Parlando dei Karamazov Dostoevskij scriveva: "Il problema
principale che sarà trattato in tutte le parti di questo
libro, è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o
inconsciamente tutta la vita: l'esistenza di Dio". I
fratelli Karamazov risulta la sua opera più complessa, più
profonda e più compiuta, l'intera vicenda ruota attorno ai
tre fratelli del titolo: Dmitrij, Ivàn e Aleksej
Karamazov, schematizzando altro non sono che tre
sfaccettature dell'animo umano: Dmitrij è l'uomo delle
passioni, Ivàn l'uomo della ragione, Aleksej l'uomo del
sentimento.
La trama del romanzo è fin troppo schematica, come spesso
capita in Dostoevskij, l'impianto narrativo è solo il
pretesto per un'ulteriore trivellazione della psiche
umana, non è importante chi ha ucciso il padre dei tre
fratelli Karamazov, il viscido usuraio Fedor Pavlovic, la
questione fondante ruota sempre attorno alla riflessione
sull'esistenza umana e soprattutto all'interrogativo
angosciante: che cos'è l'amore? È possibile l'amore in un
mondo condannato alla libertà?
Chi sono i personaggi di Dostoevskij? Azzardiamo una
risposta: sono creature che sanno, e sanno troppo. E
questo li carica di un fardello che impone loro una
scelta. Sentono il sapore della vita e amano. Vogliono
disperatamente essere amati da una donna, da un uomo ma,
soprattutto, da Dio. Si sfidano come due rettili Mitja e
il padre per l'amore di Gruseska; Smerdjakov, il figlio
bastardo uccide il padre che non l'ama per ottenere in
cambio almeno l'affetto del fratellastro Ivàn; Aleksej
dopo la morte dello starec Zosima va per il mondo, cerca
l'amore di Liza, vuole mettere in pratica la parola del
Signore e trova la sua strada parlando a lungo e
intensamente con i bambini. Ecco, il tema si focalizza,
tra le pagine e pagine del libro è sempre costante la
presenza dei bambini: proprio i bambini sono la chiave di
volta per cercare di comprendere la grandezza di questa
pietra miliare della letteratura mondiale. Troviamo il
tema nelle parole di Ivan:
"Io so soltanto che il dolore esiste: gli uomini stessi
sono colpevoli: era stato dato loro il paradiso, hanno
voluto la libertà. Ma se tutti devono soffrire per
riconquistare con la sofferenza l'eterna armonia, che
c'entrano i bambini?".
Se Dio esiste come può permettere la sofferenza dei
bambini? Proprio loro che a Lui sono più vicini, in loro
che ancora splende l'innocenza che presto perderanno. Ivan
non può accettare l'idea, la semplice idea di Dio in un
mondo dove c'è spazio per la sofferenza dei bambini,
questo può essere possibile solo in un mondo senza Dio.
Solo se Dio non esiste, l'uomo è Dio e tutto è permesso.
È Ivan il personaggio più concreto, più profondo,
simboleggia la filosofia che non riesce a digerire lo
scontro con il reale. È duro il muro contro cui cozza di
continuo la riflessione, Ivàn è l'unico dei tre fratelli a
non smettere di indagare in sé, è in lui che si sentono
tutte le tribolazioni dell'anima. Guarda nell'abisso e sa
che l'abisso guarda dentro di lui ma continua a scendere,
in un mondo di parole e teoremi, la fede o le pulsioni
della carne appesantirebbero la sua discesa. Ivàn ricorda
(sua è la priorità ontologica) Antonius Blok, il segaligno
cavaliere del settimo sigillo di Bergman: sono entrambi
uomini che non hanno paura degli specchi ma gli specchi
gli regalano solo un riflesso vuoto, cercano entrambi Dio,
incessantemente. Ed entrambi vorrebbero solo una cosa: la
pace del cuore. Sanno anche come raggiungerla: uccidere
l'idea di Dio, estirparla per sempre dalla loro testa con
un ferro arroventato.
Aleksej ha sempre la fede e lo sa, tentenna solo una notte
quando sta per lasciarsi andare alle calde e seriche
promesse di Grusenka che gode nel prenderlo in giro per la
sua insopportabile purezza; Mitja, di contro, ha scelto la
passione, cerca di riflettere ma è sempre il suo lato più
istintivo che ha la meglio. Né Aleksej né Dmitrji sono
filosofi, hanno scelto due lenti per vedere il mondo che
hanno i loro relativi vantaggi: la fede è un caldo
abbraccio che impedisce di rompersi la testa in
contorsioni mentali; la fisicità è una corazza debole ma
è sempre una corazza, Dmtrij rinuncia alla theoria,
rinuncia ad aprire gli occhi sul mistero sacro della
realtà, vuole amare ma di un amore che la penna di
Dostoevskji non descriverà mai, l'amore fatto di caldi
sospiri e abbracci, corpi che si cercano e si trovano per
scacciare la solitudine dei demoni del cuore (non c'è
nemmeno una parola per la sfera sessuale, anche le mire
del padre dei Karamazov sono avvolte in un cappotto di
castità).
Scartata la fede e rifiutata la vita dei rettili che
accomuna Fedor Pavlovic e Dmitrij, a Ivan resta solo la
ragione, il pungolo della ragione che lo conduce presto a
scontrarsi con i fantasmi della sua coscienza. Sceglie
l'ateismo ma vuole disperatamente Dio (il dramma dell'ateo
non è forse questo?), vuole essere amato da Dio e si rompe
la testa nei suoi ghirigori di incidentali. Riesce a
spiegare il mondo ma non riesce a capirlo. I bambini
inchiodati sulla croce, i cani che divorano pezzi di pane
imbottiti di chiodi scagliati da quegli stessi bambini che
il freddo porterà alla tomba.
Prima di perdere la ragione e finire a dialogare con un
simpaticissimo povero diavolo, Ivàn in una notte troppo
lunga incontra Aleksej e gli narra un suo poema, la
celeberrima leggenda del Grande Inquisitore, quella che è
la summa di tutta l'opera di Dostoevskij e una delle
pagine più importanti di tutta la storia dell'umanità
("una delle pagine più belle e più terribili della
letteratura contemporanea" ). La leggenda offre molteplici
interpretazioni, è un prisma in cui scomporci.
Cristo, tornato sulla terra nel XVI secolo, si incontra a
Siviglia col grande inquisitore. Gesù è giunto nel mondo
in silenzio, senza annunciarsi e il popolo infine lo
riconosce, dai suoi occhi si sprigionano i raggi della
Luce, del Sapere e della Forza. Compie il primo dei nuovi
miracoli, ridona la vista a un vecchio, resuscita una
bambina (il tema dei bambini, ripetiamo, è sempre
costantemente presente). Il Grande Inquisitore ha visto
tutto con i suoi occhi infossati in cui splende ancora una
luce, come una scintilla di fuoco. Inizia la lotta di
sguardi, le guardie conducono il Cristo davanti
all'Inquisitore, gonfio come una sanguisuga delle grida
degli eretici che bruciano a maggiore gloria del Signore.
Il processo è un monologo allucinato e nella sua lucida
follia riecheggiano tutti gli incubi del controllo totale,
la stessa filosofia tiene in piedi il Grande Fratello di
1984 e il Grande Inquisitore. L'uomo scarta il regalo di
Dio, rifiuta un fardello insopportabile come la libertà,
vuole solo sapere davanti a chi inginocchiarsi, vuole solo
dissetarsi con mistero, autorità e miracolo.
La prima domanda sfavilla nella notte di Siviglia: "Perché
sei venuto a disturbarci?", l'incubo di Gesù si è
realizzato ma scopriremo ben presto che la follia
dell'Inquisitore si fonda su una solida base. Il grande
merito di cui si fregia l'Inquisitore è la soppressione
dell'insopportabile libertà. Gli uomini non hanno mai
voluto essere liberi, non è conciliabile l'aspirazione
alla felicità con la libertà. Gesù era stato avvisato in
tempo, il signore del non essere, Satana, non gli aveva
fatto mancare avvertimenti e consigli. Segue la
profondissima analisi delle tre parole, le tre frasi che
esprimono tutta la futura storia dell'umanità. Sono le tre
tentazioni del deserto. Il Cristo le ha rifiutate, voleva
che gli uomini lo amassero di un amore libero, non come
schiavi riconoscenti, gli uomini dovevano scegliere tra i
due abissi e scegliere liberamente. Gli uomini vogliono
essere incatenati, non vogliono scegliere. E la Chiesa
rinnovata scaccerà via i loro dubbi, offrirà loro pane e
la coppa del mistero, saranno felici perché qualcun altro
sceglierà per loro. L'inquisitore non riesce a reggere lo
sguardo silente del Cristo, ecco il suo dramma: "Io non
voglio il tuo amore perché nemmeno io Ti amo".
L'inquisitore sa bene che il suo piano deve realizzarsi e
si realizzerà proprio per l'intima natura dell'uomo, Gesù
è di ostacolo, deve morire e stavolta deve essere per
sempre. Brucerà domani come tutti gli eretici, coloro che
sono fuori dal tempo, quelli che non riescono a tenere il
passo della storia. L'uomo schiavo è l'uomo felice,
alienato ma felice. Il Cristo lo ha ascoltato, in
silenzio, non l'ha interrotto mai.
L'inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche
tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio
gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l'ha sempre
ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e
penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il
vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro,
di terribile. Ma Egli tutt'a un tratto si avvicina al
vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra
novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio
sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito;
egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: "Vattene e
non venir piú... non venire mai piú... mai piú!". Il bacio
gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.
Ecco la grandezza di Dostoevskij, l'uomo si danna per il
silenzio di Dio e Dio risponde in silenzio con l'unica
risposta possibile: l'amore. Lo stesso amore che Ivàn
cerca disperatamente.
La lettura di Dostoevskij lascia mutati, attiva una nuova
vista sul mondo. Siamo partiti su una panchina di ferro
nella Pietroburgo irreale delle notti bianche, seduti lì a
cullare amori che forse durano solo un istante, quello che
separa il dormiveglia dal sogno. Siamo finiti in fondo
all'abisso, anelando il bacio muto di Dio. Non abbiamo gli
strumenti per rispondere al dramma di Dio e dell'uomo,
abbiamo solo dei semi per una futura riflessione:
" Se Cristo fosse pur solo il soggetto di un grande
racconto, il fatto che questo racconto abbia potuto essere
immaginato e voluto da bipedi implumi che sanno solo di
non sapere, sarebbe altrettanto miracoloso
(miracolosamente misterioso) del fatto che il figlio di un
Dio reale si sia veramente incarnato. Questo mistero
naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire
il cuore di chi non crede. ".**
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