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A
dorso del treno-mulo
Sale
nervoso, a strattoni, taglia rocce verdi e rosa con pazzeschi mezzacosta.
Evento sposa odore
di muschio e pane: è il segno delle Alpi. Guardo
ai ponti, alle gallerie, alle stazioni monumentali
come ai relitti di una civiltà scomparsa.
Montagna,
nubi nere. La Costa
Azzurra scompare, e
subito la bestia su rotaia cambia
natura. Dopo la baleniera delle
Isole, il bruco appenninico e la
lanterna magica, ecco il treno che
diventa mulo. Sale nervoso, a strattoni,
entra nel temporale, taglia con pazzeschi mezzacosta rocce
verdi e rosa, s'aggrappa al nulla,
s'intreccia al fiume gonfio che
scende dal Col di Tenda attraversando
un pezzo di Francia. Ce ne
accorgiamo alla stazione di Saint
Dalmas, quando a un tratto il
vento sposa odore di muschio e baguettes.
E' il segno delle Alpi.
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Curve
assurde, ponti disegnati da
un pazzo. Il macchinista smanetta, segue alla lettera il registro che
gli detta le velocità chilometro per
chilometro. E'come un pentagramma:
senza quella traccia è impossibile
interpretare il "sound"
di questo capolavoro italiano.
Solo che la linea è cambiata: l'abbandono
della montagna l'hanno
cosparsa di impercettibili
segni di collasso. E allora, quello che
doveva essere un andante con brio,
diventa un lento assai. E la velocità, anziché un'addizione di spinte,
la risultante di sottrazioni prudenziali.
Il
tunnel buca l'osso delle Alpi, va
dritto come una spada per nove chilometri. A metà percorso il
macchinista rallenta, ci fa guardare
fuori. E' il punto di scollinamento,
l'unico da dove vedi entrambe
le imboccature. Ed eccole infatti,
lontane come due fiammiferi
perduti nel buio siderale. Le gallerie
sono tutte così: metà in salita
e metà in discesa. Ai tempi del carbone,
se la locomotiva perdeva colpi
in galleria, era impensabile continuare.
Per non morire intossicati
bisognava uscire con la sola forza
di gravita, motori al minimo.
L'uscita
si avvicina, abbacinante,
ti spara nella retina un sipario d'alberi che si contorce al vento. E'
il treno stesso che spinge fuori un
cilindro d'aria fredda, perfora la
vampa estiva come un ariete. Guardo
a questi grandiosi manufatti
come alla piramide
di Cheope,
il relitto
di una civiltà scomparsa.
Non
ne capisco più
il senso. Eppure
la galleria, col
suo doppio binario,
parla chiaro.
Ti dice che
qui, solo ottanta
anni fa, il traffico
era enorme.
Non c'erano
né Maastricht
né Schengen,
ma
le Alpi
erano vive. Fra un treno e l'altro, nel tunnel
passavano cantando i carrettieri,
con le torce
accese. Anche
d’inverno.
Cuneo,
stazione
di Cuneo, te
la raccomando Cuneo d'agosto. Per strada solo marocchini più
un gattone grigio che sente il temporale e mi ronfa tra i piedi come
un quadrimotore. Ma che stazione! Monumentale, a quattro piani,
con il bar, piatti caldi con polenta
e funghi, foto di locomotive.
Salve Piemonte! Un chilometro
più in là, nella piana del fiume Gesso, eccoti una seconda stazione,
più antica ancora, risorgimentale,
con i segni flebili di quella epoca
estinta, di prima che la Res Publica
diventasse
una cenerentola e lo Stato un osso da spolpare.
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Il
macchinista del Cuneo-Torino riconosce Paolini, lo invita a bordo, ci
spiega con solennità che in Piemonte nacque e morì una rande idea
ferroviaria. «Nacque con i Cattaneo e i Cavour; morì con gli Agnelli e
il boom dell'automobile; fu sepolta con le alluvioni "che distrussero
i ponti, dopo che quel boom spopolò le montagne». Ed elenca decine di
linee dismesse: Busca -Dronero, Bra - Ceva, Cavallermaggiore -Moretta,
Saluzzo - Airasca, Bricherasio - Barge. Una rete fantastica che nessuno
riattiva, figurarsi. Nemmeno oggi che l'auto è in agonia.
Sappiatelo,
italiani. Nel 1890 il grosso delle vostra rete era già ultimato. Una
sfida pazzesca, per un Paese pieno di montagne. Dietro a quella sfida,
un'idea grandiosa: federare le nostre diversità. Nel 1940 si raggiunse
l'apice: 42 mila chilometri di rete, 330 milioni di passeggeri, 190
milioni di tonnellate di merci trasportate. Il fischio del treno
raggiungeva ogni sperduto paese. Poi venne la gomma e la dismissione
delle linee. Guardo la carta ferroviaria di Marco. Disegna un corpo
scarnificato, senza più capillari, ridotto alle sole arterie. E gli
orari? Quelli di ieri erano enciclopedie. Oggi sono opuscoli da ridere.
Il
treno-mulo accelera, ostinato e bastardo, punta verso il Monviso nel
temporale, sfida il vento che spazza la Padania, l'andazzo della patria in
svendita. Certo, questi non daranno il Colosseo ai privati. Faranno di
peggio. Mentre le regioni grideranno «Devolution!», faranno cassa
liquidando l'Italia minore, spolpando il territorio, e gli italiani
taceranno ancora. Il treno va, solitario tra le immondizie, e penso:
come ci ha capito Berlusconi.
Scendiamo
a Cavallermaggiore, c'è la coincidenza per le Langhe. Un'altra stazione
enorme, figlia di un'altra era geologica. Ma mentre la ammiro, scopro di
aver dimenticato giacca e portafoglio sull'altro treno. Paolini, che da
figlio
di ferroviere conosce il trucco, chiama al cellulare la plancia di
comando in corsa su Torino. Sembra la pubblicità del famoso amaro: il
capotreno risponde, trova la «refurtiva», ci da appuntamento per la
riconsegna alla stessa stazione, due ore dopo. Grazie, amico-treno.
Si
riparte per Bra, a bordo c'è un bigliettaio che lotta con due ragazzini.
Lo chiamano «mongoloide», rifiutano di pagare il biglietto,
sghignazzano. «Ogni giorno è così», racconta. «I soldi li hanno, ma
giocano a fregare il pubblico ufficiale. Fiutano un andazzo. Sanno che
resteranno impuniti, hanno capito che in Italia chi svolge un
servizio non conta nulla». Chiamiamo la Polfer di Asti. Gli agenti
riattaccano, fingono di non capire. Al quarto tentativo, chiedono: «A
bordo c'è vandalismo?». No, risponde il capotreno. E loro: «Abbiamo
altre priorità, provi a chiamare Alessandria». Come dire: fottiti.
Alessandria è troppo lontana, e poi quelli scendono prima. Ecco come si
smantella un Paese.
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Il
macchinista non s'incazza più ormai. Sorride amaro: «Meno male che
presto vado in pensione». Racconta la storia di un algerino che gira i
treni con addosso la maglietta juventina di Zidane e non paga mai, anzi,
insulta il personale. «Finisce sempre così. Noi si chiama la Polfer,
quello scende in stazione, la Polizia fa la mossa di beccarlo, lui scappa.
Eppure lo vedi subito con quella maglietta. Un giorno l'ho inseguito
io, mi aveva insultato la madre. L'ho raggiunto subito, ma poi? Che dovevo
fare, farmi bucare lo stomaco?».
Scendiamo
a Bra, siamo tormentati da una domanda. Chi glielo fa fare ai nostri
eroi? Inseguono i mariuoli, ti riportano il portafogli, aspettano per non
lasciarti come un pirla in stazioni vuote, chiuse dall'Azienda Italia.
Il treno va, forse solo il "fattore umano" lo fa andare,
ignorato e umiliato, con tanti piccoli atti non dovuti. Fino a quando?
Ho
appuntamento con un amico al bar, lui arriva in bici, gliela sequestro.
La rabbia mi ha provocato uno smottamento metabolico, se non pedalo
scoppio. Lascio il sacco a Marco e scappo tra vigne miliardarie. Tiro il
fiato alla stazione di Barbaresco, un gioiello abbandonato in mezzo a
fantastiche colline. Ma che succede? Arriva un treno. E' il mio! A bordo
c'è Paolini che legge. Vedo anche me stesso sul mulo che va, scalcagnato
e bastardo, impietosa allegoria dell'Italia. Pubblica povertà e privata
ricchezza.
Paolo
Rumiz
La
Repubblica – lunedi’ 19 agosto 2002 |
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