I Tornei Medievali
I tornei e le
giostre furono un prodotto del Feudalesimo e della Cavalleria e si
riallacciano ai giochi guerreschi popolari come fine di esercizio
nell'arte militare, dei quali si fa menzione fin dall'epoca carolingia (IX
secolo).
La parola
"torneo " si trova spesso usata nel senso di "giostra",
indifferentemente, benchè "giostra" sia più propriamente un
combattimento fra due cavalieri con lancia in resta e "torneo" un
combattimento tra fazioni.
La paternità
del torneo è attribuita a G. de Prèvilly, ma sembra che questi abbia
solo fissato e regolamentato le norme che lo governavano.
L'uso di tali
giochi varcò le frontiere francesi e anche in Italta troviamo i tornei,
numerosi già nel XII e XIII secolo.
All'origine si
trattò di vere e proprie battaglie con morti e feriti. Ma nel XIII
secolo si decise di spuntare le lance e di rendere inoffensive le spade
sopprimendone la punta e il taglio in modo da passare al puro desport,
divertimento: anche così, però, il più piccolo errore bastava a
provocare un incidente e quindi giostre e tornei divennero sempre più
complicati esercizi di abilità e di scaltrezza.
Dato il loro
luogo d'origine, la terminologia delle giostre e dei tornei era
generalmente francese e in francese sono redatti, infatti, i principali
codici di regolamenti che riguardano queste manifestazioni. L'importanza
di questi codici era enorme: ad essi ogni torneante era obbligato
severamente ad attenersi pena l'accusa di fellonia, e tutto ciò che
riguardava il torneo era trattato con minuziosamente, dalla descrizione
delle cerimonie iniziali di parata al saluto, alla vestizione dei
torneanti, alla descrizione delle armi e delle armature, alla
elencazione perfino del numero dei colpi da infliggersi da una parte e
dall'altra, e così via.
Fra i tornei
più famosi è il caso di citare quello del Pas de l'Arbre d'Or, tenuto
nel 1468 per celebrare il matrimonio fra il Duca di Borgogna e la
principessa Margherita, sorella di Edoardo IV d'lnghilterra.
Inoltre, quello del Chevalier Sauvage à la Dame Noire, tenuto ad
Edimburgo nel 1508; quello tenutosi a Parigi nel 1559 in occasione delle
nozze fra la principessa Elisabetta, figlia di Enrico Il di Francia, e
Filippo Il di Spagna, durante il quale il sovrano francese venne
gravemente ferito al punto da soccombere dieci giorni dopo; e la celebre
disfida di Barletta, avvenuta nel 1503 fra tredici Francesi e tredici
Italiani. Ricca è pure la letteratura che ha per argomento giostre e
tornei: l'esempio più valido è costituito dalle Stanze per la
giostra, ottave scritte dal Poliziano in occasione della vittoria
riportata nel 1475 in un torneo da Giuliano de' Medici.
Come si è
detto, giostre e tornei, inizialmente, avevano proprio lo scopo il
mantenersi in esercizio nell'arte militare.
Essi nacquero
per sottrarre i giovani (e anche i non più giovani) soprattutto
all'influsso negativo
che i lunghi
ozi invernali avevano sul fisico. Bisogna infatti tenere presente che le
campagne militari (occupazione principale dell'uomo di rango nell'alto
Medioevo) venivano tenute solamente nella bella stagione: con l'inizio
dell'autunno gli eserciti venivano sciolti ed ognuno ritornava alla
propria dimora. Rimaneva sì la possibilità di sfogare la propria
esuberanza nelle cacce, ma anche queste erano attuabili dal mese di
aprile al mese di ottobre: da novembre a marzo le uniche occasioni di
menare le mani si potevano avere o contro i briganti di strada o contro
orsi e lupi (occasioni, peraltro, non infrequenti a quel tempo!). In
generale, però, accadeva che il lungo inverno venisse passato nelle
grandi sale dei castelli, davanti a tavole imbandite mentre negli ampi
camini di pietra ardevano interi tronchi, e a smaltire il grasso e
l'apatia non bastavano certo gli esercizi nelle sale d'armi. Fu così che
si pensò di trovare qualcosa che servisse ad esercitare i cavalieri nel
nobile mestiere delle armi, nel maneggio del cavallo, della spada, della
lancia e della mazza e si ritenne che nulla poteva esservi di meglio di
quegli scontri che simulavano le battaglie, già in uso in epoca
carolingia e che si trovano descritti, per esempio, nella Cronique
di Nithard (842).
La passione per
queste manifestazioni andò sempre più aumentando ed ogni occasione fu
buona ben presto per indire giostre e tornei: la celebrazione di una
vittoria, di una ricorrenza, di una pace o lega, di una grande festa
religiosa o qualsiasi importante avvenimento politico, e perfino per
maritare le donzelle. Subito i tornei assunsero particolari
caratteristiche di fasto e di lusso: ai vincitori venivano consegnati
doni di grande valore; le armature, le armi e i cavalli sfoggiati erano
quanto di meglio si potesse avere.
Il pubblico e
in particolare le dame facevano a gara nell'indossare splendide vesti e
gioielli spettacolosi per stupire e far morire di invidia gli
intervenuti dalle più lontane contrade: I'occasione della giostra o del
torneo dava modo, infatti, alla gente di riunirsi anche se era
necessario compiere un lungo viaggio. Era possibile così scambiare idee,
conoscere nuove persone e, cosa assai importante, notare qualche giovane
particolarmente abile nel maneggiare le armi i cui servigi sarebbe stato
bene accaparrarsi in tempo.
Nelle giostre e
nei tornei, infatti, erano soprattutto i giovani che desideravano
mettersi in mostra. Per molti, anzi, quella era la prima occasione per
dimostrare in pubblico i frutti del tirocinio cui erano stati sottoposti
sino dalI'infanzia.
Oltre ad una
sommaria istruzione (più o meno ridotta al leggere e scrivere) impartita
da qualche scrivano o da qualche vecchio religioso, il futuro cavaliere
era stato fin da ragazzetto sottoposto ad un vero e proprio "rodaggio".
Sotto lo sguardo vigile del padre o di qualche vecchio soldato rotto
alle più fini astuzie, per ore e ore egli si era in allenato alla lotta
corpo a corpo, aveva appreso i primi rudimenti della scherma con il
bastone, I'equitazione, le norme della caccia. Cavalli e falconi non
avevano più segreti per lui, ma quante cadute e quante beccate prima di
riuscire ad essere in grado di guidare la cavalcatura con il solo uso
delle ginocchia e di lanciare correttamente il volatile sulla preda! Poi
c'erano stati i cani, da allevare e da condurre con perizia alla caccia.
Lunghi anni, e duri dunque? Sì, ma nel complesso anche divertenti e poi
tutto si superava con gioia - ruzzoloni, lividi, graffi, occhi pesti -
in vista del traguardo finale, della famosa cerimonia dalla quale si
sarebbe usciti consacrati cavalieri.
Il periodo
forse più pesante era in ogni modo quello del tirocinio come scudieri,
durante il quale i futuri cavalieri dovevano imparare a servire un
qualche signore, e "servire" non era certo detto per metafora: non
dovevano infatti limitarsi a portare le armi del signore o a condurre il
suo cavallo alla guerra o al torneo, dovevano anche servirlo a tavola,
aiutarlo a vestirsi, strigliargli il cavallo, forbirgli le armi e così
via.
Tuttavia anche
questo periodo passava ed ecco che giungeva il momento tanto sospirato
della veglia d'armi, che significava la nomina a cavaliere.
La cerimonia
era solenne. Il futuro cavaliere, dopo un bagno di purificazione,
indossava una tunica bianca (simbolo di purezza), un manto rosso
(simbolo del sangue che era disposto a versare in nome di Dio), una
cotta nera (simbolo della morte che non temeva) e vegliava un'intera
notte in chiesa, immerso nella preghiera. La mattina seguente, durante
la Messa, egli si presentava all'altare con la spada sulla spalla e la
porgeva al celebrante che la benediva. Ripresa la spada, il giovane
andava ad inginocchiarsi ai piedi del signore che doveva armarlo.
Questi gli
chiedeva il motivo per cui voleva divenire cavaliere e se i suoi scopi
erano diretti solo alla conservazione e all'onore della religione e
della Cavalleria. Dopo avere risposto adeguatamente, egli prestava
giuramento, quindi riceveva gli speroni e la spada.
Finita la
vestizione restava in ginocchio e il signore che doveva ordinarlo
cavaliere si alzava egli dava la collata, ossia tre colpi dati o
di piatto con la spada nuda o con la mano, sulla spalla o sul collo
pronunciando le parole: "Nel nome di Dio, di San Michele e di San
Giorgio io ti nomino Cavaliere". Se ora il giovane cavaliere era pronto
a cimentarsi in guerra e in torneo con il crisma dell'ufficialità, di
due cose si doveva occupare anzitutto: del suo cavallo e delle sue armi.
Per il cavallo,
in particolare, era necessario una gran cura nell'addestramento e
nell'armamento, perché esso era il compagno fedele del cavaliere e
doveva obbedirlo ad ogni suo minimo ordine. E' anzi da un particolare
tipo di addestramento per la giostra che sembra sia derivato il termine
"destriero"; infatti, per combattere la giostra con barriera, nella
quale i due giostranti erano separati da un divisorio di tela o di
legno, era necessario che i cavalli tenessero il galoppo sul piede
destro per permettere al loro cavaliere di toccare l'avversario nel
modo più efficace possibile.
Quanto
all'armamento l'animale gareggiava con l'uomo per equipaggiamento
complicato e vistoso: oltre alla gualdrappa di stoffa a vari colori,
esso portava una sella assai complessa con il davanti dell'arcione molto
prolungato in modo da proteggere il basso ventre e da formare anche a
volte due ali laterali (molto simili agli odierni paraspruzzi di una
motocicletta) che dovevano servire per proteggere le cosce (garde
-cuisses) del cavaliere. Infine, la testa del cavallo era protetta
da una massiccia testiera che copriva anche gli occhi delI'animale
(detta perciò « cieca ») in modo che questo, correndo la giostra, non si
spaventasse alla vista dell'altro cavallo che gli muoveva incontro e non
scartasse, rendendo così difficile al suo cavaliere il poter colpire
l'avversario al punto giusto.
Sarà bene a
questo punto spiegare in breve come si svolgeva un torneo. Tramite il re
d'armi lo sfidante inviava la propria sfida allo sfidato: se questi
accettava I'incontro, venivano nominati i giudici del torneo e scelti i
cavalieri e gli scudieri che dovevano fare parte delle due fazioni. Poi,
stabiliti data e terreno dello scontro, il torneo veniva dichiarato
aperto.
Con un anticipo
di alcuni giorni sulla data fissata i cavalieri contendenti muovevano in
sfarzoso corteo di parata verso la località dove lo scontro avrebbe
avuto luogo. Dopo l'ingresso trionfale nella città o borgo più prossimo,
davanti agli sguardi ammirati e incantati del popolino, essi si
insediavano ufficialmente nei quartieri loro destinati e gli scudieri si
preoccupavano di esporre immediatamente le bandiere e gli stendardi con
i colori dei loro signori.
Poi, sempre
sfilando in magnifica processione, i contendenti si recavano in chiesa
dove esponevano i loro elmi e le loro insegne per la benedizione; quindi
gli elmi venivano trasferiti nel chiostro della chiesa dove, alla
presenza del re d'armi e dei giudici del torneo, avveniva la cerimonia
detta "della raccomandazione". Era questa una curiosa cerimonia, dal
significato molto diverso da quello attuale del termine: infatti, invece
di favorire, puniva il "raccomandato". Vale la pena di parlarne
brevemente.
Non si è ancora
detto dell'importanza che avevano le dame nei tornei. La loro presenza e
il loro incitamento contribuirono infatti ad aumentare la foga delle
mischie e spesso, per conquistare i loro favori, molti cavalieri
rimasero uccisi. Nel caso della "raccomandazione" erano appunto le dame
a stabilire chi dovesse essere raccomandato.
Una volta che
gli elmi e le insegne dei cavalieri torneanti erano stati disposti nel
chiostro in lunga serie, il pittoresco corteo delle dame sfilava
lentamente davanti alla esposizione; passando davanti a quelli di un
cavaliere di cui conoscevano qualche grave colpa (che avesse esercitato
l'usura, avesse sparlato di qualche dama, avesse fatto falso giuramento
o mancato alla parola data), esse si limitavano ad allungare la mano e a
toccare il suo elmo. Il cavaliere, automaticamente, diventava
"raccomandato"), e, prima di poter entrare nella lizza dove si sarebbe
svolta la tenzone, doveva purificarsi: la purificazione consisteva
nell'essere battuto dagli altri cavalieri finché non si fosse arreso o
non avesse chiesto grazia alla dama offesa.
Frattanto nel
luogo stabilito per il torneo era stata eretta la "lizza" o arena, il
cui suolo veniva abbondantemente cosparso di sabbia; ciò era fatto per
evitare che durante gli scontri gli zoccoli dei cavalli o i piedi dei
contendenti avessero a scivolare, provocando in tal modo cadute non
imputabili al procedere del combattimento e ,che avrebbero potuto
mettere in difficoltà il torneante incolpevole. Ai lati della lizza
sorgevano i palchi destinati al pubblico (simili alle odierne gradinate
degli stadi) e due tribune, una riservata alle autorità e ai giudici del
torneo, l'altra alle dame. A una serie di pali o lance, in fondo alla
lizza, erano appesi gli scudi con il blasone e le insegne di ciascun
contendente, mentre dietro ogni palo era il padiglione o tenda destinata
al cavaliere per compiervi la vestizione. Questi padiglioni erano
solitamente fatti con stoffe dipinte a colori vivacissimi che ripetevano
i colori del blasone del cavaliere occupante; davanti ad essi stavano di
guardia gli scudieri pronti ad accorrere ad un'eventuale chiamata del
loro signore. Il servizio d'ordine era tenuto dai soldati (suivants
d'armes) alle dipendenze del signore che aveva indetto il torneo,
mentre gli araldi erano incaricati di annunciare gli scontri e i nomi
dei torneanti.
La vestizione
del cavaliere era un'operazione molto lunga e complessa: per condurla a
termine completamente (ossia armando anche il cavallo) erano necessarie
due ore buone e l'intervento di numerosi scudieri ed anche di personale
specializzato (fabbri, maniscalchi e simili).
Per prima cosa
il cavaliere si spogliava dei sontuosi abiti di parata che aveva
indossato durante la precedente cerimonia, e rivestiva le vesti leggere
che gli lasciavano grande libertà di movimenti. Sopra queste vesti
venivano quindi adattate particolari protezioni imbottite, le quali
avevano la funzione di proteggere il corpo dallo sfregamento con le
parti dell'armatura metallica nelle articolazioni, sulle spalle e
intorno al collo. Sopra le imbottiture era infine letteralmente
"montata" l'armatura: sì, montata è il termine esatto perche il fabbro
prendeva uno per uno dalle mani degli scudieri i vari pezzi di quel
"guscio" metallico e li andava amano a mano sistemando sul corpo del
cavaliere, fissandoli con chiavande e ganci e servendosi di strumenti
affini alle nostri chiavi lnglesi e ai nostri cacciavite. Queste
operazioni richiedevano grande destrezza e abilità nell'accostare e nel
coprire le varie giunzioni, in modo da non lasciare alle armi nemiche
vie possibili per giungere a ferire iI corpo: da esse, dunque, dipendeva
in gran parte il buon esito dei combattimenti.
Da ultimo in
testa al cavaliere veniva posto I'elmo d'acciaio di complicatissima
fattura, alla cui sommità (coppo) era fissato l'emblema per il quale era
stato organizzato il torneo: tale emblema era per lo più costituito dai
"colori" della dama in onore della quale il cavaliere si proponeva di
torneare, colori che erano rappresentati da un velo, da un guanto, da un
fazzoletto della gentildonna in questione. Contemporaneamente al
cavaliere, fuori del suo padiglione alcuni maniscalchi e mozzi di
scuderia, sotto l'attento esame di uno scudiero, bardavano il cavallo
del torneante con la stessa accuratezza con cui veniva armato il suo
padrone.
Anche l'animale
era completamente "corazzato" con lastre metalliche, sistemate tuttavia
in modo che II loro peso fosse equamente distribuito e le gambe
potessero muoversi liberamente non solo al passo ma anche al trotto
e al galoppo. Questa bardatura (barda) veniva poi ricoperta da una
sgargiante gualdrappa di stoffa con i colori del cavaliere, sulla quale
infine veniva sistemata una sella speciale particolarmente robusta in
cui il torneante avrebbe dovuto essere incastrato.
Finalmente,
terminate le lunghe operazioni della vestizione, il cavaliere si ergeva
nel mezzo della sua tenda come una luccicante statua d'acciaio: solo il
suo viso rimaneva per ora libero di difesa, poiche la celata dell'elmo
sarebbe stata abbassata più tardi, al momento dello scontro. Allora due
o più fra servi e scudieri gli si accostavano per aiutarlo a uscire
dalla tenda, il che avveniva con grande clangore e cigolii di metallo.
Giunto vicino
alla sua cavalcatura, ora il cavaliere doveva montare in sella. La cosa
non era poi tanto semplice e spesso egli non era in grado di salire a
cavallo con i propri mezzi: doveva ricorrere all'ausilio di un rialzo, o
alle robuste braccia di numerosi amici o servi, o addirittura (e il caso
era più frequente di quanto si possa immaginare) all'impiego di un
robusto, anche se primitivo, paranco, grazie al quale egli veniva
sollevato dal suolo fino a una certa altezza e poi preposto in sella,
proprio come oggi avviene per una cassa che dal suolo debba essere
sistemata a bordo di una nave.
In groppa al
cavallo, venivano ultimate le operazioni di armamento: ai calcagni del
cavaliere venivano fissati lunghi speroni speciali, adatti per essere
usati su un cavallo bardato, quindi si procedeva alla consegna delle
armi vere e proprie. Ed è a questo punto che possiamo fare il discorso
circa la seconda cosa (oltre al cavallo) di cui il torneante doveva
avere particolare cura: le armi appunto.
Le armi
potevano essere di due tipi: da guerra (ossia appuntite e affilate)
oppure "cortesi" (cioè spuntate e prive di taglio); nelle giostre e nei
tornei venivano solitamente usate le armi cortesi.
Fra le armi più
usate c'erano la spada, la mazza, la scure o ascia di guerra e la
lancia. La spada era corta e spuntata, e la sua lama era di lunghezza
non superiore a quella di un braccio teso (mano compresa), larga almeno
quattro dita (perché non potesse passare attraverso la gabbia
dell'elmo), di sezione romboidale e con un dito di spessore al taglio;
per essere più leggera, senza perdere in robustezza, era scanalata. La
guardia della spada era formata da un'impugnatura munita di un pomo
pesante e massiccio (che aveva la funzione di equilibrare la lama), di
una coccia accartocciata e di una sbarra trasversale le cui estremità
incurvate in avanti avevano li compito di bloccare il corpo
dell'avversario. A volte il pomo poteva essere cavo e contenere quindi
una reliquia o qualche particolare pegno: in questo caso tutta
l'impugnatura dell'arma veniva appesantita per mantenerle le funzioni
equilibratrici della lama. Una cinghia di cuoio a nodo scorsoio era
attaccata al pomo e veniva fissata al polso del guanto di ferro del
cavaliere.
La mazza (mazza
d'arme) era un corto tubo cilindrico in cima al quale era fissata una
massa pesante di ferro: questa massa poteva essere lenticolare (e allora
era munita di spuntoni che la rendevano vagamente simile a un grosso
riccio di castagna) o costolata, fissata saldamente al manico di
sostegno oppure unita ad esso mediante una asta o una catena (in questo
caso la mazza prendeva il nome di flagello). Con quest'arma il torneante
doveva vibrare un certo numero di colpi all'avversario, sull'elmo e sul
petto, al fine di stordirlo.
La scure o
ascia di guerra era relativamente poco usata nei tornei: infatti, come
arma cortese, i suoi risultati erano piuttosto scarsi. Poteva essere
sostituita dal martello d'arme che, munito da un lato di una sorta di
punta e dall'altro di una massa più pesante e squadrata, aveva realmente
la forma di un martello e veniva utilizzato pressappoco come la mazza
d'arme. Sia la scure sia il martello d'arme ave- vano manico corto come
quello della mazza, e impugnatura massiccia per bilanciare il peso della
testa.
Ed ecco infine
la lancia. Quella da torneo, a differenza di quella da guerra, aveva
l'asta in legno di frassino in modo da potersi scheggiare con una certa
facilità; era lunga circa quattro metri e poteva essere o semplicemente
spuntata o tricuspidata, così da non offendere l'avversario colpito.
Essa era inoltre munita di una rotellina paramano in metallo e di un
anello di forma particolare che doveva servire da fermo contro la resta
dell'armatura.
Terminato
l'armamento e issato in groppa al proprio destriero il cavaliere era
pronto a scendere nella lizza. Fra un cupo clangore di lastre metalliche
egli dirigeva
il cavallo verso la tribuna dei dignitari per il saluto, quindi passava
davanti a quella delle dame per rendere omaggio all'eletta del suo
cuore.
Dopo di che si
recava davanti ai pali che reggevano gli scudi, eretti in fondo alla
lizza, e con la lancia batteva contro gli scudi dei cavalieri con i
quali desiderava cimentarsi: gli scontri sarebbero avvenuti nell'ordine.
Poi egli si recava nuovamente al suo padiglione e attendeva di essere
chiamato a combattere.
I primi scontri
ad avere luogo erano quelli con la lancia. Per questi venivano applicati
sulle corazze dei particolari pezzi di rinforzo al lato sinistro, più
esposto all'urto della lancia.
Questo rinforzo
era chiamato "guardastanca" ed era composto di uno spallaccio fisso che
immobilizzava il braccio, il cui solo compito era quello di sostenere lo
scudo e di obliquarlo all'occorrenza per far scivolare la lancia
avversaria.
Durante gli
scontri, allo scopo di attutire lo stridore del metallo contro il
metallo (ma, probabilmente, più ancora per coprire le urla dei caduti)
una sorta di concerto di trombe e tromboni eseguiva arie marziali.
Nel caso che i
giudici del torneo ritenessero che un combattimento stesse divenendo
troppo pericoloso, era loro facoltà interromperlo gettando nella lizza
il segno della loro autorità (un dardo o uno scettro) e ordinando ai
suivants d'armes di separare i combattenti.
Oltre agli
scontri ufficiali (che, per quanto si utilizzassero armi cortesi, erano
sempre piuttosto violenti dato che il peso complessivo dei due
contendenti si aggirava sui 1100-1500 chili e le loro velocità, sommate,
sui 70-100 chilometri) se ne tenevano altri che erano di puro
divertimento e consistevano in esercizi di destrezza e di abilità,
condotti con armature di cuoio o di stoffa imbottite (dette da gioco) e
con bastoni e mazze di legno.
Qui il fine non
era tanto quello di abbattere l'avversario quanto piuttosto di
dimostrare le proprie conoscenze nelle mosse da impiegare. Essendo
assolutamente incruenti questi tipi di scontri erano molto praticati dai
giovanissimi e per questo assai seguiti dal popolino e dalle damigelle
che vi trovavano una fonte di divertimento tranquilla e senza cruente
sorprese.
Di solito le
giornate del torneo si concludevano la sera nel castello del signore con
una sontuosa festa, in cui venivano onorati i vincitori delle gare che
si erano svolte durante il giorno.
Si trattava di
splendide riunioni, rutilanti di costumi, scintillanti di gioielli,
durante le quali dame e cavalieri si sedevano a banchettare (ma il
banchetto più fastoso era, come vedremo, quello con cui si chiudeva
ufficialmente il torneo) e quindi si dedicavano alle danze. Per
aumentare il divertimento e inserire un più piacevole elemento di
sorpresa, spesso ci si mascherava con maschere grottesche che venivano
tenute davanti al viso mediante appositi manici.
II gusto della
mascherata, dello spettacolo, non era, del resto, limitato alla festa.
Negli stessi
scontri del torneo, per esempio, si ricorreva a "effetti" particolari
per aumentare la sensazione, e rendere maggiore l'attrazione simulando
il più possibile una cruenta realtà.
Fra l'altro,
nelle giostre fra due contendenti era assai apprezzato l'utilizzo di
questo trucco: sul pettorale dell'armatura veniva disposta, abilmente
dissimulata, una fiaschetta di pelle contenente vino o sangue di qualche
animale (di solito una gallina) la quale, colpita ad un certo momento
dello scontro, lasciava uscire il liquido che conteneva in modo da far
credere il colpito gravemente ferito.
Dopo il
combattimento dell'ultima giornata del torneo (il quale poteva durare
anche parecchio tempo: se ne conoscono di quelli durati un anno intero!)
il vincitore riceveva i premi. Questi consistevano in oggetti diversi di
gran pregio artistico e intrinseco, ma anche nelle spoglie (cavalli,
armi e armature) dei perdenti, che costituivano il cosiddetto trofeo.
Infine il
cavaliere vincitore veniva onorato con un banchetto particolarmente
ricco e fastoso. Nella più gran- de sala del palazzo o del castello del
signore venivano disposte su cavalletti larghe assi che poi erano
ricoperte di preziose stoffe per mascherare la modestia del sostegno; i
sedili (un unico lunghissimo banco, da cui "banchetto") erano sistemati
tutti dallo stesso lato per facilitare il servizio.
Si prendeva
posto secondo il più rigoroso ordine gerarchico e quindi si iniziava a
mangiare e a bere sino a notte inoltrata. Le portate, elaboratissime e
"montate" in maniera sontuosa su grandi vassoi, venivano presentate agli
ospiti dai servi provenienti in corteo dalle cucine: ognuna era
annunciata a gran voce e accompagnata da squilli di tromba. Il
banchetto, inoltre, era allietato da danzatrici, da giullari e da
musicanti.
Come già
si è detto, mentre le giostre erano scontri fra due soli avversari, i
tornei si svolgevano fra più fazioni di cavalieri: essi avvenivano senza
barriera e costituivano lo spettacolo più atteso dal pubblico. I
cavalieri si disponevano su due file, una di fronte all'altra a una
distanza inferiore a quella di un tiro di bale- stra; dato il segnale,
essi si precipitavano al galoppo al centro del campo e la meslee,
la mischia, aveva inizio.
Qui bisognava
fare particolare attenzione: ammaccature, ferite più o meno gravi (ed
erano molte!) andavano sopportate senza cadere di sella altrimenti
sarebbe stato ben difficile sottrarsi alla carica dei cavalli
circostanti. Guai agli stordimenti! Cedervi poteva essere fatale.
Poi, sempre
allo scopo di aumentare l'effetto scenografico e di attrarre
maggiormente l'attenzione del pubblico, si ricorreva ad artifizi
meccanici "garantiti di successo": ci potevano essere, per esempio,
diverse lamine applicate sul pettorale della corazza a formare una
targa, la quale, una volta percossa, scattava via spinta da una molla e
disfacendosi dava l'impressione che il colpo avesse sbriciolato la
corazza stessa. Qualcosa di analogo si aveva anche nella giostra fra due
contendenti: sul pettorale dell'armatura un congegno a molla teneva
fissata una "gran-guardia " mobile; il corretto colpo della lancia
avversaria faceva scattare la molla e la granguardia volava via, ad
indicare che il cavaltere era stato colpito.
Fra i tornei
italiani più significativi vanno ricordati per la loro sontuosità quelli
tenuti nel 1474 a Malpaga, feudo di Bartolomeo Colleoni, il celebre
condottiero e capitano di ventura, per la visita di re Cristiano I di
Danimarca venuto in Italia con lo scopo di compiere un pellegrinaggio in
occasione dell'Anno Santo.
La visita venne
rappresentata dal Romanino in una serie di affreschi che decorano
tuttora il castello di Malpaga e dei quali il meglio conservato è quello
raffigurante la splendida cena offerta dal Colleoni al sovrano.
Il resoconto di
tale Spino, un cronista dell'epoca, sulla visita di Cristiano la Malpaga
cita, fra l'altro, un episodio interessante: la sconfitta subita da un
erculeo cavaliere del re danese (definito dallo Spino -...un daco, uomo
di smisurata e mostruosa grandezza...- ) ad opera di un montanaro
indigeno, - ...montanaro dei nostri... giovinastro di venticinque anni,
e di persona ben soda e quadrata - , sconfitta salutata dall'ovazione
dei presenti al torneo.
A questo punto
va ricordato che si effettuavano anche combattimenti a piedi e che
scontri di questo tipo erano piuttosto frequenti nei tornei. Essi
venivano combattuti con un'armatura speciale, munita del "tonello " (una
specie di gonnellino metallico che si agganciava intorno alla vita a
maggior protezione del ventre); sempre a maggior protezione del ventre,
quando non veniva usato il tonello, la parte mediana dell'armatura era
ulteriormente rinforzata con una specie di braghetta.
Durante il
combattimento a piedi venivano impiegate armi come lo spadone a due mani
o a una mano e mezza, e la mazza. Questo tipo di contesa fu assai amata
da un grande sovrano, Enrico VIII d'lnghilterra, che lo praticava con
regolarità e studiava di volta in volta le migliorie da apportare
all'armatura.
Gli incidenti
nei tornei non erano affatto rari. Enrico Il di Francia, per esempio,
morì nel 1559 durante il torneo organizzato per festeggiare il
disastroso trattato di Cateau-Cambresis tra Francia e Impero, unitamente
al matrimonio per procura della principessa Elisabetta, figlia di Enrico
e Caterina de' Medici, con Filippo di Spagna rappresentato dal Duca
d'Alba, e quello di Margherita di Valois, sorella del re, con il duca
Filippo Emanuele di Savoia.
Il torneo si
svolse a Parigi davanti al Palazzo reale delle Tournelles. Caterina era
preoccupata per la vita del re, ricordando la predizione fattale dal
famoso indovino Nostradamus, il quale in una delle sue Centurie
aveva detto che -...il giovane leone avrebbe abbattuto il vecchio in
campo bellico, facendogli in singolar tenzone scoppiare gli occhi nella
gabbia d'oro... indi morte... morte crudele-. Il re non prestò fede alle
paure della consorte e volle scendere in lizza. Dopo avere combattuto
contro il Duca di Savoia prima e il Duca di Guisa poi, volle spezzare la
terza lancia con Jacques de Lorges, Conte di Montgomery, capitano della
Guardia scozzese venuto in Francia al seguito di Maria Stuart.
Improvvisamente, fra le urla del pubblico e di Caterina, durante
l'assalto il re cadde da cavallo. Molti accorsero presso di lui, ma lo
spettacolo che si offrì agli occhi dei soccorritori fu terribile: una
scheggia di lancia aveva squarciato l'occhio destro del re, penetrando
nell'orbita ed uscendo dalla tempia.
La predizione
purtroppo si era avverata ed Enrico Il moriva dieci giorni dopo,
il 10 luglio 1559, a 40 anni, per l'infezione seguita alla ferita. Da
questo terribile fatto derivò una violenta reazione che portò
all'abolizione dei tornei prima in Francia e poi nel resto dell'Europa.
Ma non è adire
che, con la loro abolizione, giostre e tornei siano del tutto scomparsi:
i duelli, tanto in voga nel XVIII e XIX secolo, i vari tipi di gara che
si usano ancora ai giorni nostri ne sono i derivati, gli elaborati, e
certo non sono meno cruenti dei loro antenati; anzi, forse a morti e
feriti oggi stiamo molto peggio di allora perchè spesso, troppo spesso,
anche il pubblico rimane coinvolto del tutto innocentemente. Autentico
cimelio di età perdute, rimasto intatto sia pure dopo che tanti secoli
sono trascorsi, è invece un tipo di giostra che si corre tuttora in
Toscana in quella stessa Piazza Grande di Arezzo in cui veniva corsa nel
XIV e XV secolo: la Giostra del Saracino.
Si tratta,
oggi, di uno spettacolo folcloristico che attira ancora un grande
pubblico così come lo attirava nel Medioevo. Esso deriva da un tipo di
giostra diffusa fino al XVII secolo in tutta Europa e conosciuta con il
nome di "quintana". "Quintana" (ma anche "buratto" o "saracino" ) era
chiamato un fantoccio di legno raffigurante di solito un turco con
turbante e barbaccia, che con un braccio (rigido) reggeva uno scudo di
legno e con l'altro (articolato) una lunga mazza piuttosto pesante;
questo fantoccio era montato su un perno in modo da ruotare su se stesso
e veniva posto al centro di un grande spiazzo. I giostranti, a cavallo e
muniti di lancia, dovevano galoppargli contro a gran velocità e colpire
correttamente il centro dello scudo sottraendosi poi con abilità alla
mazza che il fantoccio, costretto a ruotare velocemente dal colpo,
faceva turbinare tutt'intorno a se: e spesso, nonostante agili
contorsioni e un galoppo sfrenato, il cavaliere veniva (e viene!)
disarcionato da una violenta mazzata fra le spalle.
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