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La Cucina nel Medioevo

 

Nel Medioevo l'alimentazione dei più nobili era ricca di selvaggina condita spesso con spezie molto costose poichè provenivano dall' Oriente. L'alimentazione dei contadini era più povera e comprendeva alimenti che potevano sostituire la carne, come i legumi.    
Con i miglioramenti dell'agricoltura i contadini si nutrirono prevalentemente di cereali; ma le paste alimentari furono prodotte solo a partire dal XIII sec. I contadini mangiavano una zuppa a metà mattina, del pane (cotto ogni 15 giorni in pesanti pagnotte), del formaggio e castagne bollite durante il giorno, la sera - quando tornavano dai campi - mangiavano di nuovo la zuppa o altri cibi molto poveri. Anche per i ricchi, il pane restava comunque l'alimento principale ma lo volevano bianco, di frumento. Un decreto imperiale dell'884 stabilisce il limite di ciò che può requisire un Vescovo ad ogni tappa delle sue visite pastorali con tutto il seguito, in una regione agricola: 50 pani, 50 uova, 10 polli e 5 porcellini.
Per fare il pane, i poveri mescolavano farine di vari cereali e, se occorreva, anche di legumi, come si faceva fin dai tempi antichi e come consigliava Dio nella Bibbia quando il profeta Ezechiele ricette il comando: "prendi del frumento, dell'orzo, delle fave, delle lenticchie, del miglio e della veccia e fanne del pane". Nei tempi di grande carestia, poi, si cercava di fare il pane con qualsiasi cosa, persino con la paglia e le cortecce macinate, e si ricorreva al cibo dei maiali: le ghiande. Il vino era bevuto sia dai nobili che dai monaci ma i poveri inizialmente erano esclusi da questo "privilegio". Mangiare molto e carne era considerato segno di ricchezza e di potenza. I monaci anche se provenivano da famiglie ricche erano soliti mangiare poco in segno di penitenza; essi però alternavano alle zuppe e verdure del pesce.
Nel Medioevo si amavano profumi e sapori che per noi non sono usuali, come quello delle rose, e gli accostamenti un po' particolari come agro-dolce, dolce-salato, dolce-piccante ecc., forse anche per le tante spezie usate (sempre dai piu` ricchi, pero). Ancora a proposito di ricchi, ricordiamo che i primi libri "ufficiali" di ricette risalgono al 1300, ma si trattava per lo piu` di preparazioni riservate solo a chi se le poteva permettere, richiedendo spesso ingredienti molto costosi.

 

A tavola la sedia del signore era la piu elevata, gli altri erano seduti su sgabelli. Si usavano vassoi d' argento e coppe d' oro, arrivavano in tavola interi cinghialetti arrostiti, frittate di centinaia di uova, enormi brocche di vino, fruttiere ricolme. In pieno Medioevo apparve uno strumento nuovo che impiegò molto tempo a conquistare le tavole di tutto il continente. Pier Damiani scrisse che durante un matrimonio tra nobili, la sposa si fece portare un "bidente d'oro" e mangiò la carne con quello, invece di usare le dita come dettavano le buone usanze. Era la prima forchetta, ma soltanto a due denti. Per molto tempo, però, fu usata soltanto dalle dame più nobili poichè per gli uomini era un segno di debolezza. Per pulirsi le mani c'erano diversi metodi, a seconda della raffinatezza, dell'ambiente e dell'epoca: si potevano strofinare con noncuranza sul mantello dei cani che girovagavano numerosi attendendo gli ossi, o si potevano lavare delicatamente con acqua di rose, o tergere su tovaglie di lino, che certo uscivano malconce dallo schizzare dei sughi. Dimenticare di offrire l'acqua di rose era considerato un'offesa, come del resto rifiutarla. C'era tutta una serie di regole da seguire, nei banchetti, tra cui "non sputare sul desco, tenere le unghie sempre "nette e piacenti", e infine - dopo essersi soffiati il naso - pulirsi le dita non sulla tovaglia ma nella propria veste. Sempre per pulirsi le mani, c'era anche un'altra soluzione, molto diffusa e graditissima ai poveri: si mangiava su... tovaglie di pane, cioè sopra uno strato di pasta sottile, rettangolare, una specie di "pizza", sulla quale ogni convitato tagliava la carne, lasciava colare il sugo, pulendosi poi le mani con un po' di mollica intatta; quel che restava di queste "tovaglie" veniva dato ai poveri che aspettavano alla porta.

 

Per tutto il Medioevo sulle mense dei pratesi il pane aveva il primo posto; al pane si accompagnava un alquanto ridotto seguito di companatici, il che contribuiva ad accrescere ulteriormente l'importanza del principale alimento. La nostra civiltà ha attribuito al pane il ruolo di principale garante della sopravvivenza, di provvidenziale scudo contro la fame.     
I "buoni uomini" dei Ceppi elargivano farina e pane ai pratesi indigenti, per prima cosa garantivano ai beneficiati qualche giorno di minor preoccupazione: era così che si assicurava la tranquillità in occasione delle ricorrenze e negli altri frangenti in cui la fame di molti poteva rappresentare una fonte di grave turbamento. In questo Medioevo, quando si parla di carestia si deve intendere carestia di cereali: di tutto il resto si poteva anche fare a meno. Ma torniamo per ora al quotidiano; accanto al pane gli altri alimenti consueti per l'uomo comune sono gli ortaggi (prodotti spesso nell'orticello di proprietà, situato accanto all'abitazione o subito fuori le mura di Prato, piccoli fazzoletti di terra dai quali comunque si cavavano insalate, cavoli, zucche, legumi, agli, cipolle, porri e qualche frutto), il formaggio, le uova ed anche la carne, piatto non certo quotidiano per tutti ma neanche agognata rarità per buona parte della popolazione.
Per ciascun cittadino di Prato, tra il 1321 e il 1322 c'era una disponibilità annua di carne di 19,7 chilogrammi. La classifica per genere della carne più consumata vede al primo posto l'ovo caprina, e in particolare quella di castrone, seguita a poca distanza da quella suina (in realtà è probabile che le sopravanzasse, se si tiene conto che l'allevamento del porco per l'autoconsumo domestico - sfuggente alla gabella - era pratica diffusa) e poi da quella bovina. La classifica del pregio poneva ovviamente al primo posto la vitella, e poi il castrone, l'arista, e quindi la carne di bue adulto. Al tempo della grande fiera di settembre, si consumava carne di ovini adulti e di vitelli, dicembre e gennaio erano caratterizzati da un notevole afflusso sul mercato di carne suina e anche bovina. "A cagione che gli è di quaresima ti scriverò pocho e di rado" faceva sapere al marito Margherita Datini "ch'i'ò pocho ciervelo fuori di quaresima, perciò abimi per ischusareta"; e ancora "mi sono morta di fame in questa quaresima e il medicho dice che io òne più male di debolezze che d'altro". A questa temporanea austerità dettata dall'osservanza religiosa e all'altra ben più triste imposta ogni giorno dalle ristrettezze economiche, pratesi ricchi e poveri cercavano di ovviare con un notevole consumo di vino; diffuso in tutti gli strati della popolazione esso costituiva "il modo di procurarsi calorie ad un prezzo spesso più conveniente rispetto ad altri generi" particolarmente per i meno abbienti. I quali si accontentavano del vino locale, di bassa gradazione e bevuto spesso annacquato. Abbastanza rinomata era invece la campagna pratese per la produzione di frutta (fichi, prugne, noci, pere e mele, ciliege, pesche, poponi e cocomeri): anch'essa doveva avere un'importanza rilevante nell'alimentazione del tempo.Cibi dei ricchi e cibi dei poveri si differenziavano insomma in maniera notevole, non solo per quantità ma anche per qualità e per elaborazione, e l'arco della differenza dovette tendere a divenire più ampio nel corso del tardo Medioevo; pasti da "lavoratori": di pane, di vino, carne (presumibilmente "salata") era composto il desinare consueto di un maestro muratore e dei suoi manovali; insalata, cipolle e cacio costituivano il pasto offerto ai battitori del grano; cavolo e aringhe fece preparare Lapo Mazzei per due uomini venuti da Firenze a compiere certi lavori nel suo podere di Grignano. Che i "lavoratori" dovessero starsene per conto loro e mangiare non piu` del "giusto" si vede anche da questa storiella: pare che Luca del Sere si fosse scandalizzato quando seppe che Margherita Datini, vedova, aveva ospitato alla sua stessa tavola i pittori che affrescavano la sua casa con le storie di Francesco: ciò non era " nè bene nè onesto", e per quanto riguardava i loro pasti "e' non ànno a stare a noze nè a morir di fame: abino del pane e vino quello che bisognia loro, l'altre chose sechondo chome vi pare", come se fosse ovvio non avessero diritto a pretendere alcunchè di più. Come nel resto del mondo medievale, anche a Prato - dunque - a una ristretta categoria di ricchi molto ben nutriti, si contrappone la massa della gente che consumava soprattutto cibi vegetali (pane, ortaggi, zuppe) e poca carne di bassa qualita`, pur spendendo buona parte del suo poco denaro proprio per il cibo: "sbirciare" i banchetti dei potenti faceva nascere i sogni nelle menti del popolo e l'acquolina nelle loro bocche...

 

Restrizioni nella caccia, riserve venatorie, protezione di alcune specie, esistevano anche nel Medioevo e dimostrano fino a che punto gli uomini riuscissero a minacciare l'equilibrio ambientale. Queste restrizioni riguardavano solo i paesi densamente abitati con vaste coltivazioni come L'Inghilterra, mentre nei paesi come la Spagna e nell' Europa orientale non esistevano. Nell' Europa settentrionale, oltre alle zone coltivate, si trovavano molte foreste ampie che costituivano una fonte di risorse quasi inesauribile, prima fra tutte la legna. Anche i contadini sfruttavano le risorse della foresta raccogliendo bacche, miele, erbe, da cui estraevano sostanze chimiche a loro utili (ad esempio per conciare le pelli o fabbricare il sapone). La foresta era anche piena di animali veloci che venivano cacciati come selvaggina più o meno pregiata, d'altronde l' approvvigionamento di carne era ottenuto soprattutto dalla caccia. A poco a poco le grandi riserve incominciarono pero` a impoverirsi. La diminuzione della selvaggina indusse all' allevamento di animali da macello e a fissare prezzi per licenze di caccia. Così la caccia si trasformò progressivamente in uno sport per pochi riservato a quanti potevano affrontarne le spese, quindi cessò di rappresentare il naturale sistema di procurarsi il cibo da parte degli abitanti delle campagne.

Anche la pesca era molto importante per la popolazione medioevale: in particolare nei mari settentrionali la pesca e la preparazione di altri pesci salati e affumicati costituivano un ottimo guadagno per pescatori e commercianti. Spingendosi verso nord i marinai cacciavano pesci di grande taglia (balene, capodogli e trichechi) per la loro pelle, il loro grasso, le loro zanne. Sulla terra ferma si pescava in fiumi e vivai appositamente realizzati. Il pesce è sempre stato una sorpresa perchè, anche se le città facevano molti sforzi per organizzare il mercato, la pesca restava pur sempre incerta, la freschezza precaria e i trasporti difficili. Alla chiusura del mercato del Venerdì, i poveri recuperavano i pesci invenduti che gli venivano lanciati dai proprietari dei banchi che per legge glielo dovevano dare per evitare che al prossimo mercato potesse essere rivenduto il pesce avanzato al mercato precedente. Probabilmente in campagna (quelle lontane dalla riva del mare) non si conosceva il pesce di acqua salata. Dunque il pesce, benche` sinonimo di penitenza, era anche gola, perché l'incertezza di poterselo procurare rinfocolava il desiderio di averlo.

 

La differenza fra giorni quotidiani e festivi era molto grande soprattuto dal punto di vista alimentare (e soprattutto nelle case dei ricchi): nei giorni festivi gli acquisti aumentavano in modo sproporzionato: si comprava molta più carne, soprattutto pregiata (vitello, capretto, pollame, capponi). Gli uomini piu` agiati cominciavano ad andare a caccia gia` molti giorni prima; entrano nelle cucine dei signori molti prodotti: uova, farina, formaggi, spezie, indispensabili per la preparazione di alcune ricette. Per alcune feste religiose il consumo era ritualizzato: lasagne a Natale, farro a Carnevale, uova e formaggio per Ascensione, oca per Ognissanti, agnello a Pasqua; questa lista fu proposta da Simone Prudenziali, poeta orvietano di fine 200.

 

Una delle testimonianze più interessanti dell' epoca medievale è rappresentata dagli " erbari ". Qesti codici, riccamente miniati, raffiguravano le varie erbe e le piante allora conosciute, elencandone anche i vantaggi che se ne potevano trarre per la salute.  Citiamo dal Tacuinum Sanitatis alcuni dei consigli terapeutici:


Frumento: indicato per guarire le ulcere.
Segale: indicato come calmante e sedativo.
Uovo: nutre, depura e ingrassa.
Miglio: per coloro che desiderano rinfrescarsi.
Bietole: il loro succo toglie la forfora.
Zucche: mitigano la sete e fanno bene ai collerici.
Cocomeri e cetrioli: abbassano la febbre.
Finocchio: giova alla vista.

Cosa erano e a che cosa servivano le spezie che l'occidente importava dall'oriente a carissimo prezzo? Le spezie (o droghe) sono in realtà bacche, gemme o semi di piante. Le più conosciute sono: cannella, noce moscata, zénzero, zafferano, cumino, ... Oltre a rendere più stuzzicanti i cibi contribuivano a conservarli meglio. Ma non solo, le spezie erano anche gli essenziali componenti di molte medicine: con il ginepro, il cumino e l'anice ci si facevano liquori, tonici ed elisir. Il pepe era invece un ottimo disinfettante intestinale. Esse erano fonte di grandi guadagni per i mercanti perchè erano poco ingombranti, perciò costava poco caricarne e trasportarne qualche migliaio di chili ed i compratori erano disposti a pagarle care. Le spezie tennero il primo posto nel commercio sul Mediterraneo fino al XVII secolo. Anche il sale era usato nella cucina e nelle farmacie. Oggi è un prodotto comune e poco costoso, ma nel medioevo era molto raro e caro, tanto che i governi ne tassavano spietatamente il consumo. Venezia si arricchì con le spezie ed il sale fino dall'alto medioevo, quando la principale attività dei veneziani era lo sfruttamento delle saline e il sale era usato come moneta e come mezzo di scambio.

Il sale esaltava il sapore degli alimenti e permetteva di conservare la carne ed il pesce essiccandoli. Era inoltre considerato un ottimo disinfettante, un ricostituente del sangue energetico e corroborante, una sostanza capace di rassodare pelle e muscoli. Ed era utilizzato nella concia delle pelli.

Il valore del sale era legato anche ad antiche tradizioni magiche e religiose, tanto che il carattere sacro e magico del sale è all'origine di molte credenze popolari vive ancora oggi, come quella di considerare un segno di sventura spargere e sprecare il sale.

 

 

 

 

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