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La donna e la famiglia

 

Prefazione

Verso l'XI secolo la concezione della società cristiana non assegna nessun posto specifico alle donne. Si gerarchizzano "ordini" o "condizioni" (cavalieri, chierici, contadini), ma non si prevede per la donna nessuna "condizione femminile" anche se, gli uomini del Medioevo, a lungo hanno concepito "la donna" come una categoria. Solo in seguito hanno fatto intervenire distinzioni sociali ed attività professionali per conferire delle sfumature ai modelli di comportamento che le proponevano. Prima di essere contadina, castellana, santa "la donna" è stata caratterizzata in base al suo corpo od al suo sesso, alle sue relazioni con i gruppi familiari. Sia che esse siano spose, vedove o vergini, la personalità giuridica e l'etica quotidiana è stata disegnata nel rapporto con un uomo od un gruppo di uomini.

Quest'articolo eviterà di contrapporre in una galleria di ritratti, le molteplici figure che le donne, nel corso di mezzo millennio, hanno assunto nella scacchiera sociale. Cercherò di situarle nella cornice che i contemporanei assegnavano loro di primo acchito, nel complesso delle costrizioni che la parentela e la famiglia hanno imposto all'affermazione delle donne, come individui dotati di piena personalità giuridica, morale ed economica.

   

L'Alleanza matrimoniale.

 

Nel Medioevo il rapporto dell'alleanza matrimoniale ha, alla sua origine, una "pace". Al termine di un processo di rivalità, a volte di una guerra aperta, tra famiglie, instaura e sigilla una pace. Concedere la mano di una donna al lignaggio con cui ci si riconcilia, pone la sposa al centro dell'intesa. A questo pegno, e strumento di concordia, si assegna un ruolo che oltrepassa il suo destino individuale e le sue aspirazioni personali.

Mantenere l'alleanza fra i due gruppi evitando qualunque comportamento reprensibile,

operare alla perpetuazione del lignaggio in cui entra procreando per esso, assicurargli fedelmente l'uso del suo corpo e dei beni che gli porta: ecco ciò che si impone alla donna con una forza forse maggiore dei doveri verso il marito. Ci sarà bisogno di una lenta maturazione della riflessione, nata negli ambienti ecclesiastici, sui fondamenti dell'unione coniugale, ci vorranno anche sconvolgimenti economici e sociali molto profondi affinché, in questa rete di costrizioni, compaia l'immagine della coppia e perché, in seno alla coppia, si delinei la figura della "buona moglie".

Non mancano gli esempi di matrimoni che, utilizzando le donne, instaurano o restaurano dei legami di amicizia fra due lignaggi. I primi a ricercare simili unioni sono certamente i capi stessi della cristianità: un re di Francia, Enrico I, nel secolo XI, va a cercarsi una sposa nel lontano principato di Kiev, in Russia.

Ad un grado ancor più basso della gerarchia sociale, negli ambienti patrizi cittadini dei secoli XIII – XIV, vecchi odi ed interminabili vendette, si concludono allo stesso modo con uno scambio di donne, mentre, simmetricamente, guerre, private o no, divampano talvolta quando l'unione fallisce. A Firenze, verso il 1300, la parte bianca si amalgama attorno all'unione, conclusa nel 1288, fra un Cerchi ed una Adimari, unione che pose fine ad una vecchia inimicizia, mentre il disaccordo del capo dei Neri con la prima moglie, per l'appunto una Cerchi, e poi il suo secondo matrimonio con una cugina, ricca ereditiera presa nel partito opposto, riaccendono le passioni e la guerra civile.

Qualche anno dopo, nel 1312, un altro fiorentino, Giotto Peruzzi, riporta nel suo Libro Segreto la parte con cui ciascun membro del suo lignaggio deve contribuire al pagamento dell'enorme dote che, sua figlia, porterà agli Adimari, famiglia nemica con cui i Peruzzi hanno concluso una pace solenne. Anche qui, spostata sulla scacchiera di famiglia, la donna garantisce il rispetto dell'accordo; è il simbolo stesso della pace.

Nel contempo si vanno diffondendo le parole di Sant'Agostino, che  assimila l'obbligo di sposare persone con cui non si hanno vincoli di parentela, ossia l'ingiunzione di esogamia, alla necessità di garantire il vincolo sociale, di fondare la coesione della società sulla "carità" e l'amore che, due persone unite in matrimonio, si devono a vicenda; le solidarietà del sangue, al contrario, rischiano di mettere gli uni contro gli altri gruppi familiari troppo chiusi in se stessi.  

L'aspirazione alla pace, l'obbligo di scambiare delle donne, non hanno le stesse implicazioni per gli uomini di chiesa e per la società laica. I primi escludono qualunque matrimonio tra parenti troppo vicini, mentre  la seconda crede che possa, al contrario, rappresentare un incoraggiamento. Il conflitto tra i due atteggiamenti scoppia a proposito dei matrimoni reali e principeschi, alla fine del secolo XI. Con l'andare del tempo la Chiesa mitigherà il suo atteggiamento; nel 1215 il IV Concilio Laterano porta il divieto esogamico dal settimo grado di parentela, al quarto; si potrà ormai sposare la discendenza di un quadrisavolo comune. In compenso, il più umile cristiano non potrà più fingere di ignorare i suoi rapporti di parentela: la Chiesa mette in opera un mezzo per rafforzare il suo controllo sul carattere lecito dell'unione istituendo le pubblicazioni di matrimonio da farsi in precedenza per esser sicuri che "l'incesto" non aspetti al varco i fidanzati poco informati.

Giuramento o promessa di pace, il matrimonio impegna anche lo statuto e l’onore delle famiglie. Che diano, o che ricevano, una donna esse valutano, naturalmente, la considerazione ed i vantaggi materiali che ricaveranno dall’unione. Bisogna notare che la donna data in sposa, spesso, nel medesimo tempo, è soggetta ad un doppio spostamento: un movimento di traslazione, che la porta a casa di suo marito a cui si aggiunge uno spostamento verticale (verso l’alto od il basso della scala sociale). Si è potuto notare che le strategie matrimoniali più correnti nella classe cavalleresca nei secoli XI e XII, o nelle aristocrazie e borghesie cittadine dei secoli XIV e XV portano i padri a scegliere per nuore ragazze di nascita più elevata. Una gran parte, forse la maggioranza delle donne, si trova così declassata dal matrimonio, data a mariti inferiori per sangue o per posizione a cui dovranno, tuttavia, obbedienza.

Il passaggio di una donna da un lignaggio ad un altro non comporta solamente il transfer fisico, ma anche quello di ricchezze. L’onore delle famiglie si muove su due piani. Per essere socialmente riconosciuto il matrimonio esige, in effetti, qualunque sia l’ambiente, l’epoca ed il sistema giuridico in vigore, che dei beni, per piccoli che siano, vengano trasferiti da un gruppo all’altro quando si prepara e poi si realizza la cessione della donna. Durante l’alto Medioevo questi beni erano dati dal marito o dalla sua famiglia a quella della sposa in “compenso” della perdita che questa famiglia subiva cedendo una delle sue figlie. In seguito sono dati alla sposa stessa che, come contropartita, continua a portare in casa del marito effetti, beni immobili, somme di denaro che concede allo sposo o restano in suo possesso. Così sarà assicurato il suo mantenimento dopo la morte del marito. Ma l’intento riposto di tali scambi di prestazioni e controprestazioni, sta in altro: essi tendono a legare molto saldamente le due famiglie impegnate nel gioco di doni e di ricambi che, sapientemente graduati, significano la loro amicizia, mentre, al tempo stesso, specificano le loro rispettive posizioni sociali.

A partire dal secolo XII la dote portata dalla donna si accresce od assume un po’ alla volta più consistenza rispetto alla dote maritale od ai doni e gli apporti del marito; alcuni di questi ultimi sono anche soppressi d’autorità, come la “tertia” (che era il diritto della vedova sul terzo dei beni del marito) abolita nel 1143.

Le ragioni di una tale “espropriazione” ai danni delle donne sono complesse. Spesso si accampa come motivo che, la feudalizzazione dei rapporti con la terra, esclude le donne dalla trasmissione dei beni, castelli e feudi. Negli ambienti cittadini, che vivono di commercio e di artigianato, la chiusura corporativista dei mestieri riserva attività e responsabilità ad individui di sesso maschile. Il fatto di ricevere una dote consente di privarle dell’eredità, del patrimonio vero e proprio: esse vi rinunciano in favore dei fratelli e, una volta maritate, abbandonano il controllo attivo su beni che, teoricamente, sono di loro proprietà. Con molte varianti legate alla ragione od alla consuetudine, il senso dell’evoluzione è un po’ dappertutto lo stesso: le donne sono molto meno padrone delle ricchezze, alla fine del Medioevo, di quanto non lo fossero in epoche più antiche. Il deteriorarsi della loro funzione economica e della loro capacità di amministrare la propria fortuna non manca di tradursi in un “deprezzamento” del loro “valore”. La misoginia, che impregna tanti testi nei tre ultimi secoli del Medioevo, ha certo ben altre ragioni che il declino della loro posizione patrimoniale e giuridica. Tuttavia, causa ed effetto ad un tempo di questo clima ostile, il rifiuto di lasciare accede le donne alla libera disposizione dei beni registrati a loro nome, la limitazione perfino delle ricchezze che potevano ricevere, hanno contribuito alla diffusione dei luoghi comuni sfavorevoli a loro riguardo ed alla generalizzazione di atteggiamenti convenzionali piuttosto diffidenti e negativi.

In buona parte dell’Europa urbanizzata le famiglie si lasciano trascinare, alla fine del Medioevo, in una vera e propria spirale inflazionistica delle doti, fonte di nuove recriminazioni maschili. Se le famiglie cedono a quest’andazzo, di cui fanno ricadere la responsabilità sull’avidità e la vanità femminile, è perché la dote, e le altre prestazioni legate al matrimonio, permettono loro di affermare la propria posizione sociale e di ottenere il riconoscimento di questo statuto dalla collettività. Per le donne, accompagnate ad uno sposo da una dote spesso senza speranza di una contropartita, la conseguenza di questa evoluzione, in termini mercantili, è che maritarle costa molto caro. Quest’investimento, senza compenso, non raddolcisce lo sguardo dei maschi della famiglia che devono provvedere alla loro sorte. Ad ogni unione si paga l’onore delle famiglie; ma, senza esagerare, si può dire che, gli uomini impegnati alla ricerca di quest’onore, hanno fatto pagare alle donne un duro prezzo.

Quest’onore, d’altra parte, non risiede soltanto nella potenza materiale e nel prestigio del lignaggio: ha una forte componente sessuale e dipende anche dal comportamento delle donne, attraverso cui il rapporto di affinità si realizza. Mentre si afferma il principio di successione in linea maschile, viene anche ripresa la discussione delle teorie mediche ereditate dall’Antichità sul carattere, attivo o passivo, della funzione femminile nella concezione. Per molti, il “sangue paterno” deve mantenere tutta la sua purezza nella donna fecondata, che si limita a portare a maturazione ed a modellare il bambino. Ogni buon lignaggio teme che un sangue estraneo s’introduca in lui a sua insaputa. I figli di un uomo nati al di fuori del matrimonio inceppano, certo, il delicato meccanismo delle eredità; ma sono ben individuabili. I figli adulterini di una moglie, tanto più pericolosi quanto più la loro madre sa nascondere il “delitto”, sono nati da una frode e, quando sopravvivono, incorrono nel doppio biasimo di essere nati dal peccato della carne e del tradimento della madre verso la famiglia in cui è entrata. La fedeltà sessuale delle donne è proprio al centro del dispositivo familiare: il loro corpo richiede una sorveglianza impeccabile per evitare delle azioni fraudolente che danneggerebbero il gran corpo del lignaggio.

 

Il matrimonio e la fecondità della coppia

 

Le donne maritate, sistemate nella scomoda situazione di unioni spesso disuguali, devono lealtà e devozione agl’interessi delle due famiglie che, per loro mezzo, si sono imparentate. Simili esigenze possono entrare in conflitto con l’affetto e l’obbedienza che devono anche al marito, dato che intervengono qui le idee che la gente di chiesa si fa dell’accordo coniugale. Verso la fine del Medioevo, la coscienza che prendono i laici intacca l’obbedienza al lignaggio.

Finché è ragazza, si chiede alla donna di obbedire senza fiatare al padre, al fratello od al tutore, tacendo le intime aspirazioni per accettare l’uomo che le hanno scelto. Ma la Chiesa interviene per dissuadere dallo sposare una cugina, insiste anche, con voce sempre più ferma dalla fine del secolo XI in poi, sulla necessità di ottenere in buona e debita forma il consenso dei giovani sposi  e di non farli sposare ad un’età in cui il loro consenso non avrebbe alcun valore. Per lei, la fondazione di una nuova famiglia può aver luogo solo nel rispetto della libertà dei contraenti che, in primo luogo, non sono i lignaggi ma futuri sposi. Questo spostamento del punto di vista determina, almeno in teoria, una notevole rivoluzione: accorda alla donna lo stesso posto del marito nella somministrazione del sacramento matrimoniale.

Generare dei buoni eredi: ecco la grande sfida che le famiglie devono raccogliere in un’epoca in cui la morte colpisce duramente e spesso. Il cuore della casa medievale è la camera, dove la donna se ne sta, lavora, concepisce, partorisce, e dove morirà.

La chiave che immette la donna nel ruolo di genitrice è il matrimonio. Si ha l’impressione che, durante l’Alto Medioevo, l’età degli sposi alle loro prime nozze fosse molto simile; fa eccezione, senza dubbio, l’aristocrazia, in cui le ragazze venivano maritate in età molto tenera. Nel periodo centrale del Medioevo si verifica senz’altro un rovesciamento; da un capo all’altro dell’Europa: le ragazze, appena adolescenti, vengono date ad un marito decisamente maggiore d’età. In Fiandra o in Inghilterra, in Italia, nella Francia del 1200, l’aristocrazia ed il patriziato cittadino maritano le figlie appena raggiunta l’età dello sviluppo. Un’età che varia tra i dodici ed i tredici anni (età che, secondo il diritto canonico, consente d’impegnarsi nel vincolo matrimoniale o di pronunciare dei voti monastici), torna sotto la penna degli agiografi delle sante che, è vero, sono nella grande maggioranza nate da buone famiglie. Più rare sono, prima del secolo XIV, le informazioni relative al matrimonio nelle classi rurali e popolari, anche se parrebbe che, anche in queste, l’età delle ragazze al loro primo matrimonio fosse di rado al di sopra dei diciassette o diciotto anni, nonostante la pressione demografica spingesse a ritardare un poco il matrimonio.

Dalla fine del secolo XII in poi, gli uomini, per parte loro, sembrano farsi prendere nella “rete del matrimonio” ad un’età più avanzata di prima. I rampolli della classe cavalleresca ne danno l’esempio, aspettando di essere installati in un feudo, di avere ereditato o scovato l’ereditiera che permetterà loro di sistemarsi. Le informazioni sono ugualmente rare sugli usi seguiti nelle altre classi prima del secolo XIV.

L’informazione si fa più ricca dopo la peste nera, nella seconda metà del secolo XIV e nel secolo XV. Censimenti più frequenti, che troppo di rado presentano la ricchezza e l’omogeneità dei “catasti” fiorentini del secolo XV, lasciano tuttavia capire qual è l’età media matrimoniale. Per le donne è inferiore a diciotto anni, con una tendenza fra i contadini ed il proletariato urbano, ad aumentarla di uno o due anni e, presso i ricchi, a portarla verso i quindici anni. La letteratura familiare dei diari, soprattutto toscani, permette infine di calcolare con certezza l’età matrimoniale femminile: nella borghesia fiorentina, tra il 1340 e il 1530, circa 136 giovani spose si sono maritate ad un’età media di 17,2 anni. Le variazioni su questo lungo periodo sono modeste, anche se è sensibile la tendenza a ritardare un poco le nozze: verso il 1500 le Fiorentine, in media, si maritano un anno dopo rispetto a quel che avveniva prima del Quattrocento.

Calcoli analoghi, eseguiti su un gruppo, altrettanto consistente di giovanotti, provenienti dalle stesse famiglie di borghesia mercantile, ce li presentano di un’età media superiore ai ventisette anni al momento della celebrazione delle loro prime nozze. Quest’età subisce oscillazioni più marcate di quella delle ragazze: per esempio, dopo le crisi di mortalità, si abbassa, e nell’ultimo terzo del secolo XV segue una curva opposta a quelle delle donne. Tuttavia il fatto importante è che una buona decina d’anni, quasi costantemente, separa i due sessi.

Un uomo che si avvicina ai trent’anni, un adulto, porta dunque nella sua casa un’adolescente: questa è la situazione asimmetrica del Basso Medioevo, una situazione che ricorda stranamente i costumi romani dell’età classica. Dalla lettura moralistica e nei trattati di economia domestica riemergono ammonimenti direttamente ispirati alla Politica di Aristotele od all’Encomio di Senofonte. Razionalizzando le pratiche del loro ambiente e del loro tempo uomini come L. B. Alberti nei suoi Libri della famiglia, erigono a modello i fatti: l’uomo aspetterà di aver raggiunto la pienezza dell’età perfetta prima di maritarsi, la donna, al contrario, sarà data giovane fanciulla, ad uno sposo, perché non abbia a “pervertirsi” nell’attesa del matrimonio: <<ché (le donne) divengono viziose quando non hanno quello che la natura richiede>>. Alcuni deplorano un’evoluzione che che giudicano e che ha portato i contemporanei a cedere le figlie ad età sempre più precoce. Tutti convengono, tuttavia, nell’affermare che, per meglio imporre la propria autorità in famiglia e generare figli più belli, l’uomo troverà un vantaggio nel ritardare il momento delle nozze. Un’età ritardata per il matrimonio (che continuerà a caratterizzare la popolazione dell’Europa occidentale nell’epoca moderna) sembra dunque, tra il Duecento ed il Quattrocento, al tempo stesso la pratica e la norma della sola parte maschile.

La proporzione di prime nascite, quasi inesistente, avvenute nelle famiglie fiorentine prima dell’ottavo mese successivo al matrimonio, sta ad indicare il rigore della sorveglianza esercitata, dalle famiglie, su queste ragazze giovanissime, che, talvolta, vedevano il promesso sposo solo il giorno in cui dovevano ricevere l’anello nuziale. Ma, simmetricamente, lo scarto relativamente pronunciato fra le nozze e la prima nascita dimostra che questi adolescenti non avevano certo raggiunto una maturità fisiologica sufficiente per restare subito incinte, il che non impediva del resto ai mariti di iniziarle alle vita coniugale. Ma, dopo il primo bambino, gravidanze e nascite si tenevano dietro con ritmo accelerato. Così a ventinove anni, nel 1461, una borghese di Arras restò vedova dopo aver messo al mondo dodici figli in tredici anni di matrimonio. Nulla di straordinario in questo: i rari diari francesi e le numerose “ricordanze” italiane portano, fra il Trecento ed il Quattrocento, numerosissimi esempi di questa fecondità molto spiccata che caratterizzava, almeno, le donne degli ambienti agiati.

Una Fiorentina di buona famiglia, che si fosse sposata a diciassette anni e che non avesse perduto il marito prima dell’età della menopausa, avrebbe potuto mettere al mondo una media di dieci figli prima di raggiungere i trentasette anni, ossia un figlio in più delle contadine francesi dell’epoca moderna, che si sposavano tra i sette ed i dieci anni più tardi delle italiane di città. Maritare sistematicamente le ragazze molto giovani ha, dunque, un sensibile effetto sul livello complessivo della fecondità e sul numero totale delle nascite. Le famiglie cercavano più o meno consapevolmente, abbassando l’età matrimoniale, di colmare le terribili brecce aperte dalla mortalità dell’epoca.

Tuttavia le loro speranze erano piuttosto fragili, perché, anche nelle famiglie protette come quelle della borghesia di una delle più ricche città d’Europa, molte unioni erano prematuramente spezzate, ed il numero dei figli procreati inferiore alla decina, indicata per le coppie dotate di longevità. In complesso, le coppie fiorentine, colpite o no dalla morte prematura di uno dei coniugi, mettevano al mondo una media di sette figli; cifra ancora notevole, ma in questa discendenza rapidamente decimata, pochi sopravvivevano ai genitori.

Importante è sottolineare che le gravidanze occupavano circa la metà della vita delle donne maritate prima della quarantina. In alcune famiglie di notabili del Limousin francese, anch’esse ben note attraverso i loro diari, l’intervallo medio tra due nascite è di circa ventuno mesi. E questa è anche la media fiorentina calcolata su 700 nascite in famiglie così agiate. Cade anche al di sotto dei diciotto mesi se si eliminano gli scarti eccezionali dovuti all’assenza del marito per ragioni d’affari, o se si considerano le sole coppie che percorrono tutto l’arco della loro fertilità naturale. Nel caso fiorentino le concezioni si succedevano più rapidamente che non due o tre secoli dopo. Praticamente ciò significa che la gestazione conclusa col parto e con la purificazione, costituiva condizione abituale di una donna, nove mesi su diciotto.

Altra conseguenza: per metà della sua vita coniugale, in teoria, la coppia non avrebbe dovuto avere rapporti per paura di danneggiare il feto, per lo meno a partire dal momento in cui questo si muoveva: violare questa regola non era forse più di un peccato veniale, dal tempo di Alberto Magno in poi, verso la metà del Duecento; tuttavia era pur sempre peccato. Se la madre allattava, la coppia avrebbe dovuto comunque astenersi, perché la nascita di un altro bambino rischiava di abbreviare l’allattamento, e dunque la vita, del fratello maggiore.  Le coppie, però, rispettavano ancora queste proibizioni antichissime? E’ difficile giudicare. I contemporanei richiamano talvolta degli antichi tabù, che sembrano ancora agire ma che riguardano piuttosto il pericolo dei rapporti sessuali durante i cicli femminili: il grande predicatore Bernardino da Siena (vedi nota 1) ed il mercante Paolo da Certaldo ricordano che, l’uno alle donne e l’altro agli uomini, <<se si generassero in tal tempo, nascono poi figlioli mostruosi o lebbrosi>>, figli <<malatti o tignosi>>, >>e mai la creatura generata in tal tempo, non è senza grande e notabile difetto>>; la macchia ricadrà sul padre che non ha rispettatoli divieto: <<E anche puoi fare male a te grandissimo…>>.

L’obbedienza ai divieti religiosi è più evidente, e più direttamente misurabile, in ciò che concerne l’osservanza dei <<dei tempi proibiti>>, cioè l’Avvento e la Quaresima, in cui la Chiesa proibiva di celebrare le nozze e raccomandava, senza farne un obbligo, la continenza. In Toscana, si possono constatare dei vuoti significativi nella curva delle nozze di dicembre ed in marzo, ed una diminuzione delle concezioni in tempo di Quaresima. Perlomeno presso la gente di città, buon bersaglio dei predicatori, le ingiunzioni della Chiesa venivano, dunque, ascoltate.

Le coppie Medievali suggeriscono, infine, che non cercavano di evitare di concepire ricorrendo ai diversi mezzi (pozione abortive, unguenti, preservativi, incantesimi) a cui, secondo i loro clienti ed i loro giudici, facevano appello prostitute e donne accusate di magia e di stregoneria. Tutti i Concili, dall’Alto Medioevo al secolo XII, hanno rafforzato senza posa divieti e le pene che colpivano i comportamenti indirizzati a prevenire o sopprimere una nascita. A partire dal secolo XIII, la conoscenza dei trattati di medicina arabi hanno forse diffuso in certi ambienti delle pratiche contraccettive; in ogni caso la loro discussione porta i teologi ad attenuare un poco la severità delle proibizioni. Certi non vietano più l’unione di una coppia sterile, od ammettono il coitus reservatus: una coppia può dunque ricercare il piacere e non solo la procreazione. Altri non assimilano più la contraccezione all’infanticidio. Tuttavia, sino alla fine del Medioevo, i predicatori tornano costantemente sul peccato mortale di un’unione sessuale <<contro natura>>, che va contro <<la forma del matrimonio>>. Bernardino precisa, rivolgendosi alle sue uditrici:

<< Ode: ogni volta che usano insieme per modo che non si potrebbe ingenerare; ogni volta è peccato mortale. Alla chiara, te l’ ho detto. […] Peggio fa costui ad usare in tal modo, che colla madre propria col debito modo […]. E però, o donna, impara questo stamane, e legatelo al dito: se tuo marito ti richiede di nulla che sia peccati conto natura, non li consentire mai>>. Il solo caso in cui la donna può e deve infrangere il suo dovere d’obbedienza verso il marito, sia pure a rischio della vita, si verifica quando egli le impone nell’unione carnale una posizione che <<rompe l’ordine di Dio>>, facendo sì che la donna <<trasmutasi in bestia o vero in maschio>>, e le impedisce di concepire.

Sodomitiche o no le pratiche, <<contro natura>> degli sposi cristiani, sono combattute da questi direttori di coscienza, perché attribuiscono ad esse fini contraccettivi. Non pare, tuttavia, che tali rapporti abbiano avuto un’incidenza percettibile sulla fecondità delle coppie del tempo! Gl’intervalli medi tra le nascite restano molto costanti fino al penultimo figlio, il che dimostra che i coniugi non cercavano di sottrarsi in misura molta consistente, con un artificio o con l‘altro, al loro dovere di procreare.

C’è un mezzo perfettamente naturale e legittimo di rallentare il ritmo delle nascite: lasciare che la madre allatti il suo poppante. Ora, negli ultimi secoli del Medioevo, la nutrice, personaggio familiare delle chansons de geste e dei romanzi cortesi, non è più privilegio dei signori. Nel secolo XIV, le famiglie patrizie di Firenze ospitano abitualmente una nutrice e, nel secolo seguente, si generalizza in tutta la media borghesia l’uso di ricorrere ai servigi di una donna che sta in campagna. Doppia conseguenza: le donne povere che allattavano a lungo il proprio bambino, quando questi moriva, davano latte dietro compenso; così guadagnavano, oltre ad un salario, la possibilità di ritardare una nuova nascita. I ricchi, i possidenti in cerca di eredi che, al contrario, valorizzano le famiglie prolifiche e la fecondità delle loro donne, possono ravvicinare le nascite dei figli e, dunque, moltiplicarli. Del resto è proprio sotto i tetti dei più facoltosi che, all’inizio del Quattrocento, si censiscono in Toscana le più alte percentuali di bambini. Il letto della miseria è meno fecondo, allora, di quello dei potenti.

Punteggiata di nascite, la vita feconda di una donna adulta sposata prima dei diciotto anni, si conclude una ventina d’anni più tardi. Tuttavia, di tutti i figli che ha messo al mondo, pochi sono presenti sotto il tetto paterno. La maternità medievale è una sorta di linea punteggiata. Le madri, che danno a balia fuori di casa i loro piccoli subito dopo il battesimo, non li recuperano, se sono sopravvissuti, se non un anno e mezzo o due anni dopo. Nell’intervallo, qualcuno dei fratelli maggiori avrà potuto soccombere alle malattie od epidemie di peste che dissanguano periodicamente la popolazione. Le enormi discendenze (dieci, quindici figli) restano sulla carta degli storici della demografia. Nel quotidiano succedersi delle nascite e delle morti, le case della fine del Medioevo ospitano in media poco più di due figli viventi, come fanno vedere i censimenti, ei sopravvissuti che il padre o la madre mettono nel loro testamento, di rado sono al di sopra di questo magro bilancio.

I diari lasciano vedere che, nella classe mercantile, almeno un quarto dei piccoli Fiorentini dati a balia, muore presso la nutrice. Ma c’è di peggio: il 45 per cento dei figli messi al mondo in queste famiglie facoltose, non raggiungono i vent’anni. La morte minaccia allora una nuova vita e spia la madre che la dà alla luce.  Le partorienti muoiono, forse, più di rado di quanto di quanto spesso non si dica durante il parto. Tuttavia, anche le donne ricche, attraversano uno dei momenti più rischiosi della vita: una su tre delle mogli fiorentine che muoiono prima del marito soccombe mettendo al mondo un bambino o muore per le conseguenze immediate del parto.

Il fardello delle gravidanze e dei parti sbocca così, solo una volta su due, sulla speranza di portare il bambino all’età adulta. Si capisce l’accento di rassegnazione cristiana dietro cui si trincerano i genitori che perdevano una volta di più un bambino, una rassegnazione che, per la mentalità dei nostri giorni, ci spinge ad accusarli, un po’ frettolosamente di insensibilità. Certo che, l’invio dei poppanti subito dopo la nascita presso una balia lontana, non favoriva lo sbocciare del sentimento materno o dell’interesse paterno: la notizia della loro morte, non squarciava quel tessuto affettivo che crea la quotidiana osservazione dello sviluppo del bambino. e di cui testimonia, spesso con forza, il dolore del padre quando il bambino che vive in casa viene a mancare.

Al di fuori di certi ambienti privilegiati, che sanno esprimere le loro speranze e le loro pene, le testimonianze dirette sui rapporti tra genitori e figli sono rare. Nella stragrande maggioranza della popolazione le madri allattano i loro neonati; tuttavia, numerose sono quelle che si trovano costrette dalla miseria, dalla malattia, dalla pubblica disapprovazione, ad abbandonare, più o meno in fretta, il loro bambino. Il rifiuto del neonato sembra una pratica molto diffusa per lo meno nelle città. La alimentano le gravidanze delle domestiche, libere o schiave, e la povertà, cronica o legata a crisi di sussistenza: i miserabili lasciano all’ospizio delle città i loro figli legittimi, cullandosi talvolta, nella speranza che li riprenderanno più tardi e che l’ospizio potrà salvarli dalla morte meglio di quanto non potrebbero loro. Tuttavia la mortalità è terribile nei primi ospizi specializzati, come quello degl’Innocenti di Firenze. Abbandonare un bambino significa senz’altro moltiplicare le sue probabilità di morire presto, anche se c’è nei    genitori la speranza che, rimettendo a Dio ed alle anime caritatevoli la salute terrestre del piccino, questi possa vivere più a lungo sulla terra  e garantirsi la vita eterna nell’aldilà. Fra i trovatelli, i bambini di sesso femminile sono più numerosi: esiste una discriminazione che, fin dalla nascita, accorda un leggero vantaggio ai maschi. Ma è difficile capire le motivazioni inconsapevoli, mai spiegate dai biglietti attaccati ai cenci del bambino, che spingono la madre od i genitori a privilegiare i maschi.

Se nascite, accolte a malincuore, incitano numerosi genitori a rinunciare ai loro compiti educativi, la necessità di allattare mette, anche, alla prova il loro senso di responsabilità verso i neonati. Come si è visto, i dottori della Chiesa esortano i genitori alla continenza nel periodo dell’allattamento. Il Clero mette l’accento anche su un altro aspetto delle responsabilità dei genitori. Lottando con vero accanimento, a partire dal secolo XV, contro l’”oppressione” dei poppanti, soffocati nel letto dai loro genitori o dalla balia, ripetendo ai genitori che essi sono allora colpevoli di un delitto di negligenza e, persino, sospetti di premeditazione, curati e confessori hanno, evidentemente, risvegliato presso i laici, che consideravano questi accidenti con indulgenza o con disinvoltura, la preoccupazione salutare della sopravvivenza del piccino.

Insomma, la fine del Medioevo vede lentamente maturare delle prese di coscienza che, molto più tardi, renderanno possibili i primi veri comportamenti anticoncezionali. L’aspetto paradossale sta nel fatto che, all’origine di questo risveglio della responsabilità dei genitori che, dopo il Seicento, li porterà a distanziare le nascite, ci sia il rispetto assoluto della vita, predicato dai più decisi avversari di qualunque pratica che impedisse la comparsa.

   

Tra moglie e marito

 

Tra le tante prescrizioni, e proibizioni sessuali, che pretendono di inquadrare i rapporti fra uomini e donne fino in seno alla coppia, le persone sposate della fine del Medioevo tengono conto soprattutto dell’appello alla moderazione, che le “autorità” mediche raccomandano, anch’esse fin dall’Antichità,  a chi vuole una discendenza sana e numerosa. Questo non significa che ogni matrimonio sia stato dettato dalla riflessione, e che ogni moto passionale sia stato bandito dalla <<vita familiare>>. Ma l’ideale del buon matrimonio, che la letteratura morale o satirica tende ad imporre ai tre ultimi secoli del Medioevo, deplora gli eccessivi ardori, l’intemperanza dei desideri, assimilati ad un ingordigia alimentare che distruggerebbe l’equilibrio interno degli umori. <<Usa temperatamente con lei [la tua moglie], e non ti lasciare punto trasandare>>: questo consiglio di un Fiorentino ai suoi figli eviterà loro di <<[guastarsi] lo stomaco e le reni>>, di avere solo figlie  oppure figli <<tisichi>>, di vivere lui stesso <<tedioso ed ondoso e maninconico e tristo….>>.

Il “buon uso” delle mogli vuole, in effetti, che si diffidi costantemente delle loro esigenze. Il loro corpo, così necessario alla sopravvivenza dei lignaggi, è sottomesso ad una natura troppo incostante. Mal governato dalla ragione incompleta che è tipica delle donne, questo corpo esige dal suo “signore”, il marito, una soddisfazione prudente e regolare degli appetiti senza che il marito stesso si abbandoni alla vertigine dei sensi; il che rovinerebbe la sua autorità…..

L’autorità: ecco un’altra “parola-chiave” che domina la visione maschile dei rapporti tra coniugi (la sola che ci stata tramandata direttamente). Prima creazione, immagine di Dio più vicina all’originale, natura più perfetta e più forte, l’uomo deve dominare la donna. Questi temi, ripetuti con insistenza, trovano la loro applicazione nel campo chiuso della vita familiare. Giustificano, con la subordinazione femminile, la divisione dei compiti che ne deriva. L’uomo ha una “naturale” autorità sulla moglie. Base teorica della riflessione di numerosissimi trattati dal secolo XIII in poi, la debolezza ed inferiorità della natura femminile impongono, fin dall’Antichità, che il campo, in cui le donne dispongano di una certa autonomia, sia ben circoscritto.

Questo campo è in primo luogo la casa, spazio ad un tempo protetto e chiuso e, nella casa, certi spazi più segreti: la camera, la stanza da lavoro, la cucina (a volte isolata in certe regioni) collocata in sommità od a lato della casa. Introdurvi la novella sposa comporta, sempre, certi riti che sanzionano la sua ammissione, ma che anche la tagliano fuori dal mondo esterno. La fragilità e la debolezza della donna esigono protezione e sorveglianza. I suoi andirivieni all’esterno devono limitarsi a percorsi ben controllati: chiesa, lavatoio, forno pubblico o fontana, luoghi che variano a seconda della condizione sociale, ma esattamente delineati. Luoghi, anche, che suscitano curiosità ed angoscia negli uomini, i quali hanno l’impressione che, le parole che vi circolino, possano sfuggire alla loro sorveglianza. Ne sono testimoni alcuni testi francesi nei quali si manifesta,  a briglia sciolta, la temibile saggezza delle comari riunite che, spesso provocano lo sbigottimento e la disapprovazione dei mariti quando cicalecciano, circondando una partoriente; quando partono insieme in pellegrinaggio, complottando la loro rovina.

Dunque, tenere ed occupare le donne in casa, ecco l’ideale maschile diffuso. Ne è pieno l’orientamento dei compiti che si assegnano ad esse. Quando i mariti, <<quelli che guadagnano>>, devono ammassare fuori casa beni e ricchezze, i luoghi comuni della letteratura medievale d’economia domestica attribuiscono alle loro compagne la cura di conservare e trasformare per il consumo familiare, in proporzione ai bisogni, i prodotti che essi incamerano. La gestione quotidiana delle provviste, la sorveglianza e la previsione del loro impiego, le cure che preparano al loro uso, sono altrettante attività in cui possono dispiegarsi i talenti che si attribuiscono alle donne, quando sono opportunamente incanalati dalla loro docilità e ponderazione. Una buona moglie, una donna accorta, dolce e temperante, saprà regolare la circolazione interna dei beni che, per opera dell’uomo, affluiranno all’esterno verso la casa.

Ingranaggi essenziali del buon funzionamento sociale, le donne, che assumono pienamente la loro funzione, garantiscono l’armoniosa assimilazione dei prodotti dell’industria maschile. Qualunque eccesso nelle loro spese danneggia l’intero corpo sociale ed il complesso degli scambi. Così le leggi suntuarie (vedi nota 2) che vegliano a preservare le manifestazioni dell’ordine sociale, infieriscono contro gli scarti femminili. Vanagloria, ingordigia, lussuria, sono tutti peccati che traggono alimento da un disordine degli appetiti che la vita domestica animata dalle donne dovrebbe, al contrario, regolare ed arginare.

La “famiglia” è anche tutto un complesso di persone su cui la moglie deve vegliare ordinandone i ritmi e le attività. In primo luogo il marito, che conta di trovare, nel calore del focolare, il riposo ed i piaceri del bagno caldo, della tavola servita, del letto pronto (quando torna esausto dalle sue tribolazioni legate alla vita fuori di casa); poi i servitori, quando la famiglia è abbastanza agiata da averne. La sposa ha la missione di dirigerli e di punirli quando il loro comportamento rischia di danneggiare gl’interessi dei padroni; in poche parole, deve farli cooperare all’onore della casa. I bambini, inoltre, la cui prima educazione le spetta senza discussione; un’educazione che trova un incentivo nel suo esempio e nella sua “pietà”, molto più che nella sua attitudine ad avviarli ai rudimenti della lettura. La sposa deve assicurare la coesistenza pacifica di tutti questi individui, ognuno con i propri bisogni: è lei la signora dell’ordine domestico, della pace familiare.

La pace, in effetti, dovrebbe fare della sua casa un riflesso dell’armonia del mondo se….se la natura femminile, a dispetto delle briglie che le s’impongono, dei sermoni che le si indirizzano, non venisse subdolamente a turbare ciò che sarebbe stato suo compito promuovere. Le donne (così pensavano i dottori e chierici, del tempo) sono in grado eminente false, volubili ed ingannatrici, e <<tutti i grandi disonori, vergogne, peccati e spese s’acquistano per femine; e acquistano le grandi nimistà, e perdonsene le grandi amistadi>>. Il rimprovero maschile, ripetuto in forma ossessiva, ha la radice nel senso sempre di essere messi nel sacco da loro. La loro chiacchiera riempie la calma della casa, ne fa trapelare i segreti al di fuori; aiutato dalla loro folle ed egocentrica prodigalità il loro spirito litigioso disperde tra mille preoccupazioni trascurabilissime la più solida ragione maschile. Tutte queste forme di vituperio derivano da un profondo senso di fallimento in confronto alle illusioni di stabilità ed autorità domestica, tanto agognate dagli uomini del tempo.

L’insubordinazione delle donne, del resto, non è solo oggetto del biasimo dei mariti; incorre anche nella sanzione collettiva. Le infrazioni dell’ordine normale delle cose ed il voler rivoltare troppo l’autorità naturale, sono passibili di un giudizio e di un castigo simbolico imposto dalla comunità. Dall’inizio del Trecento, le prime menzioni di scampanate rituali arrestano questo controllo pubblico sulle scelte matrimoniali;  il secondo matrimonio delle vedove o, più generalmente, le unioni multiple di uno stesso individuo, attirano così le folgori dei giovani su coppie, giudicate male assortite od intemperanti. Attraverso tutta l’Europa, soprattutto il rito della cavalcata dell’asino, viene a punire il troppo “rovesciamento” dei ruoli coniugali: se la donna domina il marito, lo strapazza e lo mena per il naso, lo sposo, o chi ne fa le veci, dovrà percorrere lo spazio del villaggio, seduto alla rovescia sulla derisoria cavalcatura, tenendone la coda. L’insubordinazione della donna mette in pericolo l’ordine stesso del mondo e suscita quei riti  in cui la redenzione passa attraverso lo scherno. Non c’è sfera privata, in cui gli individui regolino i loro contrasti, senza dover fare i conti con l’intervento di censori esterni.

La mancanza di docilità o la doppiezza dei figli, in compenso, non suscitano gli stessi interventi della comunità. Il fatto, che i figli mettano in dubbio il potere del padre, offre materia di tragedia piuttosto che di scherno e, questa situazione, provocherà il consiglio degli “amici” o della parentela, senza dare agli estranei il diritto di ficcare il naso negli affari di famiglia che implicano, naturalmente, dei problemi d’eredità.

La morale dei fabliaux (vedi nota 3) dedicati ai problemi generazionali ha una tonalità molto cupa, ben diversa dalle novelle tra dolci ed amare o licenziose che narrano come la donna copra di ridicolo l’uomo. Al padre che si disfà troppo presto dei suoi beni, e quindi della sua autorità, in favore dei figli, il novelliere ripete che <<non ci si deve fidare di questi, perché i figli sono senza pietà>>, oppure che <<il figliuolo sta al padre soggetto e sottomesso e umile infino a tanto che ‘l padre tiene la signoria della casa e de l’avere suo; e quando il padre ha data la signoria al figliuolo di governare ‘l suo avere, egli soprastà al padre e hallo in odio e pargli mille anni il dì che non si muoia per non vederlosi innanzi>>.

   

La donna e i suoi lavori

 

La donna, tuttavia, dall’alto od in basso della scala sociale, non resta così confinata e sottomessa allo sposo quanto desidererebbero i mariti ed i teorici della <<santa masserizia>>. Le contadine lavorano duramente nei campi, le artigiane nella bottega del marito che, talvolta, rilevano alla sua morte. Anche dentro la casa, signorile o borghese che sia, non si lasciano in ozio figlie e moglie.

Gli educatori rivelano l’utilità dei lavori d’ago, o di fuso, che dovrebbero sempre occupare il tempo in cui la donna non ha altre faccende da sbrigare. Questi lavori hanno il compito di immobilizzare il corpo femminile, di intorpidire i pensieri della donna, evitando che essa non si perda in fantasticherie pericolose per il suo onore e per quello della casa. Fin dalla più tenera età le donne fileranno, tesseranno, cuciranno e ricameranno senza posa; e, quanto migliori saranno le loro origini, quanto più esse saranno dotate di onore tanto meno tempo si accorderà loro per giocare, ridere e danzare. Pertanto anche le ragazze della nobiltà occupano le loro mani e la loro “pazza” mente, nei delicati ricami di pianete( vedi nota 4) o di paliotti (vedi nota 5); ci guadagnano, per lo meno, in anni di purgatorio: il compenso per il loro interminabile lavoro.  Per giustificarlo, si dice che il padre deve provvederle di un’arte che consenta loro di sopravvivere se cadessero in povertà; tuttavia, la preoccupazione che più profonda che affiora, nei testi degli educatori, è quella di neutralizzare la natura femminile instabile e fragile, costringendola in un’attività senza fine. Secondo Francesco da Barberino (vedi nota 6), che scrive una specie di trattato di educazione delle donne all’inizio del Trecento, la figlia d’un <<cavaliere o di solenne iudice o di solenne medico o d’altro gentil uomo li cui antiche ed ello usati sono di mantenere onore>> dovrà imparare a <<borse fare o cucir o filar […] sì che, poi sarà con suo marito in casa, possa malinconia con ciò passare, oziosa non stare e anco in ciò alcun servigio fare>>.

Quest’incessante attività tessile ha certo ugualmente una funzione economica. Risponde alle necessità del consumo domestico;  ed è anche volta verso la ricerca di guadagni che vengono dal di fuori. Molti, tra i poveri,  cercano di equilibrare il loro magro bilancio col prodotto dei lavori femminili o coi salari delle donne che lavorano in filanda.

Molte donne esercitano, soprattutto priam delle crisi del Trecento, un’attività più autonoma, fuori della famiglia. Per la maggior parte la necessità di lavorare è direttamente collegata con la loro condizione matrimoniale o con la perdita della protezione familiare. Per mettere insieme la dote od il corredo, le figlie delle famiglie povere vanno a servizio, talvolta, ancora bambine, più spesso adolescenti. Vanno a costituire  il nucleo degli eserciti di lavoratrici soprattutto le vedove, troppo spesso minacciate dalla solitudine e dalla miseria. Anche nelle classi agiate della società medievale la vedovanza minaccia le donne di un rapido declassamento per cui precipitano nella povertà quando non possono ottenere dagli eredi del marito il rispetto dei loro diritti. Qui il parentado non è l’ultimo a spogliare la vedova e l’orfano. <<Sono rimasta soletta senza un amico>>, lamenta in una ballata celebre la prima donna che sia vissuta della sua penna, Christine de Pisan (vedi nota 7), rimasta vedova a venticinque anni con tre bambini. Seguendo il suo esempio, i romanzi medievali abbondano di cupi destini di donne sole che devono sopravvivere nelle situazioni più avventurose; ma, del resto, vengono rappresentate del tutto capaci di trarsi d’impaccio.

Sono donne senza famiglia quelle, che si collocano fuori dell’ordine “naturale” assegnato al sesso femminile dalla società medievale. Tanto più vulnerabili perciò, e la loro reputazione è senz’altro macchiata.  Vedove isolate, indigenti che si guadagnano il pane filando, domestiche, recluse che vivono fuori di una comunità religiosa, tutte sono presto sospettate di cattiva condotta e facilmente accusate di prostituzione. Le donne senza radici che, nel secolo XI,  seguono dei sant’uomini come Robert d’Arbrissel, fondatore di un monastero <<misto>> di cui affida la direzione ad una donna, quelle che ne Trecento si aggregano alle compagnie di flagellanti, si reclutano nelle legioni di coloro che la situazione matrimoniale, il genere di vita e, talvolta, l’indipendenza economica bastano a designare come elementi al margine.

  

Conclusione

  Il discredito in cui sono tenuti il lavoro fuori casa, le manifestazioni troppo autonome della devozione, l’andare errando delle donne mostrano, con evidenza,  che le società della fine del Medioevo hanno concepito con difficoltà la “condizione femminile” al di fuori del quadro matrimoniale. Senza dubbio la coppia ha acquistato, in questo periodo, una certa autonomia all’interno dei gruppi di parentela: ma vizi e virtù, macchie e comportamenti femminili sono stati visti in rapporto alla famiglia di cui la coppia diventa il fondamento. Le donne sono rimaste un ingranaggio subordinato alla riproduzione familiare. Tuttavia, senza essere negata, questa subordinazione si è trovata più spesso ad essere giustificata, spiegata, per dirla in breve, discussa. Non è stata più del tutto una cosa pacifica.

Naturalmente anche queste mie parole saranno discusse nel Regno e nel Forun del Regno ma, sappiate, che questa è la fotografia, più o meno sfocata, della condizione femminile durante il Medioevo ed, inoltre, è solo un piccolo cammeo nell’immenso oceano delle disquisizioni su di esso. Ai giorni nostri tutto, o quasi, di quello che si è letto in quest’articolo non sarebbe più nemmeno lontanamente pensabile, ma tra il secolo XI e XIV secolo queste erano le “leggi” che regolavano i rapporti fra le donne e la società del tempo. 

Note del Redattore

  Nota 1

Bernardino da Siena (santo; Massa Marittima, Grosseto 1380 - L'Aquila 1444), appartenente alla nobile famiglia senese degli Albizzeschi, entrò a 22 anni tra i frati minori. Abilitato alla predicazione (1405), continuò tale attività fino alla morte, dapprima in Toscana poi in tutta l'Italia centrale e settentrionale, suscitando sempre vivo fervore e ovunque accolto come un benefattore. Particolarmente devoto al Santo Nome di Gesù, di cui faceva scolpire o dipingere su tavolette la sigla JHS (Jesus Hominum Salvator, Gesù salvatore degli uomini) divenuta comunissima, fu per questo più volte accusato di culto superstizioso ed eresia. Sempre riconosciuto innocente, fu ampiamente lodato dal papa Eugenio IV in una bolla del 1432. Nel suo Ordine fu il principale propagatore della riforma degli osservanti, di cui fu eletto (1438) vicario generale. Fu canonizzato da papa Niccolò V nel 1450. Oratore di grande vivacità ed efficacia, improvvisava le sue prediche adattandole al pubblico presente e arricchendole di aneddoti e di riferimenti alla società del tempo. Esse ci sono pervenute in buona parte, autografe o trascritte stenograficamente da uditori (Prediche volgari). Gli scritti più importanti sono tutti di prediche in lingua latina, eccettuando il Quaresimale fiorentino (1425). I Sermones, da lui editi per comodo dei predicatori, sono veri trattati di teologia soprattutto morale, in cui si sente l'influsso del suo maestro Umbertino da Casale. Degni di ricordo sono i quattro quaresimali: "De christiana religione" (1427, La religione cristiana), "De Evangelio aeterno sive de charitate" (1428, Del vangelo eterno ossia dell'amore), "Seraphim" (1422, I Serafini), "De pugna spirituali" (La lotta spirituale), e i trattati "De vita christiana" (La vita cristiana), "De beata Virgine" (1430-40, La beata Vergine), "De Spiritu Sancto" (1443, Lo Spirito santo).

  Nota 2

Si dicono “leggi suntuarie”, le disposizioni contrarie al lusso, che arrivano a sanzionare la scomunica di chi non ne rispetta il contenuto. Le origini di tali disposizioni sono antichissime; i divieti originari previsti, partono da un concetto di uguaglianza e riguardano le manifestazioni del lusso quali: gioielli, stoffe, lunghezza degli strascichi. Già nel primo documento legislativo romano di cui si abbia notizia, le XII Tavole, si ha una limitazione per le vesti di lutto.

Ricordiamo Cesare che emanò una legge che vietava l’uso di manti di porpora, di perle ad eccezione di certe età e di rango, ma non per agli uomini.

In Italia nel duecento compaiono le prime leggi suntuarie, ad esempio in Sicilia la prima è opera di Carlo D’Angiò del 1272. All’inizio del 1300 è contemplato il lusso delle vesti e degli ornamenti femminili, ad eccezione di pettorali, monili e fregi che però non eccedano dieci libre di denari. Successive riforme della metà del 1330, si rivolgono tanto agli uomini che alle donne, con divieti che non riguardano solo il lusso di ori, argenti, perle e pietre preziose (del quale il limite è portato a una cifra pari a più del doppio della precedente), ma degli strascichi di vesti e mantelli e delle vesti a diversi colori.

C’è da considerare però, che gli estensori delle leggi suntuarie fanno parte delle classi privilegiate e, con il passare del tempo, finiranno per imporre divieti alla popolazione, riservando il lusso a sé stessi. Sono inoltre uomini e per questo in rari casi i divieti li interesseranno.

Nel 1506 a Perugia si stabilisce una sorta di stratificazione sociale sulla base degli sfoggi permessi o limitati o proibiti, lasciando libertà di lusso per “li gentilhomini legitimi et naturali che hanno dominio de doi castelli o più”, le donne “dé Cavalieri e dé Judici e dè

Medici fisici” possono portare bottoni dorati (per le altre vale la limitazione ai bottoni argentati e che non superano i 40 soldi di valore).

Altre usanze vengono comprese nel lusso per gli sprechi che causavano, così si impone l’uso di un solo panno per cappelli e vesti, l’uso di un particolare tessuto di seta, lo sciamito.

Fino al settecento si trovano leggi che vietano il lusso, l’ultima disposizione apparsa è del 1824 sotto forma di editto sul vestire a Roma. Per i disubbidienti le multe imposte erano a volte assai salate; in alcuni casi invece era garantita una certa permissività. Esempio è la città di Venezia che per fini politico economici, permette il lusso senza limitazione a dogi, alla dogaressa e alle persone della famiglia nonché al patriziato, in occasione di visite di sovrani stranieri, che si vogliono abbagliare con lo sfoggio di ricchezza di una delle città più importanti d’Italia.

Curiosa, e forse unica disposizione suntuaria che ha riscosso nel corso del tempo successo, è quella che impone che le gondole della città di Venezia siano di colore nero, “senza ornamenti né pittura alcuna”.

  Nota 3

Genere letterario medievale a cavallo tra una barzelletta spinta ed una storiella. Mugnai e villani, ladri e mercanti, asinai e vedove, giovinetti e giullari si aggirano nel mondo fantastico eppure iperrealistico dei "Fabliaux", anonime narrazioni in versi dei secoli XII-XIV provenienti dalla Francia nordorientale. Questi racconti, dove coesistono alto e basso, nobiltà e miseria, passioni e avvenimenti, sono i precursori della novella e dunque alle origini della narrazione moderna.

Dalla fine del XII secolo fino a tutto il XIV secolo, si ha nelle regioni francesi una buona produzione di fabliaux. Sono brevi racconti in versi, caratterizzati da un linguaggio e contenuto procace e scurrile, miranti a suscitare il riso. Ce ne rimangono circa 150, di cui una cinquantina di autore sicuro, gli altri anonimi. Sono opera per lo più di trovieri di professione (tra essi Rutebeuf, e Huon le Roi), esperti nelle tecniche narrative codificate dalle scuole di retorica. Il divertimento è prodotto a volte da un gioco di parole, oppure da una situazione grottesca, dalla caratterizzazione comica dei personaggi, con arguta precisione. Si tratta di divertimenti per aristocratici, destinati al pubblico dei castelli in vena di sollazzo, di qui la presenza di un'aspra satira dei ceti inferiori; ma buoni anche per il sollazzo degli stessi ceti popolareschi, proprio per la presenza dello scurrile. Il genere diede un apporto realistico alla produzione letteraria francese (si pensi a Rabelais, Thé ophile de Viau, Scarron ecc.) con influssi indiretti, tramite traduzioni e riduzioni, su una parte della produzione italica del XII-XV secolo (Boccaccio, Bandello).

  Nota 4

 Paramento che il sacerdote indossa sopra il camice durante la messa; è di diverso colore secondo il tempo liturgico e le feste celebrate.

  Nota 5

 Drappo o stendardo di tessuto dipinto o ricamato

  Nota 6

 Francésco da Barberìno - (Barberino 1264-Firenze 1348) Soprannome di Filippo Neri di Ranuccio. Poeta, di professione notaio a Firenze, città alla cui vita politica partecipò attivamente. Della sua opera ci sono arrivati i Documenti d'amore (1314) e il Reggimento e costumi di donna (1320), un galateo femminile.

  Nota 7

Christine de  Pisan (1364-1430) poetessa francese di origini italiane. Scrisse molti romanzi, versi e novelle ma anche poemi per i quali divenne molto famosa. Molto colta e di carattere forte, Christine ha tentato di esprimere la dignità della donna. Le sue opere includono:

Le Livre des fais d'armes et de chevalerie, che fu tradotto e stampato in inglese da Caxton con il titolo di: The Book of Fayttes of Armes and of Chivalrye (1489; new ed. 1932).

Le Livre du duc des vrais amans (tradotto in inglese con il titolo di The Book of the Duke of True Lovers, 1908).

 

 


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