IL TETRAGRAMMA








IL TETRAGRAMMA NELLA BIBBIA EBRAICA



Il nome proprio di Dio יהךה è rappresentato in ebraico dalle quattro consonanti iod, he, vau, he e per questo è detto tet

 

 

 

 

 

 

IL NOME PROPRIO DI DIO 

 

 

Il nome proprio di Dio יהךה è rappresentato in ebraico dalle quattro consonanti iod, he, vau, he e per questo è detto tetragramma. La traslitterazione italiana è YHWH e la pronuncia più probabile Iahvé. Secondo alcuni tale nome sarebbe stato noto agli uomini fin dai tempi antichi di Enos, figlio di Set e nipote di Adamo (Genesi 4,26). Secondo altri il Santo Nome sarebbe stato invece rivelato per la prima volta a Mosé (Esodo 3,14 e Esodo 6,3) e avrebbe sostituito il precedente nome   אל שדי (El Shaddaj), manifestato ai patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe (Genesi 17,1).

 

Che l'espressione "nome di Jahvé avesse una valenza reale e non corrispondesse solo ad un semitismo impiegato per descrivere l'Essere Supremo sembra confermato da non pochi indizi significativi. Basti pensare al sacro timore di pronunciare il nome di Dio invano (Esodo 20,7), all'uso magico del tetragramma fatto dalla cabala ebraica , alla lode congiunta di Jahvé e del suo Nome Santo (Salmo 72, 28-29), alla benedizione solenne degli israeliti (Numeri 6,22-27) e alla consacrazione del tempio al nome di Jahvé da parte de re Salomone (1 Re 8,16). Il popolo e il luogo di culto furono oggetto di invocazion, di dedicazione e di consacrazione al Santo Nome ma non furono sicuramente idonei a contenere e ad ospitare la Divinità nella sua pienezza, come lo stesso Salomone onestamente riconobbe (1 Re 8,27). Secondo la tradizione ebraica la pronuncia del nome di Dio durò fino al tempo di Simeone il Giusto che fu, secondo Mosé Maimonide, contemporaneo di Alessandro Magno. In seguito, sempre secondo Maimonide, l’uso del nome divino venne conservato dai Sommi Sacerdoti solo all’interno del tempio di Gerusalemme per la benedizione solenne nel giorno dell’espiazione. Mosé Maimonide sostenne anche che il tetragramma fu ed è l’unico nome proprio di Dio, originale, distintivo ed esclusivo. Altri nomi come Elohim, Adonai, Shaddaj deriverebbero da qualità, da azioni e da attributi della divinità, mentre il tetragramma sarebbe l’unico nome in grado di caratterizzare in modo univoco ed inequivocabile la natura e l’essenza di Dio [1].

 

 

 

 

SIGNIFICATO DEL TETRAGRAMMA

 

 

Yahweh deriva probabilmente da una forma ebraica arcaica del verbo essere e potrebbe voler dire: "Colui che è", "Colui che esiste", "Colui che fa esistere", "Colui che mostrerà di esistere", "L'Esistente", "L'Essere", “L’Eterno”.  Alcuni (Targum di Jonathan e Targum di Gerusalemme) sono convinti che YHWH sia una forma causativa imperfetta attiva (hiphil) del verbo essere (hayah): in tal caso la traduzione di Esodo 3,14 sarebbe “Colui che porta all’esistenza”, “Colui che realizza la promessa”, “Colui che fa essere”, “Il Creatore”. Secondo altri YHWH sarebbe invece una forma semplice imperfetta attiva (qal): la traduzione di Esodo 3,14 dovrebbe allora essere “Io sono quello che sono”  (Vulgata), “Io sono colui che è” (Settanta), “Io sarò quello che sarò” (Aquila e Teodozione), “L’Eterno” (Versione Arabica) [2]. Degna di nota è anche la testimonianza di Clemente Alessandrino (150-215 d. C.): lo scrittore cristiano ricorda infatti come il Santo Nome fosse composto di quattro lettere ebraiche, fosse riprodotto solo nel Sancta Sanctorum del tempio di Gerusalemme, si pronunciasse “Jahoué” e significasse “Colui che è e che sarà[3] [4].

 

 

 

 

PRONUNCIA DEL TETRAGRAMMA

 

 

Nel VII-VIII secolo d.C., quando i masoreti introdussero le vocali nei libri biblici per renderne più sicura la tradizione testuale, nel tetragramma furono inserite le vocali di “Adonai”, dando luogo al nome Jehowah, nome che sta all'origine della forma italianizzata Geova. La forma Jehowah o Ieoa o Iova, abbastanza popolare fino all’inizio del XX secolo, è però contraddetta dalla pronuncia samaritana Jaoue, chiaramente attestata da un gran numero di padri della chiesa, dai papiri di Elefantina [5] e dai papiri magici della cabala ebraica.

 

Di fatto, le forme Jahoh, Jahoué e Jabé sono sostenute da antichi ed autorevoli testimoni come

 

·         Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, I, 94;

·         Ireneo, Contro le Eresie, II, XXXV, 3;

·         Clemente Alessandrino, Stromata, V, 6;

·         Epifanio di Salamina, Contro le Eresie, I, 3, 40;

·         Teodoreto di Ciro, Questioni sull'Esodo, XV;

·         Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, II, 1.

 

L'antica presenza del tetragramma nel testo ebraico è confermata da Gerolamo che dopo aver spiegato i dieci nomi ebraici di Dio (El, Elohim, Elôah, Eliôn, Sabaôth, Asher yeheyeh, Adonai, Jah, JHVH, Shaddai), sottolineò la totale incomprensione del senso e della pronuncia del tetragramma, ricordando come il nono [nome di Dio] fosse composto di quattro lettere, fosse considerato ineffabile e si scrivesse con le lettere iod, he, vau, he; alcuni però non lo avevano decifrato a motivo della rassomiglianza dei segni e, quando lo trovavano nei libri greci, lo trascrivevano in caratteri greci (π ι π ι) e lo leggevano "PIPI" (Lettera a Marcella, XXV e A Damaso, XVIII, A). A proposito del tetragramma, Girolamo scrisse anche che "troviamo il nome del Signore di quattro lettere in alcuni libri greci scritti fino ad oggi negli antichi caratteri" (nomen Domini tetragrammaton in quibusdam graecis voluminibus usque hodie antiquis expressum litteris invenimus) (Prefazione ai libri dei Re). Lo stesso Gerolamo (o, secondo alcuni, uno Pseudo Gerolamo) osservò pure che "presso gli ebrei il Nome di Dio è formato delle quattro lettere jod, he, vau, he, che suonano come il nome proprio divino, che si può leggere Jaho ed è considerato dagli ebrei impronunciabile" (nomen Domini apud Hebraeos quatuor litterarum est, jod, he, vau, he: quod proprie Dei vocabulum sonat et legi potest Jaho, et Hebraei, id est, ineffabile opinatur). (Breviarium in Psalmos, Salmo VIII).

 

Le vocali usate per pronunciare il Sacro Nome erano poi sconosciute dalla tradizione ebraica già ai tempi di Mosé Maimonide (1135-1204 d. C.) che ricorda come: “Nella benedizione sacerdotale il nome di Dio doveva essere pronunciato così come è scritto nella forma di Tetragramma, cioè di nome proprio. Non è però noto a nessuno come il nome fosse pronunciato, quali vocali fossero combinate alle consonanti e se alcune delle lettere capaci di duplicazione dovessero ricevere un dagesh[6] [7].  Lo stesso Mosé Maimonide negò la possibilità di leggere il tetragramma “secondo le sue lettere”, cioè vocalizzando le consonanti. A tal proposito il filosofo ebreo affermò che: “Nessun altro nome si chiama nome proprio (cioè shem ha-meforash) se non questo Tetragramma, che è scritto ma che non si legge come viene scritto” [8].

 

La pronuncia Jehovah è comunque ancora oggi difesa da un limitato numero di studiosi come Gerard Gertoux [9]. Il lavoro dello studioso francese è basato sull'ipotesi che nell'ebraico biblico alcune consonanti potessero essere anche usate come vocali (un po' come la V latina che può suonare sia V sia U). Richiamando l'autorevole testimonianza di Giuseppe Flavio che spiegò come il tetragramma si componesse di 4 vocali (vedasi Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, V, 5, 7), Gertoux ha ipotizzato che "iod", "heh" e "waw" potessero suonare come "i", "e", "o". L'eventualità che "heh" in termine di parola potesse essere vocalizzata "a" invece che "e" permetterebbe poi di giustificare sia la pronuncia "Ieoa" sia l'accreditata lettura Yah della forma abbreviata YH. Il contributo fornito da Gertoux è sicuramente originale ed interessante, anche perché riprende alcune antiche argomentazioni già elaborate e proposte da Giuda Levita (1075-1141), da Papa Innocenzo III (1198-1216), dal frate domenicano Raimondo Marti (1215-1285) e dal filosofo Nicola Cusano (1401-1464).[10] L'accettazione acritica delle conclusioni a cui giunge lo studioso francese rimane comunque piuttosto difficile. Nell'ebraico antico la vocalizzazione di alcune consonanti non è per nulla sicura (vista la successiva introduzione delle vocali da parte dai masoreti) e le pronunce attribuite ad alcune consonanti come matres lectionis non sono infatti né certe né definitive.

 

 

 

 

IL TETRAGRAMMA NELLA TRADIZIONE EBRAICA

 

 

Nell'ebraismo antico, chiamare qualcuno per nome significava conoscere la realtà più profonda del suo essere, era come tenerlo in pugno, esercitare un potere quasi magico su di lui. Per questa ragione, il Santo Nome di Dio, che indica la sua stessa essenza, era considerato impronunciabile. I rabbini tendevano pertanto a leggere אדני (Adonay) tutte le volte che trovavano יהךה (YHWH).

 

Solo il Sommo sacerdote, nel Tempio di Gerusalemme, poteva pronunciare il nome proprio di Dio nelle benedizioni solenni (Numeri 6,24-27; Siracide 50, 20) e nel giorno del Kippur o dell'espiazione (Levitico 16), quando faceva la triplice confessione dei peccati per sé, per i sacerdoti e per la comunità. A questo riguardo il Talmud dice: ""Quando i sacerdoti e il popolo che stavano nell’atrio udivano il nome glorioso e venerato pronunciato liberamente dalla bocca del Sommo Sacerdote in santità e purezza, piegavano le ginocchia, si prostravano, cadevano sulla loro faccia ed esclamavano: "Benedetto il suo nome glorioso e sovrano per sempre in eterno" [11].

 

Del resto anche Gesù, benché avesse sicuramente fatto conoscere il nome di Dio ai suoi discepoli (Giovanni 17,6 e 17,26) ed insegnato a santificare il nome di Dio (Matteo 6,9), preferiva rivolgersi a Dio chiamandolo Padre. Inoltre, occorre tener presente che quando la Bibbia parla di “nome” o di "anima" si riferisce spesso alla persona nella sua totalità (Mosè Maimonide, Guida dei Perplessi, I, 64). Cristo, comunque, evitò più volte di pronunziare il nome divino: al sommo sacerdote che gli chiedeva se fosse lui "il Cristo, il Figlio del Benedetto", Gesù rispose: "vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza" (Matteo 26,63-64; Marco 14,61-62;  Luca 22,69), invece che "alla destra di YHWH" (Salmo 110,1 e Dn 7,14), adeguandosi all’uso ebraico di astenersi dalla pronuncia del nome proprio di Dio, come del resto aveva fatto il sommo sacerdote che lo interrogava. La notte prima della sua morte non troviamo poi un solo caso in cui Cristo faccia uso del Santo Nome. Gesù adoperò costantemente l’appellativo "Padre" nelle sue preghiere, nella preghiera del Padre Nostro e nell'orto dei Getsemani. Anche sulla croce, in punto di morte, non invocò il nome di YHWH ma disse: "Mio Dio, Mio Dio perché mi hai abbandonato?" e "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito".

 

 

 

 

IL TETRAGRAMMA NEL PAPIRO DI NASH

 

 

Il papiro di Nash misura 7,5 X 12,5 centimetri, è costituito da soli 4 fragmenti di 24 linee ed è scritto in ebraico. Fu chiamato così da W. L. Nash, segretario della Society of Biblical Archaeology, che nel 1902 lo acquistò da un mercante egiziano. Il papiro fu reso pubblico l’anno successivo e venne presentato alla Cambridge University Library, dove è tuttora conservato. Si tratta molto probabilmente del più antico papiro ebraico mai ritrovato e potrebbe risalire al II secolo avanti Cristo. Contiene parti di Esodo 20 (con larghi stralci del Decalogo) ed alcuni versetti di Deuteronomio 6 (con varie ripetizioni dello Shema). Il tetragramma è visibile più volte e, nell’ultima riga del manoscritto, è addirittura ripetuto due volte (Ascolta Israele, YHWH è Dio, YHWH è uno). Il Santo Nome יהךה ricorre poi in altri 6 punti del papiro e solo una volta è privo dello iod iniziale. Il papiro di Nash costituisce una evidente testimonianza della presenza del tetragramma nel testo pre-masoretico.

 

 

 

 

 

IL TETRAGRAMMA NELLE TRADUZIONI PIÙ FAMOSE

 

 

Il tetragramma è stato tradotto con

 

·         Jehovah: dalla Darby Holy Translation (1890), dalla Young's Literal Translation (1898), dall’American Standard Version (1901), dalla Reina Valera (1909) e dalla New World Translation (1984);

 

·         Jahvé o Yahweh dalla Luzzi originale (1924), dalla Nardoni (varie edizioni), dalla Bibbia cattolica del Garofalo (1960), dalla Bibbia UTET (1963-73), dalla Jerusalem Bible (1966), dalla New English Bible (1970) e dalla New Jerusalem Bible (1985);

 

·         LORD maiuscoletto (secondo la tradizione orale ebraica che leggeva Adonaj tutte le volte che incontrava il tetragramma) dalla King James (1601), dalla Hebrew English Bible (1917), dalla Revised Standard Version (1952), dalla New American Standard Bible (1971), dalla New International Version (1978), dalla New King James (1982), dalla cattolica New American Bible (1970), dalla New Revised Standard Version (1989) e dalla English Standard Version (2001). 

 

·         Eterno dalla Riveduta (1924) e dalla Nuova Diodati (1991);

 

·         SIGNORE maiuscoletto dalla Nuova Riveduta (1994);

 

·         Signore dalle più recenti versioni cattoliche italiane: sia la Bibbia CEI (1974) sia la Nuovissima Versione delle Paoline (1984) traducono con “Signore” indifferentemente Jahvé, Adonaj e Adon, introducendo così qualche inevitabile bisticcio di parole (vedansi, ad esempio, Salmo 68,5; Salmo 83,19; Salmo 110,1; Amos 5,6).

 

Il tetragramma è presente circa 6800 volte nel testo ebraico dell’Antico Testamento ed esistono testimonianze della presenza del Santo Nome in un numero limitato di copie della Versione Greca dei Settanta. Manca invece in tutte le oltre 5000 copie del Nuovo Testamento ed è assente in oltre 2000 papiri e manoscritti greci dell’Antico Testamento.

 

 Reinserire il tetragramma nelle traduzioni dell’Antico Testamento ha sicuramente un valore logico e religioso (Esodo 3,15; Salmo 83,19; Salmo 144,15; Proverbi 18,10; Isaia 12,4; Geremia 23,27; Malachia 1,11; Malachia 3,20; Matteo 6,9; Atti 15,14): il fatto che Dio abbia un nome proprio permette di rivalutare tutta la rivelazione ebraica e cristiana, di evitare le tentazioni di un astratto deismo e di scadere nel culto di un anonimo, lontano ed impersonale “Essere Supremo”.  Sia la Scrittura sia la storia dell’umanità testimoniano  infatti la presenza continua di un Dio (Salmo 55,22 e Salmo 144,15) che interviene personalmente con sollecitudine, con forza e con  mano potente a favore del suo popolo e dei suoi fedeli.

 

Inserire il tetragramma nelle traduzioni del Nuovo Testamento  (la New World Translation dei testimoni di Geova ha inserito nel Nuovo Testamento “Jehovah” ben 237 volte, sostituendo il Santo Nome a Κμριος in moltissimi versetti delle scritture greche-cristiane, mentre la Bibbia di Andrè Chouraqui si è, più prudentemente, limitata ad inserire il Santo Nome solo nelle citazioni tratte dal Vecchio Testamento) costituisce invece un vero e proprio “emendamento congetturale[12] che, per poter essere accettato dalla logica e dalla critica testuale, dovrebbe essere suffragato da prove, ragionamenti, testimonianze, argomenti e manoscritti.

 

 

 

 

APPROFONDIMENTI

 

 

 

 Il Tetragramma (Enciclopedia Wikipedia)

Il Tetragramma (Enciclopedia Cattolica)

Il Tetragramma (Enciclopedia Ebraica)

 

Jahvé: un nome ineffabile

Il Tetragramma nella Bibbia dei Settanta

Il Tetragramma nel Nuovo Testamento

Il Tetragramma in Aquila, Teodozione e Simmaco

Il Tetragramma nella tradizione cristiana

 

 

 

 

 

 

 



[1] Mosé Maimonide, Guida dei perplessi, I, 61. Le convinzioni di Mosé Maimonide sul Santo Nome coincidono con gli insegnamenti della tradizione cristiana. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda infatti che: 203 Dio si è rivelato a Israele, suo popolo, facendogli conoscere il suo Nome. Il nome esprime l'essenza, l'identità della persona e il senso della sua vita. Dio ha un nome. Non è una forza anonima. Svelare il proprio nome, è farsi conoscere agli altri; in qualche modo è consegnare se stesso rendendosi accessibile, capace d'essere conosciuto più intimamente e di essere chiamato personalmente. 204 Dio si è rivelato al suo popolo progressivamente e sotto diversi nomi; ma la rivelazione del Nome divino fatta a Mosè nella teofania del roveto ardente, alle soglie dell'Esodo e dell'Alleanza del Sinai, si è mostrata come la rivelazione fondamentale per l'Antica e la Nuova Alleanza. 205 Dio chiama Mosè dal mezzo di un roveto che brucia senza consumarsi, e gli dice: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” ( Es 3,6 ). Dio è il Dio dei padri, colui che aveva chiamato e guidato i patriarchi nelle loro peregrinazioni. E' il Dio fedele e compassionevole che si ricorda di loro e delle sue promesse; egli viene per liberare i loro discendenti dalla schiavitù. Egli è il Dio che, al di là dello spazio e del tempo, lo può e lo vuole e che, per questo disegno, metterà in atto la sua onnipotenza. Mosè disse a Dio: “Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi. . . Questo è il mio nome per sempre: questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione” ( Es 3,13-15 ). 206 Rivelando il suo Nome misterioso di YHWH, “Io sono colui che E'” oppure “Io sono colui che Sono” o anche “Io sono chi Io sono”, Dio dice chi egli è e con quale nome lo si deve chiamare. Questo Nome divino è misterioso come Dio è Mistero. Ad un tempo è un Nome rivelato e quasi il rifiuto di un nome; proprio per questo esprime, come meglio non si potrebbe, la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che possiamo comprendere o dire: egli è il “Dio nascosto” ( Is 45,15 ), il suo Nome è ineffabile, [Cf Gdc 13,18 ] ed è il Dio che si fa vicino agli uomini. 207 Rivelando il suo Nome, Dio rivela al tempo stesso la sua fedeltà che è da sempre e per sempre, valida per il passato (Io sono il Dio dei tuoi padri”, Es 3,6 ), come per l'avvenire (Io sarò con te”, Es 3,12 ). Dio che rivela il suo Nome come “Io sono” si rivela come il Dio che è sempre là, presente accanto al suo popolo per salvarlo.... 2142 Il secondo comandamento prescrive di rispettare il nome del Signore. Come il primo comandamento, deriva dalla virtù della religione e regola in particolare il nostro uso della parola a proposito delle cose sante. 2143 Tra tutte le parole della Rivelazione ve ne è una, singolare, che è la rivelazione del nome di Dio, che egli svela a coloro che credono in lui; egli si rivela ad essi nel suo Mistero personale. Il dono del nome appartiene all'ordine della confidenza e dell'intimità. “Il nome del Signore è santo”. Per questo l'uomo non può abusarne. Lo deve custodire nella memoria in un silenzio di adorazione piena d'amore [Cf Zc 2,17 ]. Non lo inserirà tra le sue parole, se non per benedirlo, lodarlo e glorificarlo [Cf Sal 29,2; Sal 96,2; Sal 113,1-2 ]. 2144 Il rispetto per il nome di Dio esprime quello dovuto al suo stesso Mistero e a tutta la realtà sacra da esso evocata. Il senso del sacro fa parte della virtù della religione.

 

[2] Nell’ebraico antico esistevano tre forme verbali: la forma semplice, la forma intensiva e la forma causativa.  La forma semplice poteva essere attiva (qal) o passiva (niphal). Anche la forma causativa si divideva in attiva (hiphil) e passiva (hophel). Per la forma intensiva o enfatica esisteva invece l’attivo (piel), il passivo (pual) ed il riflessivo (hithpael). Il modo indicativo conosceva solo due tempi: il perfetto e l'imperfetto. Il tempo perfetto indicava un'azione completa e finita, mentre il tempo imperfetto poteva indicare sia il presente che il futuro. Per Esodo 3,14, il tempo imperfetto ebraico rende pertanto legittime sia le traduzioni al presente della Settanta e della Vulgata "Io sono colui che è" e "Io sono quello che sono" sia le traduzioni al futuro di Aquila e Teodozione "Io sarò quello che sarò" o "Io mostrerò di essere quello che mostrerò di essere".

 

[3] Clemente Alessandrino, Stromata, V, 6.

 

[4] Dio rivela a Mosè la missione che intende affidargli: deve sottrarre gli israeliti dalla schiavitù egizia e condurli alla terra promessa. Dio gli promette anche il suo potente aiuto nel compimento di questa missione: «Io sarò con te». Allora Mosè si rivolge a Dio: «Ecco, io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli israeliti: Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,12-14). Così dunque il Dio della nostra fede - il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe - rivela il suo nome. Esso suona «Io sono colui che sono!». Secondo la tradizione di Israele, il nome esprime l'essenza. La Sacra Scrittura dà a Dio diversi «nomi»; tra questi: «Signore» (per esempio Sap 1,1), «Amore» (1Gv 4,16), «Compassionevole» (per esempio Sal 84,15), «Fedele» (1Cor 1,9), «Santo» (Is 6,3). Ma il nome che Mosè ha udito dal profondo del roveto ardente (יהךה) costituisce quasi la radice di tutti gli altri. Colui che è dice l'essenza stessa di Dio, che è l'Essere per se stesso, l'Essere sussistente, come precisano i teologi e i filosofi. Dinanzi a lui non possiamo non prosternarci ed adorare. (Giovanni Paolo II, Udienza generale, 31 luglio 1985)

 

[5] Elefantina è un’isola nel Nilo, situata di fronte ad Assuan, 10 km a nord della prima cateratta e 857 a sud del Cairo. Ha una lunghezza massima di 1.300 m, una larghezza di 400 m e una superficie di 35 ettari. Capoluogo di provincia, controllava la strada diretta verso la Nubia. Per la sua posizione strategica fu sede nell’antichità di guarnigioni militari egizie e anche di mercenari stranieri. Durante la XXVI dinastia saitica, sotto Psammetico I (663-609) o II (594-588) vi si stabilì una colonia militare giudaica, che vi restò fino al faraone Amirtea (404-398). Tra il 1898 e il 1904 apparvero sul mercato papiri in lingua aramaica provenienti da quella regione. Tra il 1906 e il 1909 furono fatti scavi dai quali vennero alla luce numerosi papiri e ostraca (cocci con scritte) riguardanti la colonia giudaica, che contengono lettere, liste di nomi, documenti giuridici privati e pubblici, testi ufficia li e testi letterari, come le parole di Ahikar e l’Iscrizione di Behistun. Dal materiale ritrovato risulta che gli ebrei dislocati in una località così remota conservavano i loro nomi teofori, le loro leggi e costumi. Adoravano Jhwh con il nome di Jaho, ma accanto a lui erano venerate altre divinità, soprattutto Anat, figura femminile vicina a Jaho. La comunità era retta da un consiglio di cinque membri, disponeva di sacerdoti e osservava la circoncisione, la Pasqua, il sabato, il digiuno e la purità rituale. Inoltre offriva l’olocausto e la maggior parte dei sacrifici in un tempio elevato in onore di Jaho molto tempo prima di Cambise (525 a.C.), in evidente contrasto con la legislazione sull’unità del tempio introdotta dalla riforma religiosa di Giosia (622 a.C.). Nel 411 il tempio venne distrutto per opera dei sacerdoti di Khnoum, in assenza di Arsham, governatore persiano dell’Alto Egitto. Tre anni dopo Iedoniah ed i sacerdoti ebrei di Elefantina scrissero a Bagohi, governatore persiano della Giudea per protestare contro questo fatto chiedendo  di poter ricostruire il tempio, cosa che avverrà dopo alcuni anni. L’isola, che fu visitata e descritta da Erodoto, conserva alcune antiche vestigia, come il porto romano, le rovine del tempio di Khnoum, dio egizio della cataratta, e il Nilometro, scala graduata che serviva a misurare la crescita del fiume (A. Sacchi, Cos’è la Bibbia, pp. 35-36, Edizioni Paoline, 1999)

 

[6] Vedasi Moreh Nebukim (Guida dei perplessi), I, 62.

 

[7] Un punto posto nel corpo della lettera, chiamato dagesh, serve a distinguere l'intensità della pronuncia o il rafforzamento del suono (geminazione) delle consonanti ebraiche.

 

[8]  Vedasi Mosé Maimonide, La Guida Dei Perplessi, a cura di M. Zonta, Torino, Utet, 2003, LXI, pag. 223 ed anche Mosé Maimonide, The Guide For The Perplexed, translated from the original arabic text by M. Friedlander, 1904, second edition, LXI.

 

[9] Si veda, ad esempio, G.Gertoux, Un Nom Encens, Parigi 1999. (Sul web è altresì possibile consultare  G.Gertoux, Paradox of the anonymous name e G.Gertoux, Un Nome eccellente).

 

[10] Sulla possibile vocalizzazione delle consonanti “alef”, “he”, “jod”, “vau” vedasi Giuda Levita, Il Re dei Kazari, libro IV; Innocenzo III, Sermones sanctis, Sermo IV; Nicola Cusano, Opera Omnia, Sermo XLVIII; Pietro Galatino, De Arcanis Catholicae Veritatis, Libro II; Raimondo Marti, Purgio Fidei, Capitolo III.

 

[11] Talmud, Yoma, VI, 2.

 

[12] Quando l’unica lezione conservata o tutte le varianti risultano assurde o incomprensibili si propone, a volte, una correzione che non è attestata in nessun testimone del testo. Questo metodo (detto emendamento congetturale) è giudicato essenziale nella ricostruzione dei testi degli autori classici, anche perché mancano spesso testimonianze diverse capaci di fornire lezioni alternative. Tuttavia si tratta di un metodo abbastanza rischioso, perché quella che è considerata come un’anomalia può essere sì il risultato di una corruzione nella trasmissione del testo, ma può anche essere stata voluta dall’autore stesso. Quindi prima di ammettere una congettura bisognerebbe conoscere talmente bene lo stile dell’autore da poter escludere con certezza che l’anomalia corrisponda in realtà a una sua scelta intenzionale. Per quanto riguarda il testo biblico il numero di testimonianze esistenti è talmente grande che la necessità di ricorrere all’emendazione congetturale è assai ridotta (A. Sacchi, Cos’è la Bibbia, pag. 80, Edizioni Paoline, 1999).