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libro consigliato:
Emily Dickinson Silenzi a cura di Barbara Lanati

 

 



La Speranza è quella cosa piumata-
che si viene a posare sull'anima-
Canta melodie senza parole-
e non smette -mai-
E la senti -dolcissima- nel vento-
Edura deve essere la tempesta-
capace di intimidire il piccolo uccello
che ha dato calore a tanti-
Io l'ho sentito nel paese più gelido-
e sui mari più alieni-
eppure mai, nemmeno allo stremo,
ha chiesto una briciola -di me.

(1861)



Notti selvagge- notti selvagge!
Fossi con te le notti selvagge sarebbero
La nostra lussuria!
Inutili- i venti-
Per un cuore che e' gia' in porto-
Basta con la bussola-
Basta con la mappa!
Remare nell'Eden-
Ah, il mare!
Potessi questa notte
Ancorarmi in te!
1861


 

Se per sfuggire alla memoria
Fossimo provvisti di ali
Molti volerebbero
Abituati a cose ben piu' lente
Gli uccelli- impauriti-
Scruterebbero il gigantesco carro
Degli uomini che fuggono- disperati-
Dalla propria mente
1880


 

Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano-
Se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena-
o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano.

:: Emily Dickinson

 

«La mia lettera al mondo» di Marisa Bulgheroni


La definizione che Emily Dickinson diede, in versi, della  propria poesia - «la mia lettera al mondo», un  «messaggio consegnato a mani / per me invisibili»  (441) - suona intima, diretta e insieme arcana: ci chiede un  atto di sfida e di solitario ardimento analogo a quello  compiuto da lei stessa, quasi una battaglia nel corso della  quale l'avversario abbia deciso di rimanere mascherato. Ogni  lettore, critico, traduttore tenta ancora oggi, a più  di cent'anni dalla morte dell'autrice, di raggiungere per  approssimazioni sempre più precise il centro mobile  di un'opera poetica che ha la folgorante autonomia di un  sole; e sogna di appropriarsi del codice che gli permetta di  individuarne l'origine. Si compie, così, una sorte  misteriosamente prefigurata dalla stessa Dickinson nei versi  accecanti di «Circonferenza sposa del terrore /  possedendo sarai posseduta / da ogni consacrato cavaliere /  che ardisca desiderarti» (1620): un destino di eterna,  elusiva contemporaneità che nel consenso insinua il  dubbio, come se nel troppo calpestato giardino di Amherst  ognuno ricercasse la Dickinson del proprio sogno, e da lei,  dai suoi testi, si aspettasse una spettrale conferma.     Nel suo poema in 1775 frammenti o tessere, instabile  nella datazione e quindi aperto a futuri spostamenti, Emily  Dickinson ci parla di sé in metafore che definiscono  una figura interiore in conflitto con un ruolo sociale - la  figlia nella casa paterna - che rischia di soffocarla.  Quando, dopo gli anni della giovinezza, affollati di  incontri e di eventi, la sua biografia sembra virare verso  il vuoto, il silenzio apparente dei suoi giorni si riempie  di una moltitudine di voci. «Andò al capestro la  stregoneria, / nella storia, però la storia ed io /  sappiamo essere streghe quanto occorre / qui tra di noi ogni  giorno»: in questa poesia (1583) Emily si dice, infine,  strega, così come, nel corso del suo poema, si  è detta regina, monaca ribelle, zingara e mendicante,  così come si è proclamata donna in bianco  prima ancora di suggellare, con la vestizione dell'abito  candido, la sua scelta di solitudine consacrata alla poesia.  Il suo «io» lirico si frange in una vorticosa  molteplicità di maschere, di personificazioni, di  finzioni senza tradire mai il patto che lo vincola al  soggetto vivente.     Definendo «lettera al mondo» la sua poesia,  Emily stessa sembra spingerci a ricercare, al di là  dei veli e degli schermi, la sua identità, mentre ci  fornisce una nuova metafora non solo della propria poesia,  ma di se stessa poeta: la scrivente solitaria che,  tracciando sul foglio bianco parole per un destinatario  ignoto, gli ricorda come l'epistolografia sia scrittura  dell'attesa consegnata al tempo, ma racchiusa in uno spazio  sigillato, pienamente esistente soltanto nel contatto fisico  con la mano di chi, tolto il sigillo, leggerà.     E' Emily a istituire per prima un'analogia tra la  sua opera in versi e l'epistolario: se la poesia è  «lettera al mondo» lanciata nel futuro, la lettera  contiene in sé quell'immortalità a cui la  poesia aspira perché possiede «il potere  spettrale del pensiero che viaggia da solo» (LL 330).  L'una e l'altro hanno lo statuto di parola sospesa,  scorporata, indeperibile perché carica di un'energia  autonoma: scrivere è rendersi immortali nell'atto  stesso di imprimere il proprio segno. Ma al di là  delle affinità formali, che annullano il confine tra  pubblico e privato, esiste, tra opera poetica ed  epistolario, una differenza cruciale. Nella firma che sigla  le lettere Emily si riconosce unica voce monologante, fedele  alla data, alla stagione, all'occasione, al patto con il  destinatario. La lingua è lo strumento di una lunga,  spezzata, ininterrotta recitazione di sé. Nelle  poesie, al contrario, è la lingua a trascinarla, a  parlare in lei, per lei, a invitarla e sedurla al ruolo di  oracolo, a presentarsi come suono e tuono che va ascoltato e  decifrato nel suo rapido mancare; a folgorarla come luce  sghemba che va trascritta in parole prima che svanisca; a  offrirsi come scandaglio degli abissi interiori che  toccherà al poeta - temerario come il cercatore di  perle - inseguire nella vertiginosa discesa.     Al suo «io» lirico la Dickinson, posseduta dal  potere della lingua, affida la funzione primaria di garante  e testimone del nascere della parola: lo riduce a puro  pro-nome, che può parlare per tutti e per nessuno, e  quindi anche per la folla di identità inesplose che  il poeta ospita in sé come visitatori misteriosi da  altri mondi. Nell'epistolario la recitazione è  un'assunzione di destino: Emily è la figlia, la  sorella, l'amica, l'innamorata, poeta nella  clandestinità della pagina. Nella poesia avviene  l'esplosione: il guscio dell'identità sociale si  spacca e i semi delle potenzialità interiori erompono  in una ridda di voci. Poiché il ruolo pubblico  dell'artista è per lei inaccessibile, la Dickinson  sperimenta altri ruoli, prova vecchi e nuovi costumi di  scena; inventa inediti modelli di comportamento. Le varie  maschere rivelano, allora, al di là del precario  legame con la biografia, la loro funzione eversiva rispetto  alla lingua: sono costellazioni semantiche che espongono,  stravolgendola, l'energia etimologica di ogni singola  parola; sono aggregazioni mitiche che mobilitano iridescenti  reti di immagini; sono risposte personali alla violenza  della vocazione, dighe costruite per accoglierne e insieme  arginarne la violenza. Così la figura della regina  sancisce in un lessico di corone e diademi, sigilli e  gioielli, il rango supremo conquistato tramite un'esperienza  d'amore iniziatico che coincide con l'esercizio della  poesia. Così la monaca ribelle in preghiera davanti  alle divinità femminili delle montagne (722)  dà corpo all'eresia; la zingara e la mendicante  rivestono il nomadismo mentale di una parvenza fisica. La  strega è, a sua volta, garante del multilinguismo  magico per cui l'«io» non solo intende e parla il  linguaggio degli alati e dei fiori, ma si trasforma in  creatura piumata o confronta la foggia antiquata dei propri  abiti con foglie, erbe, petali. La donna biancovestita emana  da sé il bagliore infuocato dell'«anima al calor  bianco» (365), il candore dell'elezione e della  disperazione, il luccichio della neve e del gelo, la  marmorea cecità della tomba. La scrivente, infine,  l'autrice della «lettera al mondo», dissemina il  suo foglio di «sillabe» simboliche e di metaforici  segni grafici, così che la morte è «il  trattino del mare» (1454) e la stella  «asterisco» a contrappunto dei cieli (1638).     A significare la figlia nella casa paterna rimane,  irriducibile, la voce bambina che sfida il Padre celeste  chiamandolo «banchiere» e «ladro» (49);  che, intrecciandosi maliziosamente alle altre voci, sembra  voler suggerire come l'origine di ognuna sia rintracciabile  nella scoperta infantile delle realtà alternative del  mito e della fiaba, del doppio, del volo. Con  l'autorità di chi si è lasciato alle spalle  «le bambole» e «i rocchetti», questa  voce sconfessa il padre terrestre e il nome che le è  stato imposto al battesimo per assumere «il nome  supremo» in una cerimonia d'investitura che la strappa  alla casa, all'infanzia governata dagli altri, per  consegnarla alla poesia. ...

 

 

 

 

 

 


 

tratto dalla prefazione di Marisa Bulgheroni