di rinforzo per il torso, i fianchi e le spalle.

Infilarsi le armature a piastre metalliche era, invece, notevolmente più complicato, anche se, con l’aiuto di uno scudiero, un cavaliere poteva prepararsi al combattimento (o togliersi l’armatura) in pochi minuti. Si iniziava con l’indossare la “veste d’armi”, cioè l’indumento che stava sotto l’armatura, quindi si mettevano in posizione i vari pezzi dell’armatura stessa, cominciando rigorosamente da quelli inferiori e finendo con l’elmo.

 Nel Quattrocento, alcuni pezzi dell’armatura, venivano fissati alla veste d’armi, ma nel secolo successivo, ogni piastra veniva, di regola, assicurata alle altre per mezzo di corregge, perni o ganci.

Le parti dell’armatura

Il cimiero: questo ornamento rendeva agevole l’identificazione sul campo di battaglia, tuttavia già in quell’epoca, andava perdendo popolarità a favore di elmi meno ornati, come il bacinetto con visiera.

Il bacinetto: o elmetto con visiera, nato in Italia nel XIV secolo, aveva probabilmente in origine una celata ribaltabile sulla fronte. Ma venne poi affermandosi la più pratica incernieratura laterale, quella che in Germania veniva scherzosamente chiamata Hundgugel, museruola.

Maglia metallica: nelle cotte di maglia ogni anello era intrecciato, mentre era ancora aperto, con quattro altri anelli.Poi veniva ribattuto così da chiudersi. Il peso di una simile corazza si aggirava attorno ai 9-14 kg, in parte gravanti sulle spalle del combattente. Poiché la maglia era flessibile, un colpo inferto con forza, poteva provocare serie contusioni, od anche fratture letali.

Lo scudo: i cavalieri protetti dalla sola maglia metallica, erano molto vulnerabili da parte di forti colpi di mazza o di lancia. Dovevano perciò proteggersi dietro grandi scudi. Nel Quattrocento, grazie ai progressi della corazza a piastre, gli scudi divennero molto più piccoli e leggeri.

Il Cavaliere e le sue Armi

 La spada era l’arma più importante del cavaliere, il simbolo stesso della cavalleria. Fin verso la fine del Duecento, la tipica spada da combattimento era a lama larga ed a doppio taglio; ma, con il diffondersi delle armature a piastre, vennero in uso spade più lunghe e sottili, adatte a colpire di punta, così da infilarsi nei sottili spazi, tra una piastra e l’altra.

Venne acquisendo favore anche la mazza ferrata, eccellente per fracassare le armature. Prima di impugnare la spada o la mazza, tuttavia, il cavaliere caricava l’avversario con la lancia abbassata.

Anche la lancia venne trasformandosi con il tempo, aumentando la sua lunghezza e munendosi, a partire dal Trecento, di una guardia circolare a protezione dell’impugnatura. Altre armi, come l’ascia da guerra a manico corto, potevano essere saltuariamente usate nel combattimento a cavallo. Gli spadoni dall’impugnatura allungata, da afferrare a due mani, erano invece riservate per i combattimenti a piedi.

In Sella

Le cavalcature erano un elemento costoso, ma fondamentale, nell’equipaggiamento del cavaliere. Occorrevano cavalli per combattere, altri per cacciare, altri ancora per le giostre, per i tornei e per trasportare i bagagli. La cavalcatura più costosa era il destriero, cioè il cavallo da battaglia. Si trattava, generalmente, di uno stallone di grosse dimensioni. La sua cassa toracica ne faceva un animale molto solido e resistente, ma era anche agile nei movimenti. Le razze più apprezzate erano quelle dei paesi mediterranei: Italia, Francia, Spagna (in effetti l’attuale razza Andalusa è quella più vicina, nei suoi caratteri, al destriero medievale).

Dal XIII secolo in poi diventò normale, per un cavaliere, disporre di almeno due destrieri, più numerosi i cavalli adibiti ad altri scopi. Tra questi spiccava il “corsiero”, veloce cavalcatura da caccia (talvolta la definizione veniva usata anche per cavalli da battaglia, così come il “destriero” poteva indicare l’animale da torneo).

Per viaggiare veniva usato il “palafreno”, dal carattere più docile e malleabile, mentre per trasportare i bagagli si utilizzavano tranquille e robuste bestie da soma.

Anche il cavallo da battaglia portava, generalmente, una corazzatura a protezione della testa, del collo e del petto, mentre il resto del corpo era rivestito da una gualdrappa colorata e, spesso, decorata affinchè mostrasse le insegne araldiche del cavaliere; poteva anche essere imbottita per attutire i colpi ed, in qualche caso, era addirittura di maglia metallica.

Il Nemico piu’ pericoloso

La cavalleria feudale trovò, abbastanza presto, una fanteria capace di tenerle testa. Nel 1066 ad Hastings, i fanti sassoni armati d’ascia decimarono la cavalleria normanna. Nel 1302, a Courtrai, le milizie fiamminghe, per quanto armate di bastoni, volsero in fuga i cavalieri francesi. Le falangi scozzesi, armate di lance corte, bloccarono le furiose cariche della cavalleria inglese a Bannockburn, nel 1314. La stessa tattica venne usata con successo dai picchieri svizzeri.

Anche gli archi si rivelarono micidiali contro la cavalleria. I “lunghi archi” della fanteria inglese, spezzarono l’assalto dei cavalieri francesi a Crécy, nel 1346, e sterminarono gli stessi cavalieri (per l’occasione caricati a piedi) ad Azincourt, nel 1415. Le balestre, poi, con i loro dardi corti scagliati con una grande forza propulsiva, erano letali. E nel primo Quattrocento, gli Ussiti boemi, sbaragliarono la cavalleria germanica usando massicce concentrazioni di armi da fuoco, appostate dietro barricate di carri che spezzavano l’impeto dei cavalieri.

In Battaglia

Le regole della cavalleria imponevano rispetto per il nemico vinto. Il che, oltre ad essere umano, permetteva di lucrare il riscatto dei prigionieri, per lo meno se di alto rango. Ma questo codice morale non era sempre osservato da parte di uomini eccitati che avevano visto in faccia la morte. Gli arcieri inglesi, per esempio, massacrarono senza pietà (con l’aiuto dei loro cavalieri) i nobili francesi battuti a Crécy (1346), a Poitiers (1356), ad Azincourt (1415). Da parte loro i cavalieri davano raramente quartiere ai fanti nemici volti in fuga, inseguendoli ed abbattendoli spietatamente. Il rischio di una battaglia campale era enorme: vi si poteva perdere l’intero esercito, od anche il trono. Perciò la tattica preferita dai comandanti era il saccheggio e la devastazione del territorio nemico. Così ci si procacciavano provviste a buon mercato, si distruggevano le proprietà dell’avversario e si dimostrava ai suoi sudditi che il loro signore non era in grado di proteggerli. Per contrastare questa tattica, l’invaso cercava di braccare quanto più da vicino poteva l’esercito nemico, così da impedirne lo sparpagliamento nel territorio.

Sicuramente, queste parole non danno un’immagine fiera ed orgogliosa di un cavaliere, ma dobbiamo ricordarci che stiamo parlando del particolare momento di una battaglia o di una guerra, e, per antonomasia, questi momenti non sono i più adatti a mostrare le virtù di un Cavaliere, che , in tempo di pace, si comporterebbe in tutt’altro modo.

Il Castello

Il castello era sia la residenza privata del signore feudale, sia il centro delle sue attività economiche e la base dei suoi soldati. I primi castelli vennero probabilmente eretti nel IX secolo nella Francia nord occidentale, come difesa verso i disordini civili e le invasioni vichinghe. Alcuni erano in pietra, ma la maggior parte consisteva di terrapieni sormontati da palizzate di tronchi. Lentamente, tuttavia, si affermò l’impiego della pietra o, secondo la disponibilità del luogo, del mattone, cioè di materiali più durevoli e meglio resistenti al fuoco.

Nel Quattrocento, infine, l’aumentato bisogno di comfort, frutto di una società più sviluppata e ricca, e l’avvento delle armi da fuoco, resero obsoleti i castelli feudali. Parte delle loro funzioni militari vennero assunte dal forte, un nuovo tipo di fortificazione eretta (consistente sostanzialmente in una piattaforma per cannoni) e tenuta in funzione dallo stato, non più dai signori feudali.

I castelli erano strutturati in modo da difendere i loro occupanti contro gli attacchi dei possibili nemici. Il primo ostacolo che un attaccante generalmente incontrava era il fossato, che girava tutto intorno al castello e che era spesso munito di palizzate per intralciare e rallentare i movimenti dei soldati che vi scendessero per attaccare le mura.

Talvolta il fossato era riempito d’acqua: un mezzo eccellente per tenere lontano il nemico. Dalle cortine sporgevano, poi, ad intervalli regolari le torri, dalle quali gli arcieri potevano colpire di fianco il nemico che si accostava alle mura. I difensori potevano disporre anche di piccole porte (posterle) da cui effettuare di sorpresa sortite contro gli attaccanti. Il castello serviva, poi, come rifugio per la cavalleria, che da esso poteva uscire per attaccare il nemico o devastarne i territori.

Spessissimo troviamo nei castelli medievali le caratteristiche finestre strombate (cioè strette verso l’esterno e larghe verso l’interno, in modo da far entrare più luce), che sorgevano principalmente nei piani bassi, erano il più possibile strette per difendersi sia dai proiettili nemici sia da possibili incursioni da parte di intrusi che scalassero le mura.

La costruzione delle fortificazioni erano estremamente costose e potevano richiedere anni di lavoro. Il feudatario ed il capomastro sceglievano di comune accordo il luogo della costruzione (di solito uno spiazzo sopraelevato), e ne impostavano le linee. Occorreva poi cavare la pietra necessaria. Bisognava apprestare grandi quantità di acqua, sabbia e calce per la malta. Materiali e manodopera erano, generalmente, forniti dal signore.

Gli ingressi erano sempre ben difesi e muri provvisti di una “scarpa” (si allargano cioè alla base) per meglio resistere ad eventuali lavori di scavo.

Il “dongione” era un grosso torrione, dalle mura di grande spessore, e poteva ospitare comodamente un feudatario con tutto il suo seguito. In genere il piano terra era usato come magazzino ed il primo piano per la guarnigione; il salone del piano superiore fungeva da sala dei banchetti ed, al caso, da dormitorio, mentre l’ultimo piano era occupato dal signore e la sua famiglia.

Ed ecco la descrizione, naturalmente succinta, di alcuni tipi di costruzioni.

Motte e Recinto: i castelli del X – XII secolo consistevano essenzialmente in un fossato, dietro cui si innalzavano dei terrapieni sormontati da una palizzata. Molti, specie nell’Europa settentrionale, avevano al centro una “motta”, cioè un tumulo artificiale di terra coronato da una torre (“il mastio”), residenza del signore e postazione per l’ultima difesa. Nel recinto attorno, trovavano posto le costruzioni ausiliarie.

Il Castello di pietra: il cassero o dongione (keep per gli inglesi), cioè il grande mastio di pietra, divenne frequente nel corso del XII secolo. Quelli più grandi potevano ospitare con una certa larghezza il signore ed il suo seguito. Anche le cortine esterne erano ora frequentemente di pietra, rafforzate da torri (quadrate o tonde) disposte ad intervalli.

Cerchie multiple: i castelli concentrici, che cominciano ad apparire nel XIII secolo, presentavano due cerchie successive di mura, l’una dentro l’altra. Le costruzioni più interne erano solitamente più alte di quelle esterne, così da poterle “comandare”, cioè batterle con il proprio fuoco. Ove esistevano, si utilizzavano anche i fiumi per mettere un ulteriore ostacolo tra attaccanti e difensori.

Castello recinto: le palizzate lignee intorno alla motta vennero spesso rimpiazzate da una più solida cortina in pietra, formando così un “castello recinto”. In qualche caso all’interno si cercò di innalzare una torre, ma il terreno di riporto delle motte non garantiva un appoggio abbastanza stabile. Il duecentesco castello di Clifford’s Tower, in Inghilterra, crollò proprio per questa ragione.

Le tecniche di assedio

Allorché un nemico assaltava un castello, cominciava con l’intimare agli occupanti di arrendersi e se questi rifiutavano, doveva tentare di espugnare la fortificazione. Poteva scegliere tra due tattiche: o stringere d’assedio il castello, impedendo a chiunque di entrare od uscire, finchè gli assediati non si arrendevano per fame, od usare la forza. In questo caso poteva tentare di scavare una galleria fin sotto le mura, per poi incendiare i puntelli sorreggenti lo scavo e far crollare le mura soprastanti, o per sbucare inaspettato all’interno della fortezza. Oppure, poteva battere le mura stesse con arieti, con catapulte o (successivamente) con i cannoni. O, ancora, poteva tentare di scalare le cortine con le scale o con una torre d’assedio, munita di ponte levatoio in cima, per consentirne lo “sbarco” degli attaccanti sulle cortine.

Vita al Castello

Il castello non era solo una costruzione militare: era innanzi tutto la casa del signore feudale e della sua famiglia. Il suo ambiente più importante era la grande sala comune, dove tutti si riunivano per i pasti, e dove si svolgeva la multiforme vita di tutti i giorni. Poi, ma non sempre, c’erano le stanze private del signore, la cucina, spesso esterna, la cappella, l’armeria, l’officina del maniscalco, le stalle, i canili, i recinti per i vari animali ed i magazzini che contenevano le provviste. Essenziale era una riserva di acqua interna – meglio ancora un pozzo- per garantire l’approvvigionamento idrico in caso di assedio. I muri esterni potevano essere imbiancati per proteggerli dalle intemperie; quelli interni erano spesso intonacati con cura e decorati con disegni ed affreschi. I castelli fungevano anche da luoghi di sosta per i nobili durante i loro spostamenti. In previsione del loro arrivo, gli appartamenti privati erano tirati a lucido, e, sul pavimento, si stendevano paglia pulita, canne ed erbe aromatiche.

Il Signore del Maniero

Alcuni cavalieri erano semplicemente dei mercenari che combattevano per denaro. Altri, soprattutto fino al XIII secolo inoltrato, erano al servizio del loro signore feudale, e vivevano a sue spese, nel suo castello, come truppe personali. Altri ancora, però, avevano ricevuto dal signore un possedimento terriero in cambio del loro servizio. Questi vassalli minori si costruivano allora, sulla terra ricevuta, un piccolo castello, generalmente di pietra, comprendente, oltre alla loro residenza, gli edifici adatti alla tenuta a agricola, da cui traevano il loro sostentamento. Infatti  i contadini della proprietà erano tenuti, in cambio dell’alloggio loro concesso, a prestare gratuitamente i loro servizi al signore del luogo, lavorando nei suoi campi e cuocendo il pane nel suo forno (pagando per il “privilegio”). Egli riceveva, come del resto la Chiesa, una parte dei prodotti della terra; ribadiva il suo patronato invitando talvolta i suoi contadini a feste popolari; amministrava la giustizia seduto nel cortile o nel salone del castello. Molto spesso, inoltre, aveva una casa nella città vicina, dove si recava per sbrigare gli affari.

I nobili costituivano una classe assai variegata al suo interno. Alcuni erano potenti signori proprietari di molti castelli, in cui si recavano di tanto in tanto se necessario, ma che erano, generalmente, affidati alle cure di un “balivo”, che periodicamente si recava in città a scambiare le derrate della proprietà con i prodotti portati dai mercanti ed a consegnare al signore, spesso indebitato con gli usurai cittadini, le rendite del feudo.

Le famiglie numerose erano comuni; il figlio maggiore seguiva le orme paterne abbracciando la carriera delle armi. Le figlie potevano sperare di sposare a loro volta dei gentiluomini, mentre i figli cadetti e le figlie non maritate finivano sovente in convento.

Purtroppo spesso, i nobili del Medioevo, non sapevano né leggere né scrivere, infatti, per firmare un documento, imprimevano generalmente il loro sigillo (inciso su un anello o su un punzone) sulla ceralacca fusa.

La Castellana

Le donne del Medioevo, anche quelle di nobile schiatta, avevano ben pochi dei diritti che godono le donne odierne. Le ragazze erano spesso già maritate a quattordici anni; il matrimonio era combinato dalla famiglia e comportava il pagamento di una dote, cioè di un dono al marito per compensarlo di aver “accettato” la moglie. Con il matrimonio, i beni della moglie passavano in proprietà al marito, ciò che faceva dei cavalieri degli attenti cacciatori di dote. Tuttavia la castellana godeva, nella vita privata, di una sostanziale parità con il suo compagno. Era per lui l’aiuto più sicuro, ed assumeva la responsabilità della proprietà quando egli era lontano, giungendo ad organizzare la difesa del castello contro eventuali nemici che l’attaccassero e l’assediassero.

La castellana sovrintendeva alle “attività” domestiche del castello: la cucina e la vita di tutti i giorni. Poteva avere dei dipendenti per sbrigare gli affari di casa, ma toccava sempre a lei sorvegliare gli acquisti ed autorizzare le spese.

Spettava a lei anche accogliere, con la dovuta cortesia, gli ospiti e provvedere alla loro sistemazione. Aveva dame di compagnia per intrattenerla, serventi per accudirla e nutrici per allevare i figli. I figli erano importantissimi: il compito principale della donna medievale era, infatti, quello di provvedere alla prole.

Le donne nobili, al contrario dei cavalieri, erano spesso ben istruite. Più d’una sapeva leggere e scrivere, capiva il latino, parlava lingue straniere. Inoltre importante era che sapessero filare la lana.

Il rango delle dame era indicato dalla ricchezza dei gioielli che indossavano (generalmente corone e spille).

Caccia e Falconeria

I sovrani ed i signori medievali erano appassionati cultori di caccia e falconeria. L’esercizio della caccia procurava carne fresca, costituiva un realistico addestramento alla guerra e permetteva ai cavalieri di dimostrare il loro coraggio nell’affrontare a viso aperto degli animali selvaggi pericolosi, come il cinghiale. I monarchi Normanni riservarono al proprio esclusivo uso vaste aree delle foreste inglesi, comminando delle severe pene ai bracconieri ed a chiunque violasse le riserve reali. Gli animali cacciati andavano dal daino al cinghiale, dagli uccelli ai conigli. I cavalieri cacciavano spesso a cavallo, ricavandone una grande eccitazione ed un buon allenamento al combattimento. Talvolta, invece, erano i battitori a spingere la preda a ridosso dei cacciatori appostati. Erano usati per la caccia anche archi o balestre, il che forniva un’utile familiarità con questa armi. La caccia con il falco era altrettanto diffusa, e gli uccelli ben addestrati erano molto ricercati. Solo i membri dell’alta aristocrazia, in realtà, avevano la possibilità di addestrare falconi di razza.

Un altro prezioso alleato del cacciatore era il cane, che veniva fatto oggetto di attenzioni continue. Gastone Febo di Foix raccomandava l’uso di certe erbe contro la rogna, le affezioni degli occhi, degli orecchi e della gola, e persino la rabbia. Le zampe, punte dai rovi, richiedevano molta attenzione. Gli arti lussati venivano sistemati dai “conciaossa”, e le fratture erano, naturalmente, immobilizzate con stecche.

Una delle armi più versatili e diffusa era la balestra. Poteva essere usata anche da cavallo e si poteva facilmente ricaricare con una leva a piè di porco o con un avvolgitore a manovella. Dal momento che la corda era tirata sino  al nottolino d’arresto e vi si fissava, scattando se si tirava il grilletto, la balestra poteva essere portata in giro già armata,pronta all’uso in caso si avvistasse qualche preda. Le balestre da caccia erano spesso sontuosamente decorate.

Per la caccia al cinghiale veniva usata una lancia che era un’arma solida e pesante, capace di bloccare un cinghiale in corsa, od anche un orso. Per impedire che la punta penetrasse troppo a fondo in profondità nelle carni della preda, era prevista una sbarretta sporgente a mezz’asta. Anche le spade per la caccia al cinghiale avevano la lama con due sporgenze laterali.

Infine, un’ultima annotazione particolarmente gradita dal gentil sesso, anche alle donne era permesso partecipare alla caccia.

L’Ideale Cavalleresco

Benché i cavalieri fossero uomini di guerra, si facevano un punto d’onore di comportarsi, appunto, “cavallerescamente” con i loro nemici. Nel corso del XII secolo questo atteggiamento tradizionale assunse la forma di un preciso codice di comportamento, che sottolineava, con particolare enfasi, il dovere di comportarsi cortesemente verso le donne.

I poemi sull’amor cortese, recitati dai trovatori della Linguadoca,  erano basati su questo codice; anche le storie cavalleresche così popolari nel Duecento, ribadivano tale ideale di vita. Le gerarchie ecclesiastiche favorivano questa evoluzione, al punto di fare dell’investitura a cavaliere una vera e propria cerimonia religiosa, con tanto di veglia d’arme e bagno purificatore. Ma , purtroppo, pur se numerosi libri ribadirono gli ideali cavallereschi, nella realtà, fu ben difficile far corrispondere i comportamenti quotidiani ad un simile alto ideale.

Il Torneo

I guerrieri dovevano esercitarsi continuamente alla battaglia, ed il torneo nacque, intorno all’XI secolo, proprio come pratica di addestramento bellico: due quadre contrapposte di cavalieri, talvolta coadiuvate da schiere di fanteria, combattevano una finta battaglia –indicata con  il nome francese di melée, mischia,- in un vasto spiazzo campestre. I cavalieri sconfitti cedevano al vincitore cavallo ed armatura: un buon combattente poteva così arricchirsi lecitamente, esercitandosi alla lotta. Nei primi tempi si impiegavano armature da battaglia ed armi vere. Benché i tornei fossero popolarissimi tra i cavalieri, e moltissimo pubblico affluisse per vederli, la Chiesa non smise mai di disapprovarli, a causa dello spargimento inutile di sangue che causavano.

Per questa ragione, a partire dal XIII secolo, vennero introdotte armi “cortesi”, cioè spuntate. Nel Torneo ad armi spuntate si affrontavano due squadre di cavalieri armati di grossi randelli o di armi spuntate. Lo scopo dei contendenti era quello di colpire il cimiero, posto sugli elmi degli avversari, evitando la faccia (protetta comunque da apposite griglie). Ogni cavaliere aveva al suo fianco un portastendardo; una serie di serventi (chiamati “valletti”) erano pronti a raccoglierlo se cadeva. Al centro del campo, tra le due corde che separavano le squadre contendenti, cavalcava il cavaliere d’onore; sulle tribune si accalcavano le dame e trovavano posto i giudici del torneo.

Nel frattempo, comparivano altri tipi di combattimento simulato come la “Giostra,” la “Tenzone” ed il combattimento a piedi. Nel Quattrocento si diffuse il pas d’armes: uno o più sfidanti scendevano in lizza, cioè sul terreno di scontro, e sfidavano a duello altri cavalieri. Infine, nel Seicento, al torneo si sostituì una carica stilizzata di cavalleria, il “Carosello”.

Il rutilante scenario di un torneo era il luogo ideale per far mostra di blasoni e di ogni altro tipo di fantasioso ornamento araldico. I cavalieri vi indossavano anche svolazzanti pennacchi, che, invece, erano scomparsi ben presto sui campi di battaglia.

Le dame ispezionavano vessilli ed elmi dei concorrenti prima del torneo. Se una di esse veniva a conoscenza che un cavaliere aveva violato le leggi della cavalleria, ne gettava l’elmo a terra ed il concorrente veniva escluso.

La Giostra

Nel corso del XIII secolo al torneo si aggiunse una nuova, spettacolare forma di combattimento,: la Giostra. In essa i cavalieri si combattevano uno contro l’altro singolarmente, in duello. Era, dunque, uno scontro in cui un combattente poteva dimostrare la sua valentia senza turbamento di elementi estranei. Generalmente i contendenti si battevano a cavallo, usando le lance, tuttavia, in qualche occasione, continuavano la lotta anche a colpi di spada. I due cavalieri si lanciavano l’uno contro l’altro al galoppo, cercando ognuno di disarcionare l’avversario con un ben assestato colpo di lancia. Se non ci riusciva, ma comunque si arrivava a spezzare la lancia contro lo scudo dell’opponente, si “segnava un punto”. Talvolta ci si scontrava in una “giostra di guerra” usando lance da battaglia dalla punta acuminata, che potevano anche uccidere un uomo (disfida di Barletta); ma in generale ci si batteva in una “giostra di pace”, impiegando lance smussate o con un tampone in cima: una specie di coroncina che distribuiva su una superficie maggiore l’impatto del colpo. Per la giostra si svilupparono anche armature di tipo particolare, che garantivano una maggiore protezione. Nel corso del XV secolo si introdusse anche una sorta di barriera che separava i settori dei due avversari, così da impedire le collisioni frontali.

Il combattimento a piedi

Già nel corso del Duecento accadeva in qualche giostra che i cavalieri, dopo aver spezzato le loro lance, smontassero di sella e si affrontassero con le spade. Ma nel secolo successivo simili combattimenti a piedi divennero frequenti e programmati. Ogni contendente doveva effettuare un numero prestabilito di assalti, in alternanza con l’avversario, gruppi di armigeri erano pronti ad intervenire se i contendenti si eccitavano troppo.

Le cronache quattrocentesche riferiscono che ognuno dei contendenti scagliava un giavellotto; quindi la lotta proseguiva con la spada, con l’ascia o con armi in asta. Ancora più tardi si affermarono scontri a squadre, con due gruppi di armati combattenti ai lati opposti di una barriera: era il cosiddetto “torneo appiedato”. Infatti, proprio come nel torneo a cavallo, ogni uomo doveva spezzare una lancia contro l’avversario e poi continuare a battersi utilizzando spade dal filo smussato.

L’Araldica

Gli uomini hanno sempre decorato i loro scudi. Nel corso del XII secolo, però, questa ornamentazione si stabilizzò secondo certe regole predefinite, che consentivano ad un cavaliere di identificarsi con precisione attraverso i disegni del proprio scudo o della propria sopravveste: era nata l’araldica. Si è spesso sostenuto che essa nacque dall’impossibilità di distinguere il volto del cavaliere sotto i nuovi elmi con celata; ma probabile che la ragione vera sia stata la necessità di distinguere facilmente i combattenti nel corso di un torneo. L’araldica si basava su regole ferree; uno stemma era proprietà esclusiva di un determinato cavaliere, e dopo la sua morte passava al figlio primogenito; gli altri figli usavano una variante delle “armi”, come si chiamavano, del padre. Queste “armi” erano descritte con un rigido linguaggio convenzionale, così come rigidamente codificati erano i colori ed i “metalli” (argento e oro) usati negli stemmi.

I Cavalieri del Sol Levante

L’Europa non fu l’unico continente ad avere una classe di guerrieri professionisti. Il Giappone sviluppò una società per molti versi simile al sistema feudale del Medioevo europeo: in effetti il samurai nipponico è l’equivalente del cavaliere europeo. Anch’egli era un guerriero, spesso combattente a cavallo, che giurava fedeltà ad un grande feudatario, ed, a sua volta, riceveva la fedeltà da altri guerrieri.

I guerrieri giapponesi, proprio come quelli occidentali, avevano bisogno di servi sia per essere accuditi e sia per indossare l’armatura. Il Samurai aveva il potere di vita e dimorte sui propri servi ed i suoi contadini, che coltivavano le sue terre.

Il Samurai aveva un legame profondo con la propria spada che era chiamata katana ed era inguainata in fodero di legno chiamato saya. La guardia a protezione della mano era formata da un ovale di metallo lavorato, lo tsuba. L’elsa (tsuka) era ricoperta di ruvida pelle di pescecane, per garantire una solida presa, e decorata con filo di seta: era terminata all’estremità da un piccolo pomolo appiattito, il kashira. Il corredo di spade (daisho) comprendeva anche una spada più corta (wakizashi) portata alla cintura.

Non era facile usare una katana nel modo migliore e sfruttare tutte le potenzialità della sua affilatissima lama: ad un samurai occorrevano molti anni di duro lavoro per apprendere le decine e decine di schemi di combattimento, ed assimilarli in maniera perfetta.

Dopo la “Guerra Gempei” del 1180-1185, il Giappone ebbe un imperatore, ma il potere effettivo rimase nelle mani del comandante militare, lo Shogun

E, quando in seguito alle continue guerre civili, il potere dello Shogun si indebolì (verso la metà del XVI secolo), il Giappone  si frantumò in una serie di regni feudali, ognuno governato da un daimyo (equivalente del barone). Nel 1543 i mercanti portoghesi introdussero in Giappone le prime armi da fuoco, che provocarono la formazione di eserciti professionali ed il declino dei samurai. Rinacque il potere dello Shogun, dopo una vittoria all’inizio del XVII secolo. L’ultima grande battaglia tra samurai fu combattuta nel 1615.

I Mercenari

Accadeva talvolta, sul campo di battaglia, che i corpi di cavalleria, per quanto pesantemente armati, non riuscissero a spezzare la resistenza opposta da schiere di fanti ben disciplinati. La guerra tra Svizzera e Borgogna, nel 1476-1477, dimostrò che, infatti, la cavalleria feudale non era in grado di sconfiggere solide falangi di fanti armati di picche, sostenuti da archibugieri. Così, con il Cinquecento, la fanteria divenne ( e rimase) “la regina delle battaglie”. In Germania un corpo di fanteria, che si chiamò Landsknechte (lanzichenecchi in italiano), copiò le tattiche dei vicini Svizzeri, basate sulla combinazione di archibugieri e picchieri. Erano nate le truppe mercenarie. Le forze feudali, che combattevano a difesa della propria terra, vennero gradualmente rimpiazzate da eserciti permanenti di “soldati”, cioè di uomini pagati per combattere, fossero essi veri e propri mercenari o combattenti reclutati sul posta. In questi eserciti esistevano ancora molti cavalleggeri: ma il loro ruolo andava diventando sempre meno importante.

Il Declino della Cavalleria

I sovrani preferivano sempre più ricorrere ad eserciti di professionisti, lasciando che i cavalieri feudali oziassero nei loro ormai inutili castelli; finchè, nel Seicento, la guerra divenne esclusivo appannaggio di milizie mercenarie, reclutate tra le classi inferiori. I nobili erano ancora usati come ufficiali (generalmente di cavalleria), ma ormai la concezione medievale di una classe di guerrieri a cavallo era diventata un ricordo del passato.

Così come era sparita l’idea che un cavaliere dovesse essere obbligatoriamente figlio di un altro cavaliere. Il titolo era diventato semplicemente un appellativo onorifico, un riconoscimento che il monarca concedeva a coloro (anche non nobili) che egli voleva far oggetto di particolari distinzioni. E così accade tutt’oggi in molti Paesi. Tuttavia i “cavalieri antiqui” non sono del tutto dimenticati. Il loro fascino continua ad aleggiare nella nostra società, rinfocolato dalla romantica presenza dei castelli e dal sopravvivere delle leggende cavalleresche, come quella di Re Artù, narrate dai poemi medievali o da quelli rinascimentali come il Tasso e l’Ariosto, e riprese dal Romanticismo ottocentesco.

 


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