IL TETRAGRAMMA









LE VERSIONI GRECHE DI AQUILA, TEODOZIONE E SIMMACO



 

 

 

 

 

 

PROBLEMI LASCIATI APERTI DALLA SETTANTA

 

Nei primi secoli i cristiani fecero prevalente ricorso alla Bibbia dei Settanta per l’evangelizzazione e per lo studio delle profezie. Per tutto il I secolo la Settanta godette di grande autorità presso i giudei ed i cristiani. Discepoli, apostoli e padri della chiesa la citarono spesso e la diffusero soprattutto tra i gentili ed i pagani. In alcuni casi però la Settanta traduceva in modo estremamente libero il testo originale. Data la quasi totale ignoranza della lingua ebraica, numerosi furono pertanto gli abbagli presi, peraltro in buona fede, dai primi cristiani. Secondo Agostino la Settanta era comunque a pieno titolo ispirata e perfino le divergenze dal testo ebraico avevano valore provvidenziale, permettendo nuove e più profonde letture del testo originale. Secondo Gerolamo, invece, valore poteva essere attribuito solo all’hebraica veritas, essendo necessario distinguere tra la sicura ispirazione dell’autore ebraico e le inaffidabili competenze del traduttore greco [1].

 

In Isaia 7,14, ad esempio, il termine ebraico עלמה (almah) cioè “giovane donna” venne reso dalla Settanta con παρθενος (partenos), cioè “vergine”, aprendo la strada alla profezia della nascita verginale di Gesù (Matteo 1,23) ma lasciando piuttosto perplessi gli ebrei più ortodossi.

 

In Abacuc 3,2 la Settanta lesse poi “tu ti manifesterai in mezzo a due animali”, mentre il testo ebraico e la Vulgata di Gerolamo leggono: “l’opera tua ravviva nel corso degli anni”. Il brano sembrò confermare la nascita di Cristo tra il bue e l’asinello, già intravista dalla profezia di Isaia: “Il bue conosce il suo proprietario e l'asino la mangiatoia del suo padrone” (Isaia 1,3) e ribadita dal Vangelo Apocrifo dello Pseudo Matteo “il bue e l’asino l’adorarono” (Pseudo Matteo, XIV).

 

Nel Salmo 95,10 alcuni antichi manoscritti della Settanta portano. “Il Signore regna dal legno” invece di: “Il Signore regna”. Alcuni Padri della Chiesa (Giustino, Dialogo con Trifone, LXXIII e Tertulliano, Contro i Giudei, X) videro in questo versetto un’evidente profezia della morte e risurrezione del Cristo e giunsero ad accusare gli ebrei di aver falsificato il testo originale. Oggi tutti gli studiosi più seri sono concordi nell’attribuire ai cristiani l’interpolazione del testo, testo che anche nei manoscritti più attendibili della Settanta, nel Masoretico e nella Vulgata porta: “Il Signore regna” senza far alcun riferimento a legni, pali o croci.

 

Nel Salmo 16,10 un’esegesi profetica sulla resurrezione di Cristo fu possibile grazie, soprattutto, alla Settanta che tradusse il termine ebraico שחת (sepolcro) con διαφθοραν (corruzione). La traduzione classica divenne così “tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la corruzione”, influenzando profondamente anche il discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste (Atti 2,27-31).

 

Nel Salmo 40,6 il termine ebraico אזן (orecchio) fu tradotto dalla Settanta con σομα (corpo). La traduzione greca diventò Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato” invece di “Tu non gradisci né sacrificio né offerta; m'hai aperto gli orecchi”, aprendo la strada ad una famosa profezia sull’incarnazione di Cristo, molto affascinante per i primi cristiani ma sicuramente poco convincente per larga parte del popolo ebraico (Ebrei 10,5).

 

In Isaia 53,8 il termine ebraico  ורר (generazione), venne inteso come “nascita” invece che come “gruppo di persone della stessa età” producendo, grazie alla Settanta, una lettura messianica molto particolare: “la sua generazione chi potrà narrarla?” finì così per stravolgere il senso originale “tra quelli della sua generazione chi rifletté?”, aprendo il passo, già a partire dal Nuovo Testamento (vedasi Atti 8,33), ad innumerevoli e profonde riflessioni sull’originalità della generazione del Verbo di Dio.

 

Poiché il termine ebraico ילדתיך (generare) contenuto nel Salmo 110,3 era identico a quello contenuto nel Salmo 2,7, i Settanta resero legittimamente: “tu sei mio figlio, oggi ti ho generato” (Salmo 2,7) e “a te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato” (Salmo 110,3). [2] In seguito però le traduzioni di Aquila, Teodozione e Simmaco (II secolo d.C) e, molto più tardi, la vocalizzazione del testo intrapresa dai masoreti (X-XI secolo) resero impossibile la lettura accreditata dalla Settanta. Il verbo “generareילדתיך –una volta vocalizzato- si trasformò nel sostantivo “generazione” o “gioventù”. La traduzione del Salmo 110,3 diventò così: “dal seno dell'alba la tua gioventù viene a te come rugiada”, perdendo larga parte del fascino messianico lasciato intravedere dalla Settanta e dai Padri della Chiesa [3]

 

Un altro errore riguardò poi la traduzione dell’ebraico בר nel Salmo 2,12. Il termine בר (bar) si può infatti rendere con “figlio” solo nell’aramaico più recente, mentre nell’ebraico del tempo di Davide significava semplicemente “puro”. La traduzione corretta fu pertanto quella fornita da Gerolamo nella Vulgata “adorate pure” cioè “adorate con purezza” e non quella proposta dalla Settanta “Apprendete la disciplina” né tanto meno quella messianica oggi molto diffusa “Rendete onore al Figlio”.

 

Il testo ebraico originale era poi privo di vocali e senza punteggiatura, scritto probabilmente in caratteri aramaici e senza spazi evidenti tra le varie lettere. Molte confusioni furono probabilmente involontarie e vennero dalla confusione di lettere simili [4] o dalla fusione di due o più parole contigue. Un esempio famoso dovuto alla confusione delle lettere ebraiche fu Amos 1,6 dove la Settanta tradusse “deportazione di Salomone” invece di “deportazione di massa”. Un altro errore madornale della Settanta si trova in Amos 4,13 dove per la fusione di due lettere ebraiche il testo greco tradusse “Colui che rivela agli uomini il suo Messia” invece di “Colui che manifesta agli uomini il suo pensiero”.

 

Anche la costante pratica di sostituire il tetragramma יהוה con Κύριός (Kyrios), benché iniziata dai giudei alcuni secoli prima, fu interpretata dai rabbini come un tentativo cristiano di rimuovere dalle Sacre Scritture il nome di Dio, per accreditare la divinità di Gesù Cristo e per ridurre le problematiche sollevate dal monoteismo ebraico nei confronti del Verbo di Dio. Di fatto, già nel II secolo prima di Cristo la Settanta aveva tradotto il verbo ebraico נקב (naqab) che vuol dire bestemmiare con il verbo greco ονομαζω (onomazo) che vuol dire nominare (Levitico 24,16), finendo così per condannare come bestemmia anche la sola pronuncia del nome di Dio.

 

Non tutta la Bibbia dei Settanta si prestava però a sostenere il  messianesimo individuale e la lettura cristiana delle profezie. Girolamo sottolineò più volte che, in moltissimi punti, il testo ebraico era decisamente più affidabile del testo greco della Settanta. Degni di rilievo sono, ad esempio, i casi di:

 

 

 

Il mondo ebraico reagì comunque duramente alla lettura cristiana delle profezie e sconfessò la traduzione dei Settanta, che solo due secoli prima aveva mostrato di gradire. Nella riunione di Iamnia (90 dopo Cristo) gli ebrei fissarono il canone ufficiale della Bibbia, bocciando come eretici i libri contenuti nel Nuovo testamento e bollando come apocrifi alcuni libri scritti in lingua greca e contenuti solo nella versione dei Settanta.

 

Nacquero così numerose revisioni greche della Settanta, grazie all’opera di alcuni ebrei eruditi (Aquila, Teodozione e Simmaco), particolarmente versati nello studio delle Scritture e grandi conoscitori della lingua ebraica. Queste versioni, pur molto precise ed accurate, nascevano però con chiari intenti polemici anticristiani e risultavano realizzate da veri e propri apostati, cioè da uomini che avevano rinnegato Cristo per tornare all’ebraismo. San Gerolamo espresse concisamente le caratteristiche di queste versioni affermando che Aquila cercò di rendere parola per parola, Simmaco tentò piuttosto di dare il senso, mentre Teodozione non si scostò molto dalla Settanta.

 

 

 

L'ESAPLA DI ORIGENE

 

L'Esapla fu costruita da Origene (182-251) per approfondire la conoscenza delle Sacre Scritture, per consentire il confronto tra le più importanti versioni della Bibbia[5] e per favorire il dialogo con i rabbini ebrei (ingiustamente accusati dai cristiani di aver falsificato la Parola di Dio) [6].

 

Secondo Epifanio di Salamina (315-403)[7] essa conteneva su sei colonne ben sei distinte versioni del Vecchio Testamento (il testo ebraico, la trascrizione del testo ebraico in caratteri greci, le versioni di Aquila, di Simmaco, dei Settanta e di Teodozione), mentre secondo Eusebio di Cesarea (265-340) [8] l’Esapla conteneva ben sei versioni greche oltre a due colonne in ebraico (la Quinta e la Sesta).

 

Esisteva un’unica copia dell’Esapla composta da circa 50 volumi: andò interamente perduta dopo la distruzione della biblioteca di Cesarea, avvenuta nel 653 d. C. per opera degli invasori arabi. Dell’opera non esistono quindi copie ma solo testimonianze (soprattutto da parte di Eusebio di Cesarea e di Gerolamo) e piccoli frammenti dispersi negli scritti di alcuni Padri della Chiesa[9].

 

Le prime due colonne riportavano probabilmente[10] il tetragramma in ebraico (יהךה), le due successive riproducevano il Santo Nome in caratteri ebraici o paleoebraici, mentre nelle restanti due colonne il nome di Dio era quasi sicuramente traslitterato in caratteri greci (πιπι).

     

 

Aquila

 

Aquila[11] è conosciuto per essere stato un grande matematico, un valente architetto ed un profondo conoscitore delle Sacre Scritture. Di origini pagane, studiando l'Antico ed il Nuovo Testamento, si convertì giovane al cristianesimo ma, in età matura, abbandonò la fede per abbracciare l'ebraismo.   

 

Secondo Epifanio di Salamina (315-403) l'apostasia di Aquila sarebbe conseguente alla forte simpatia verso le arti magiche e l'astrologia (condannate dai cristiani ma segretamente coltivate dalla cabala ebraica), mentre secondo altri la scelta di Aquila sarebbe stata determinata dalla difficoltà di inquadrare la figura di Gesù Cristo nel monoteismo ebraico.

 

Originario del Ponto, visse tra il I° ed il  II° secolo e si occupò di grandi progetti. L'imperatore romano Adriano (col quale era probabilmente imparentato) gli commissionò un interessante studio per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme ma, per quanto è oggi dato di sapere, il lavoro non fu mai tradotto in pratica. Egli portò invece a termine, verso il 130 dopo Cristo, un'autorevole traduzione della Bibbia, di cui abbiamo notizie sia dai padri della chiesa che dalla tradizione ebraica. Aquila tradusse il Vecchio Testamento in greco e contrappose alla libertà ed alla creatività della Versione dei Settanta una fedeltà assoluta e talora un po' pedante al testo originale. La traduzione di Aquila, basata sul canone giudaico di Iamnia (90 dopo Cristo), fu comunque accolta positivamente dagli ambienti ebraici e venne spesso menzionata nel Talmud[12].  

 

Origene (185-254), Eusebio d'Emesa (295-360) e Gerolamo (347-420), pur criticando la versione di Aquila perché molto letterale e servile, ne apprezzarono l'esattezza scrupolosa. Ireneo (140-200) ed Eusebio di Cesarea (265-340) - pur citando Aquila per la traduzione di Proverbi 8,22 e di Salmo 45,6 - sottolinearono invece lo spirito critico di tale opera. Aquila aveva infatti sostituito la parola (χριστος) kristos con il sinonimo greco (ήλειμμένος) eleimmenos in vari punti chiave del Vecchio Testamento (Salmo 2,2; Salmo 44,8; Isaia 61,1), spesso citati dai cristiani per dimostrare che Gesù è il Cristo di Dio. La versione di Aquila è poi spesso ricordata anche perché - in alcuni manoscritti (Aq Burkitt 1897 e Aq Taylor 1900) - conserva il tetragramma in caratteri paleoebraici. L’unica preoccupazione di Aquila sembrò comunque quella di rispecchiare con assoluta esattezza il testo ebraico, parola per parola, con i suoi idiomi, le sue iperboli ed i suoi modi di dire. Egli cercò anche di mantenere nel testo greco lo stesso numero di parole, gli stessi tempi e modi verbali, le stesse costruzioni sintattiche presenti nel testo ufficiale ebraico. La versione risultò evidentemente sgrammaticata e astrusa ma costituì un calco fedele del testo ebraico: oggi perciò rimane un utile strumento per la ricostruzione del testo premasoretico.

 

L'imperatore Giustiniano I (482-565) proibì la diffusione dei libri del Talmud[13] perché ritenuti irriverenti nei confronti dei cristiani ma autorizzò la lettura della Bibbia di Aquila nelle sinagoghe. Le versioni greche di Aquila, Simmaco e Teodozione diventarono così per vari secoli i testi ufficiali dell'ebraismo, in chiara polemica con la versione dei Settanta, ormai recepita dalla chiesa come il più autorevole testo greco delle Sacre Scritture. Oggi della versione di Aquila sono purtroppo rimasti solo pochi frammenti, soprattutto dopo la stabilizzazione del testo ebraico da parte dei masoreti (Codice del Cairo, Codice di Aleppo, Codice di Leningrado), avvenuta verso l'anno mille.

 

 

Simmaco

 

Secondo Eusebio e Gerolamo, Simmaco sarebbe stato un ebionita[14] vissuto verso la fine del II° secolo dell'era cristiana. Epifanio ricorda, invece, Simmaco come un samaritano vissuto ai tempi dell’imperatore Severo e convertito al giudaismo. La Bibbia di Simmaco, purtroppo oggi scomparsa, fu da Gerolamo stimata per la chiarezza, la qualità letteraria e la capacità di rendere intelleggibili le espressioni ebraiche più oscure. Sempre secondo Gerolamo l’intento di Aquila era letterale (verbum de verbo exprimere), mentre Simmaco cercava di trasmettere soprattutto il senso della frase (sensus potius sequi). È pertanto possibile che la versione di Simmaco sia nata proprio per ovviare all’impressione di ridicolo, suscitata dalla Bibbia di Aquila soprattutto nei lettori che non avevano familiarità con l’ebraico, ed abbia tentato di  tradurre le Sacre Scritture in greco in modo comprensibile e scorrevole.

 

 

 

Teodozione

 

Secondo Ireneo, Teodozione sarebbe stato un proselito giudeo di Efeso, mentre secondo Gerolamo si tratterebbe di un ebionita vissuto nel I° secolo. Secondo Epifanio, invece, Teodozione sarebbe un apostata cristiano convertito (come Aquila) all'ebraismo dopo aver abbandonato la dottrina di Marcione. La Bibbia di Teodozione apporta solo lievi modifiche alla versione dei Settanta e costituisce, piuttosto che una vera e propria nuova versione dai testi originali, una revisione della Settanta sul testo ebraico. Teodozione evitò di tradurre in greco molti termini ebraici (e probabilmente anche il tetragramma), preferendo traslitterare in greco le parole ebraiche più difficili. Dell'opera di Teodozione è tuttora quasi integralmente conservato il libro del profeta Daniele, mentre rimangono ampie porzioni di Giobbe, Proverbi, Isaia, Geremia ed Ezechiele.

 

 


 

 



[1] Sull’ispirazione profetica della Settanta vedansi, ad esempio, le testimonianze autorevoli di Filone Giudeo, Vita di Mosé, II, 34; Ireneo, Contro le Eresie, III, 21;  Clemente Alessandrino, Stromata, I, 22; Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, V, 8; Agostino, Città di Dio, XVIII, 43. Sulla Settanta dati e pareri sono tuttora discordi. Molti studiosi (soprattutto cattolici ed ortodossi) nutrono il fondato sospetto che la Settanta avesse attinto da uno stadio redazionale molto antico ed autorevole, utilizzando versioni del testo ebraico precedenti al testo masoretico, stabilizzatosi ben mille anni più tardi. Secondo altri studiosi, è possibile che, nel periodo ellenistico, circolassero varie versioni del testo biblico, ugualmente accreditate ed originali: la Settanta sarebbe stata pertanto ricavata da un testo ebraico "diverso" da quello vocalizzato dai Masoreti nell’VIII secolo. Non mancano poi autorevoli esegeti (soprattutto ebrei e protestanti) convinti del fatto che solo il testo masoretico custodisca l’hebraica veritas, mentre la Settanta altro non sarebbe che una Bibbia mal tradotta, una specie di Targum, un’interpretazione libera, una versione dinamica, una parafrasi del testo biblico. Solo un numero limitato di esperti è infine oggi convinto del fatto che la Settanta costituisca la fonte testuale più attendibile: secondo costoro il testo masoretico risentirebbe di revisioni giudaizzanti, portate avanti con zelo meticoloso ed anticristiano soprattutto dopo l’opera di Aquila, Teodozione e Simmaco.

 

[2] L’applicazione  del Salmo 110,3 alla generazione del Figlio iniziò già nel II secolo dopo Cristo (Giustino, Dialogo con Trifone, 63 e Ireneo, Esposizione della predicazione apostolica, 43).

 

[3] Molti cristiani sospettarono (e tuttora sospettano) che le revisioni di Aquila, Teodozione e Simmaco e, soprattutto, la vocalizzazione dei masoreti mirassero volutamente ad indebolire la forza messianica del Salmo 110. In questo caso il dubbio sembra essere ragionevole, anche se, per amor del vero, occorre ricordare che perfino Gerolamo, quando tradusse il salterio direttamente dall’ebraico, rese il Salmo 110,3 con “populi tui spontanei erunt in die fortitudinis tuae in montibus sanctis quasi de vulva orietur tibi ros adulescentiae tuae” abbandonando la traduzione classica “tecum principium in die virtutis tuae in splendoribus sanctorum ex utero ante luciferum genui te” contenuta nella Vulgata.

 

[4] Ad esempio reshר   e daleth ד, beth ב e kaf כ, he ה e heth ח, nun נ e ghimel ג, mem finale ם e samech ס

 

[5] Girolamo, Gli Uomini Illustri, LIV.

 

[6] Giustino, Dialogo con Trifone, 71-73 e 84.

 

[7] Epifanio, De mensuris et ponderibus, XIX.

 

[8] Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 16.                                                                                                                              

 

[9] Vedasi F. Field, Origenis Hexaplorum: quae supersunt sive veterum interpretum graecorum in totus Vetus Testamentum fragmenta, Oxford University Press, 1875.

 

[10] Non mancano studiosi che sostengono la presenza del tetragramma in caratteri greci traslitterati nelle versioni di Aquila e Simmaco e l’esistenza di una molteplicità di opzioni all’interno della quinta colonna dedicata alla Settanta (caratteri greci  traslitterati, caratteri ebraici, caratteri paleoebraici, caratteri aramaici, Κύριός,  Κς soprassegnato, …).

 

[11] Epifanio ricorda Aquila nel libro De mensuris et ponderibus, XIV-XV (riprodotto da P. De Lagarde a Gottinga nel 1880). Non si tratta evidentemente di Aquila originario del Ponto, marito di Priscilla,  fabbricante di tende di cui si parla nel Nuovo Testamento (Atti 18,2; Atti 18,18; Atti 18,26; Rom 16,3): questi visse almeno una generazione prima. Probabilmente non si tratta neppure di Onkelos, famoso autore ebraico di un Targum sul Pentateuco: a parte la contemporaneità e la somiglianza tra i due nomi,  l'opera di Aquila e quella di Onkelos presentano comunque molti caratteri comuni e non poche somiglianze. Su Aquila vedasi, ad esempio, D. Barthélemy, Les Devanciers d'Aquila, VTS 10, Leyda, 1963 

 

[12] La tradizione rabbinica concorda con quella cristiana nel qualificare Aquila come un proselito ebreo, discepolo di rabbi Eliezer e di rabbi Joshua (o, secondo alcuni, di rabbi Aqiba). La sua traduzione delle Sacre Scritture venne accolta con enorme entusiasmo anche dai rappresentanti più ortodossi dell’ebraismo, che si congratularono con Aquila ricorrendo addirittura alle parole del Salmo 45 (Tu sei il più bello di tutti gli uomini). Vedasi, a tal proposito, Talmud di Gerusalemme, Megillah, I, 9-11.

 

[13] I rabbini sostengono che, oltre alla legge scritta, trasmessa da Dio a Mosè sul Monte Sinai, Mosè abbia ricevuto anche la sua interpretazione, o legge orale. Nei secoli la tradizione orale fu arricchita da rabbini, filosofi e pensatori. Quando fu  impossibile ritenerla oralmente venne trascritta nel Talmud, libro dottrinale che si compone di 6 parti, 63 libri e 524 capitoli e che da solo spiega completamente tutta la conoscenza e l'insegnamento del popolo ebreo.

 

[14] Degli ebioniti parla più volte Ireneo ricordando come tale setta giudaico-cristiana fosse molto ligia alle usanze ed alle leggi giudaiche, riconoscesse come ispirato solo il vangelo di Matteo e rigettasse in blocco tutti gli insegnamenti e le lettere di Paolo (Contro le eresie, I, 26). Sempre secondo Ireneo la comunità degli ebioniti rifiutava anche la nascita verginale di Cristo, non considerando Gesù figlio di Dio ma figlio di Giuseppe (Contro le eresie, III, 21). Degna di nota è anche la testimonianza di Girolamo, secondo il quale "Matteo, detto anche Levi, da pubblicano fattosi apostolo, fu il primo in Giudea a scrivere il Vangelo di Cristo nella lingua degli ebrei per quelli che si erano convertiti provenendo dal giudaismo …..lo stesso originale si trova tuttora nella biblioteca di Cesarea ….I nazarei che fanno uso di quel libro …. permisero anche a me di ricopiarlo" (Girolamo, Gli uomini illustri, III). La moderna critica testuale ha comunque avanzato non pochi dubbi sull'esistenza di un vangelo di Matteo in lingua aramaica: secondo molti Girolamo non ebbe modo di consultare il vero originale ma il cosiddetto "Vangelo apocrifo degli ebrei", documento custodito dalla setta giudaico-cristiana degli ebioniti. Epifanio di Salamina distinse però chiaramente tra gli ebioniti apostati e filo-giudaici ed i nazareni cattolici (Contro tutte le eresie, XXIX-XXX), sottolineando come i nazarei accettassero tutti i libri del Nuovo Testamento e fossero legati ad un Vangelo di Matteo in lingua ebraica, molto fedele, completo ed accurato, mentre il cosiddetto Vangelo secondo gli Ebrei degli ebioniti altro non fosse che una versione greca, mutilata e falsificata, del Vangelo secondo Matteo (Epifanio, Panarion, XXIX-XXX). Giustino martire parla poi di una setta giudaico-cristiana, osservante la legge di Mosé ma ancora ortodossa e tollerante nei confronti dei gentili e di una setta deviante fedelissima alla legge di Mosé ma caduta nell'apostasia e nell'intolleranza verso i gentili  (Dialogo con Trifone, XLVI-XLVIII). La stessa tesi di Giustino è confermata da Origene che ricorda come tra gli ebioniti esistessero profonde differenze: alcuni riconoscevano la nascita verginale di Cristo e la sua resurrezione, mentre altri vedevano in Cristo solo un comune mortale (Contro Celso, V, 61). Sulla primitiva redazione aramaica del Vangelo di Matteo esistono poi testimonianze autorevoli. Secondo Origene "Matteo pubblicò il suo scritto in lingua ebraica per i credenti venuti dal giudaismo" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 25). Ireneo poi afferma che "Matteo, fra gli ebrei nella loro lingua, compose un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la chiesa" (Ireneo, Contro le eresie, III). Papia di Gerapoli sostiene che "Matteo ordinò i detti del Signore in lingua ebraica" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24).  Secondo Eusebio di Cesarea, Matteo, dopo aver predicato la buona novella agli ebrei, compose nella lingua patria il proprio Vangelo, prima di andare a predicare presso altri popoli (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24). Eusebio di Cesarea riporta anche la testimonianza del filosofo  stoico Panteno che, convertitosi con grande entusiasmo al cristianesimo, decise di recarsi in India a predicare il Vangelo. Scoprì che il Vangelo di Matteo lo aveva preceduto, grazie all'opera dell'apostolo  Bartolomeo che aveva lasciato là l'opera di Matteo scritta in ebraico (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 10).