:: Emily Dickinson
«La mia lettera al mondo» di Marisa Bulgheroni
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La definizione che Emily Dickinson diede, in versi, della propria poesia - «la mia lettera al mondo», un «messaggio consegnato a mani / per me invisibili» (441) - suona intima, diretta e insieme arcana: ci chiede un atto di sfida e di solitario ardimento analogo a quello compiuto da lei stessa, quasi una battaglia nel corso della quale l'avversario abbia deciso di rimanere mascherato. Ogni lettore, critico, traduttore tenta ancora oggi, a più di cent'anni dalla morte dell'autrice, di raggiungere per approssimazioni sempre più precise il centro mobile di un'opera poetica che ha la folgorante autonomia di un sole; e sogna di appropriarsi del codice che gli permetta di individuarne l'origine. Si compie, così, una sorte misteriosamente prefigurata dalla stessa Dickinson nei versi accecanti di «Circonferenza sposa del terrore / possedendo sarai posseduta / da ogni consacrato cavaliere / che ardisca desiderarti» (1620): un destino di eterna, elusiva contemporaneità che nel consenso insinua il dubbio, come se nel troppo calpestato giardino di Amherst ognuno ricercasse la Dickinson del proprio sogno, e da lei, dai suoi testi, si aspettasse una spettrale conferma. Nel suo poema in 1775 frammenti o tessere, instabile nella datazione e quindi aperto a futuri spostamenti, Emily Dickinson ci parla di sé in metafore che definiscono una figura interiore in conflitto con un ruolo sociale - la figlia nella casa paterna - che rischia di soffocarla. Quando, dopo gli anni della giovinezza, affollati di incontri e di eventi, la sua biografia sembra virare verso il vuoto, il silenzio apparente dei suoi giorni si riempie di una moltitudine di voci. «Andò al capestro la stregoneria, / nella storia, però la storia ed io / sappiamo essere streghe quanto occorre / qui tra di noi ogni giorno»: in questa poesia (1583) Emily si dice, infine, strega, così come, nel corso del suo poema, si è detta regina, monaca ribelle, zingara e mendicante, così come si è proclamata donna in bianco prima ancora di suggellare, con la vestizione dell'abito candido, la sua scelta di solitudine consacrata alla poesia. Il suo «io» lirico si frange in una vorticosa molteplicità di maschere, di personificazioni, di finzioni senza tradire mai il patto che lo vincola al soggetto vivente. Definendo «lettera al mondo» la sua poesia, Emily stessa sembra spingerci a ricercare, al di là dei veli e degli schermi, la sua identità, mentre ci fornisce una nuova metafora non solo della propria poesia, ma di se stessa poeta: la scrivente solitaria che, tracciando sul foglio bianco parole per un destinatario ignoto, gli ricorda come l'epistolografia sia scrittura dell'attesa consegnata al tempo, ma racchiusa in uno spazio sigillato, pienamente esistente soltanto nel contatto fisico con la mano di chi, tolto il sigillo, leggerà. E' Emily a istituire per prima un'analogia tra la sua opera in versi e l'epistolario: se la poesia è «lettera al mondo» lanciata nel futuro, la lettera contiene in sé quell'immortalità a cui la poesia aspira perché possiede «il potere spettrale del pensiero che viaggia da solo» (LL 330). L'una e l'altro hanno lo statuto di parola sospesa, scorporata, indeperibile perché carica di un'energia autonoma: scrivere è rendersi immortali nell'atto stesso di imprimere il proprio segno. Ma al di là delle affinità formali, che annullano il confine tra pubblico e privato, esiste, tra opera poetica ed epistolario, una differenza cruciale. Nella firma che sigla le lettere Emily si riconosce unica voce monologante, fedele alla data, alla stagione, all'occasione, al patto con il destinatario. La lingua è lo strumento di una lunga, spezzata, ininterrotta recitazione di sé. Nelle poesie, al contrario, è la lingua a trascinarla, a parlare in lei, per lei, a invitarla e sedurla al ruolo di oracolo, a presentarsi come suono e tuono che va ascoltato e decifrato nel suo rapido mancare; a folgorarla come luce sghemba che va trascritta in parole prima che svanisca; a offrirsi come scandaglio degli abissi interiori che toccherà al poeta - temerario come il cercatore di perle - inseguire nella vertiginosa discesa. Al suo «io» lirico la Dickinson, posseduta dal potere della lingua, affida la funzione primaria di garante e testimone del nascere della parola: lo riduce a puro pro-nome, che può parlare per tutti e per nessuno, e quindi anche per la folla di identità inesplose che il poeta ospita in sé come visitatori misteriosi da altri mondi. Nell'epistolario la recitazione è un'assunzione di destino: Emily è la figlia, la sorella, l'amica, l'innamorata, poeta nella clandestinità della pagina. Nella poesia avviene l'esplosione: il guscio dell'identità sociale si spacca e i semi delle potenzialità interiori erompono in una ridda di voci. Poiché il ruolo pubblico dell'artista è per lei inaccessibile, la Dickinson sperimenta altri ruoli, prova vecchi e nuovi costumi di scena; inventa inediti modelli di comportamento. Le varie maschere rivelano, allora, al di là del precario legame con la biografia, la loro funzione eversiva rispetto alla lingua: sono costellazioni semantiche che espongono, stravolgendola, l'energia etimologica di ogni singola parola; sono aggregazioni mitiche che mobilitano iridescenti reti di immagini; sono risposte personali alla violenza della vocazione, dighe costruite per accoglierne e insieme arginarne la violenza. Così la figura della regina sancisce in un lessico di corone e diademi, sigilli e gioielli, il rango supremo conquistato tramite un'esperienza d'amore iniziatico che coincide con l'esercizio della poesia. Così la monaca ribelle in preghiera davanti alle divinità femminili delle montagne (722) dà corpo all'eresia; la zingara e la mendicante rivestono il nomadismo mentale di una parvenza fisica. La strega è, a sua volta, garante del multilinguismo magico per cui l'«io» non solo intende e parla il linguaggio degli alati e dei fiori, ma si trasforma in creatura piumata o confronta la foggia antiquata dei propri abiti con foglie, erbe, petali. La donna biancovestita emana da sé il bagliore infuocato dell'«anima al calor bianco» (365), il candore dell'elezione e della disperazione, il luccichio della neve e del gelo, la marmorea cecità della tomba. La scrivente, infine, l'autrice della «lettera al mondo», dissemina il suo foglio di «sillabe» simboliche e di metaforici segni grafici, così che la morte è «il trattino del mare» (1454) e la stella «asterisco» a contrappunto dei cieli (1638). A significare la figlia nella casa paterna rimane, irriducibile, la voce bambina che sfida il Padre celeste chiamandolo «banchiere» e «ladro» (49); che, intrecciandosi maliziosamente alle altre voci, sembra voler suggerire come l'origine di ognuna sia rintracciabile nella scoperta infantile delle realtà alternative del mito e della fiaba, del doppio, del volo. Con l'autorità di chi si è lasciato alle spalle «le bambole» e «i rocchetti», questa voce sconfessa il padre terrestre e il nome che le è stato imposto al battesimo per assumere «il nome supremo» in una cerimonia d'investitura che la strappa alla casa, all'infanzia governata dagli altri, per consegnarla alla poesia. ...
tratto dalla prefazione di Marisa Bulgheroni