IMMAGINE DEL DIO INVISIBILE

ANGELO DI JAHVE'?







COLOSSESI 1,15 e EBREI 1,3



 

IMMAGINE DI DIO IMMAGINE DEL DIO INVISIBILE

 

 

Nessuno ha mai veduto il Padre (Esodo 33,20; 1 Timoteo 6,16; 1 Giovanni 4,12): è stato proprio il Figlio Unigenito a rivelarlo (Giovanni 1,18 e Giovanni 6,46). Chi ha visto il Figlio ha infatti visto il Padre (Giovanni 14,9), perché il Figlio è nel Padre ed il Padre è nel Figlio (Giovanni 14,11) e i due sono una cosa sola (Giovanni 10,30).  L’uomo fu fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,26), mentre Gesù Cristo è la vera immagine di Dio nella carne [1], perché sul volto di Cristo risplende la gloria di Dio (2 Corinzi 4,6) ed in Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Colossesi 2,9).  Tutta l’umanità è quindi chiamata ad essere conforme all’immagine del Figlio di Dio (Romani 8,29). Il Figlio è infatti εικων cioè immagine nella carne del Dio invisibile (Colossesi 1,15 e 2 Corinzi 4,4). Viene detto απαυγασμα cioè irraggiamento, splendore, riflesso o riverbero della gloria del Padre ed è anche descritto come χαρακτηρ cioè impronta nella carne della sostanza o essenza (υποστασεως) del Padre stesso (Ebrei 1,3) [2].

 

Due verità, in apparenza contraddittorie, sono insegnate da tutta la Scrittura. Dio è invisibile, inaccessibile e non si è mai manifestato agli uomini: nessuno ha mai visto Dio (Giovanni 1,18), nessuno può vederlo e continuare a vivere (Esodo 33,20). D’altra parte, la Bibbia contiene la narrazione di diverse teofanie o apparizioni di Dio ai suoi fedeli (Genesi 18,22; Genesi 32,28; Esodo 3,1-6; Deuteronomio 34,10; Giudici 2,1; Giudici 6; Giudici 13,22; Isaia 6,5). Questa apparente contraddizione è stata risolta mediante la manifestazione di un essere misterioso chiamato “l’Angelo di Jahvé” (Genesi 22,15) o “ l’Angelo della sua faccia” (Isaia 63,9) [3] o “l’Angelo dell’Alleanza” (Malachia 3,1) o “l’Angelo su cui è il nome di Jahvé” (Esodo 23,20-21) [4]. Proprio perché nessuno ha mai veduto il Padre, è stata formulata l'ipotesi che il Figlio, prima dell’incarnazione, possa essersi manifestato agli uomini sotto le sembianze dell'angelo di YHWH (Genesi 16,7; Esodo 23,20; Giudici 13,18-22; Giudici 6,22-23; Zaccaria 1,11; Malachia 3,1; Matteo 1,20; Atti 7,38).

 

Nell'Antico Testamento, alla creazione, esisteva già la Sapienza di Dio (Proverbi 8) e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque (Genesi 1,3): non si trattava di dei minori, di angeli, di arcangeli, di messaggeri o di rappresentanti ma di parti integranti di Jahvé (e nessun ebreo ci ha mai trovato niente di strano). Nel libro dei Salmi sta poi scritto: “Dalla parola (“dabar” = λογος) di Jahvé furono fatti i cieli, dal soffio (“ruah” = πνευμα) della sua bocca ogni loro schiera” (Salmo 33,6).

 

Nel Targum Palestinese è quindi spesso menzionata la Parola di Dio che vive, parla ed agisce (“dabar” o “memra”) ma dal contesto delle varie frasi pare che l'espressione fosse solo un espediente per sostituire o parafrasare il santo nome di Jahvé. Per la tradizione giudaica la parola di Dio e lo spirito di Dio altro non erano che emanazioni di Jahvé stesso, senza che la cosa avesse particolare valenza filosofica e speculativa.

 

Filone Giudeo (20 a.C. - 50 d.C.) risentì invece sia della tradizione giudaica sia della speculazione ellenistica secondo cui il Logos era il demiurgo dell'universo, il principio che anima e regola il mondo, la forza irresistibile che conduce la creazione e le creature ad un fine comune. Filone formulò anche l'ipotesi che la Parola di Dio potesse essere l'angelo di Jahvé.

 

Secondo alcune tradizioni ebraiche infatti l’angelo di Jahvé sarebbe stato “Jahoel”, un vero e proprio angelo, superiore all’Arcangelo Michele (Daniele 10,13), distinto da Dio, dotato di poteri divini e portante su di sé il nome di Jahvé-El. A tal proposito vedasi, ad esempio, il libro apocrifo Apocalisse di Abramo, soprattutto al capitolo decimo.

 

Nella Settanta l’Angelo di Jahvé è chiamato Angelo del Signore (αγγελος κμριου). Nel discorso del diacono Stefano emerge poi che l’ Angelo apparso nel roveto ardente (Atti 7,30-38) è l'Angelo di Jahvé ed è chiaramente distinto da Jahvé stesso (Atti 7,35). Nel Nuovo Testamento, però, l'identificazione dell'Angelo del Signore con l'Angelo di Jahvé non è sempre possibile: αγγελος κμριου è infatti quasi sempre usato senza articolo e, per essere precisi, tale espressione andrebbe tradotta in senso indeterminato con "[un] Angelo del Signore". Prova ne è il fatto che, nelle Scritture Greche Cristiane, un Angelo del Signore apparso a Zaccaria (Luca 1,11) si qualificò con il nome di Gabriele (Luca 1,19), mentre in molti altri punti l'espressione rimase generica (Matteo 1,20; Matteo 2,13; Matteo 28,2; Luca 2,9; Atti 5,19; Atti 8,22; Atti 12,7; Atti 12,23).

 

L’ipotesi che il Logos giovanneo e l’Angelo di Jahvé fossero la stessa persona riscosse un certo successo nel II secolo soprattutto come strumento di dialogo con la cultura greca ed ebraica, ma venne in seguito abbandonata, vista la fragilità delle argomentazioni addotte e considerate le gravi problematiche emerse. Oggi è ripresa e sostenuta da alcune chiese protestanti in netta polemica con le letture unitarie, antitrinitarie e razionaliste. Di fatto, alcuni Padri della Chiesa furono convinti che nessuno avesse visto Dio Padre ma che l’Angelo di Jahvé, manifestatosi ai patriarchi ed ai profeti, altro non fosse che il Figlio di Dio, cioè la Parola di Dio. A tal proposito vedansi, ad esempio:

 

  • Giustino, Dialogo con Trifone; LVI-LX;
  • Ireneo, Contro le Eresie, IV, 20, 7;
  • Tertulliano, Contro Prassea, XV-XVI;
  • Teofilo, Ad Autolico, II, 22;
  • Novaziano, La Trinità, XVIII-XX;
  • Ilario, La Trinità, IV, 23-31.

 

Secondo Giustino Dio ha generato da se stesso una potenza razionale che lo Spirito Santo chiama ora Gloria del Signore, ora Figlio, ora Sapienza, ora Angelo, ora Dio, ora Signore e che definì se stessa come Capo dell’esercito del Signore, quando apparve in forma umana a Giosué (Giustino Martire, Dialogo con Trifone, 61, 1). Sempre secondo Giustino è stato più volte dimostrato……. che il Cristo, che era Signore e Dio Figlio di Dio e che già prima si era manifestato in potenza come uomo e come angelo, è apparso anche nello splendore del fuoco, come, ad esempio, nel roveto e in occasione del giudizio su Sodoma….questa potenza è indivisibile ed inseparabile dal Padre, così come la luce del sole sulla terra è indivisibile ed inseparabile dal sole che è in cielo…si tratta di una potenza generata dal Padre con la sua forza e volontà ma non per amputazione, come se l’essenza del Padre si fosse suddivisa, come succede per tutte le altre cose che, una volta divise e tagliate, non sono più le stesse di prima ….un esempio è quello del fuoco che vediamo appiccare altri fuochi: dal primo se ne possono accendere numerosi altri senza che esso risulti sminuito, ma rimanendo sempre lo stesso (Giustino Martire, Dialogo con Trifone, 128, 1-4)

Tertulliano fa risalire a Ebion (fondatore della setta giudaico cristiana degli ebioniti) la teoria secondo la quale Gesù sarebbe stato solo un uomo, forse abitato da un angelo come Michele o Gabriele. Egli esclude però che l’Angelo del Gran Consiglio di cui parla la versione dei LXX (Isaia 9,6) fosse un angelo per natura. Anche il padrone della vigna, infatti, mandò il figlio dai vignaioli per richiedere la sua parte di raccolto, così come prima aveva mandato i servitori. Il Figlio, tuttavia, non può esser certo considerato come uno dei servitori, per aver svolto, dopo di essi, la stessa funzione (Tertulliano, La Carne di Cristo, XIV).

Nello studio delle teofanie, Ilario di Poitiers riconosce le apparizioni del Logos in forma di Angelo ma osserva come il messaggero che era apparso ad Agar (Genesi 16), ad Abramo (Genesi 17) e a Mosé (Esodo3) parlasse con troppa autorità per poter essere considerato solo un rappresentante di Dio. Sempre secondo Ilario, Cristo sarebbe angelo per missione ma non per natura e la missione, pur distinguendo il mandante dall’inviato, non altererebbe la natura divina del Figlio (Ilario, La Trinità, IV, 23-31).

Anche secondo Novaziano, l'Angelo di Jahvé apparso ai patriarchi e ai profeti sarebbe il Logos di Dio, cioé Gesù Cristo in forma preumana. Una interpretazione molto rigida di Deuteronomio 6,4 porterebbe comunque gli eretici ad elaborare due letture devianti diametralmente opposte: da un lato i giudaizzanti tenderebbero a fere del Figlio di Dio soltanto un uomo, mentre dall'altro i modalisti (Prassea, Noeto e Sabellio) tenderebbero ad identificare il Figlio con il Padre. Nostro Signore finirebbe così crocifisso tra due ladri, dimenticando che il Figlio Unigenito e Primogenito fu da sempre presso il Padre, venne realmente generato prima di tutti i secoli, è chiamato Dio, Signore e Angelo del Gran Consiglio e possiede comunque la stessa natur divina del Padre (Novaziano, La Trinità, XXX-XXXI)

Di diverso avviso fu, comunque, Agostino che non escluse la manifestazione visibile del Padre sotto una forma o un’immagine corporea (Agostino, La Trinità, II, 32-35). Secondo Agostino, impossibile all’uomo sarebbe pertanto solo la visione di Dio (Padre, Figlio o Spirito Santo) in forma di puro spirito. Agostino, Ambrogio e Girolamo furono profondamente convinti del fatto che non si potesse identificare l'Angelo del Signore con un angelo particolare della letteratura ebraica: angeli differenti ed addirittura uomini (Malachia 2,7) sarebbero stati inviati da Dio in tempi differenti ed in occasioni diverse, come suoi messaggeri e rappresentanti, in grado di parlare a suo nome (in ebraico la parola "malak" vuol infatti dire angelo, messaggero, rappresentante e portavoce). Il confronto di alcuni passi tratti dal Nuovo e dall'Antico Testamento ha tuttavia permesso ad alcuni commentatori (antichi e moderni) di avanzare l'ipotesi che l'Angelo di Jahvé ("Malak Yhwh") di cui parlano le scritture ebraiche ed aramaiche altro non fosse che l'Arcangelo Michele, protettore d'Israele (Daniele 10,13, Daniele 10,21; Daniele 12,1 e Esodo 23,20), Arcistratega dell'esercito di Jahvé (Giosuè 5,14), messaggero di Dio e grande oppositore di Satana il Diavolo (Zaccaria 3,1-2; Giuda 9 e Apocalisse 12,7-12).

 

L'identificazione del Verbo di Dio con un Angelo creato (o con l'Arcangelo Michele) è invece estranea alla tradizione cristiana ed alla cultura giudaica ma trae origine dalle speculazioni di alcune scuole filosofiche pagane (come i neo-platonici e gli gnostici) e di alcune ramificazioni di sette giudaico-cristiane (come gli ebioniti ed i nazarei) sorte nei primi secoli dell'era volgare. Oggi solo gli avventisti, i testimoni di Geova ed un limitato numero di teologi cristiani identificano Gesù Cristo con l'Arcangelo Michele. Gli avventisti ritengono, infatti, che Gesù Cristo, il Figlio di Dio, prima di incarnarsi fosse l'Arcangelo Michele di cui parla la Scrittura, ma nello stesso tempo sono convinti che Michele non sia un essere creato. Secondo gli avventisti il termine Michael (= Chi è come Dio?) altro non sarebbe che uno dei molti titoli applicati alla seconda persona della Trinità. I testimoni di Geova, invece, sono convinti che Cristo sia stata la prima creatura di Dio, conosciuta come Michele Arcangelo già prima di venire sulla terra. Le posizioni d’alcuni teologi (peraltro ai margini dell'ortodossia cattolica ed evangelica) sono, infine, alquanto articolate, anche se le argomentazioni a favore dell'identificazione dell'Arcangelo Michele con la Parola di Dio e con l'angelo di Jahvé risultano piuttosto fragili [5] [6]



[1] L’espressione “Dio nella carne” (1 Timoteo 3,16) è conservata nel Textus Receptus, si trova nei codici AC, CC, DC, SC, ψ, K, L, P ed è citata da Ignazio, Ippolito, Dionisio, Gregorio di Nissa, Didimo, Crisostomo, Teodoreto; manca invece (essendo θεος sostituito da ο oppure da ος) in A, א, S, C, D, F, G, nella Vulgata, in Origene, in Epifanio, in Ieromo, in Teodoro, in Cirillo, in Ilario e  in Agostino.

 

[2] Il termine apaugasma deriva da apo (da) e augazo (splendere) e può essere tradotto sia in senso attivo (splendore, emanazione, irradiamento) che in senso passivo (riflesso). Nel Nuovo Testamento si trova solo in Ebrei 1,3 che è una evidente citazione di un libro deuterocanonico dove la Sapienza è descritta come un’emanazione o un riflesso (apaugasma) della luce eterna di Dio “È un'emanazione (atmiς = vapore) della potenza di Dio, un effluvio genuino (απορροια) della gloria dell'Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa s'infiltra. È un riflesso (apaugasma) della luce perenne, uno specchio (εσοπτον) senza macchia dell'attività di Dio e un'immagine (εικων = icona) della sua bontà  [Sapienza 7,25-26]. Il senso attivo non sembra escludere quello passivo: il senso attivo si adatta, infatti, alla natura divina del Logos, splendente e identica al Padre, mentre il senso passivo va bene per la natura umana del Figlio, nella quale la natura divina si riflette ed è impressa chiaramente nella carne

 

[3] L’espressione “l’angelo della sua facciali salvò” è contenuta nel Testo Masoretico ed è testimoniata dalla Vulgata di Gerolamo che traduce “angelus faciei eius salvavit eos ”. Tale espressione fu seguita dalle Bibbie del Martini (1781), del Diodati (1641) e del Luzzi (1924). Oggi alcune Bibbie moderne come la CEI (1973), la Nova Vulgata (1979), la NVB (1983) e la Nuova Riveduta (1994) preferiscono seguire la Settanta traducendo “Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati”.

 

[4] Totalmente estranea alla tradizione ebraica è l’espressione “Angelo del gran consiglio” contenuta nella Settanta (Isaia 9,6) e citata da molti Padri della Chiesa: la traduzione letterale di "El Gibbor è infatti “Dio Potente”. Tale espressione è riferita al re messianico profetizzato da Isaia (probabilmente Ezechia), fu applicata a Gesù Cristo fin dai primi secoli della Chiesa ed è un titolo regale riservato a Jahvé (Isaia 10,21).

 

[5] Non intendiamo qui condannare le argomentazioni addotte da tali teologi per dimostrare l’equivalenza di Gesù Cristo con l’Arcangelo Michele. Ci lascia però perplessi il metodo con cui si arriva a tale deduzione. In pratica, si parte da una prima presunzione non dimostrata, secondo cui l’Angelo di Jahvé e la Parola di Dio sarebbero la stessa persona, e la si valorizza come certa. Si esamina poi una seconda presunzione, ragionevole ma non facilmente dimostrabile, secondo cui l’Angelo di Jahvé e l’Arcangelo Michele sarebbero la stessa persona (confrontando alcuni passi come Daniele 10,13, Daniele 10,21 e Daniele 12,1 con Esodo 23,20 e Giosuè 5,14 oppure Zaccaria 3,1-2 con Giuda 9 ed Apocalisse 12,7-12) e la si accoglie come sicura. Dalla combinazione di queste due presunzioni si deduce, con eccessiva sicurezza e dubbia autorità, l’equivalenza tra il Logos giovanneo e l’Arcangelo Michele. Il fatto che il libro di Apocalisse inizi con le parole “Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere, e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni” (Apocalisse 1,1) dovrebbe renderci molto cauti nel trarre deduzioni affrettate: Gesù Cristo utilizzò infatti un Angelo per comunicare con l’Apostolo Giovanni, segno evidente che, ammesso e non concesso che il Verbo di Dio e l’Angelo di Jahvé siano la stessa persona, nessuno può negare che lo stesso Angelo di Jahvé abbia fatto più volte ricorso ad un altro Angelo potente (come l’Arcangelo Michele) per proteggere il popolo di Dio, per comunicare con gli uomini e per arginare la potenza di Satana. Ci troviamo pertanto di fronte ad una vera e propria doppia “praesumptio de praesumpto” con tanto di sillogismo finale. Di fatto, le presunzioni sono conseguenze che la scienza, la legge o i giudici traggono da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto. Le presunzioni semplici sono lasciate alla prudenza del giudice o del ricercatore, il quale può ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti. Gli elementi presuntivi devono però considerarsi inutilizzabili per derivare da essi altre presunzioni. Nel diritto e nella logica esiste, infatti, il divieto della cosiddetta praesumptio de praesumpto, non potendosi valorizzare una presunzione (o addirittura due) come fatto noto, per derivare da essa  un’altra presunzione o, peggio ancora, per dedurre da essa (o da esse) un fatto come certo.

 

[6] Alcuni esegeti tendano ad identificare il Logos con l’Arcangelo Michele, utilizzando soprattutto l’opera del Pastore d’Erma. Il famoso Padre Apostolico parla però distintamente di Michele, angelo grande e glorioso (Il Pastore d’Erma, LXIX, 3), e del Figlio di Dio, uomo glorioso in compagnia di sei angeli gloriosi (Il Pastore d’Erma, LXXXIX, 8). Di fatto, il termine “glorioso” è usato moltissime volte dal Pastore d’Erma e non è in grado di qualificare in modo univoco né Michele, né gli altri Angeli, nè tantomeno Gesù Cristo (all'interno dell'opera troviamo, ad esempio, intento glorioso, nome glorioso, servizio glorioso, forza gloriosa, digiuno glorioso, angelo glorioso, angeli gloriosi, uomo glorioso, precetti gloriosi, misericordia gloriosa, fedeli gloriosi, vergini gloriose, cosa gloriosa, credenti gloriosi, ….). Per un'analisi degli influssi dell'angeologia tardo giudaica sul pensiero cristiano si veda, comunque, J. Danielou, La teologia del giudeo-cristianesimo, Bologna, 1974, pp. 215-252.