Ottobre 2002

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Ultima revisione: 05/11/03

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Ritorno a "Io penso... "

Sommario

... e i due saranno una carne sola 
Il cavaliere e il contratto tradito
Gli stili cognitivi e l'invecchiamento
La meditazione

La meditazione
Ci sono tre modi di pensare a Dio: con la modalità del cuore, della mente, della volontà. Ci sono tre modi di predicare e di rivolgersi ai fedeli da parte dei sacerdoti.
C’è la predica incentrata sull’emotività in cui si corre spesso ad immagini, considerazione che suscitano sentimenti di amore, dolore, di pace e rasserenamento, di turbamento, di lode, di ringraziamento, di abbandono, di estasi. I sacerdoti che utilizzano questo stile sono di solito, nelle loro prediche enfatici, prolissi e teatrali. Fanno questa scelta o per inclinazione personale o in considerazione del tipo di uditorio.
Altri predicatori danno vita  a delle considerazioni costruite sulle capacità razionali, sul ragionamento e sull’esercizio del pensiero. Questo è l’approccio a Dio che più piace agli intellettuali, siano essi i predicatori che gli ascoltatori.
Ci sono poi dei sacerdoti che infarciscono le loro predica di precetti, di comandamenti, di divieti, di consigli. È la predica precettistica che poi dovrebbe tradursi in concreti gesti di virtù pratica nella  vita quotidiana.
Tutto è valido, tutto è confacente ad un avvicinamento a Dio. Cambia lo stile, perché molti sono i carismi delle persone che predicano o che ascoltano. L’importate che unico rimanga lo spirito.Tuttavia si deve ammettere che le tre modalità non sono tra loro incompatibili e potrebbero (o dovrebbero) essere prese in considerazione da ogni cristiano. Solo il prevalere nelle singole persone dell’una o dell’altra dipende dal “talenti” di ciascuno.
Ci sarebbe da chiedersi perché Dio ha bisogno della nostra lode, del nostro amore, del nostro ringraziamento. Non è egli l’essere perfettissimo? Ma le cose, nella tradizione biblico - giudaica e in quella cristiana, stanno così inequivocabilmente. Non è così forse anche nella preghiera insegnataci da Gesù? Questa nella prima parte chiede in primis che “sia santificato” il suo nome, cioè l’adesione a Dio con cuore.. Segue poi – a conferma delle considerazioni sopra esposte - la chiesta dell’avvento del suo “regno”, che non può realizzarsi se non con l’annuncio, che è comunicazione, che è conoscenza. Il vangelo prima di essere praticato deve essere conosciuto. L’ultima “richiesta” (“sia fatta la tua volontà”) tocca la sfera della volontà, cioè di un comportamento nella vita quotidiana,  che sia coerente all’amore e alla conoscenza di Dio.

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Gli stili cognitivi e l'invecchiamento
Una delle peculiarità dell’infanzia è il pensiero magico, cioè la tendenza a trasformare gli aspetti e le dimensioni del reale secondo modi fantastici, nell’ambito di una atmosfera incantata; l’infante (colui che non sa parlare)  vede nelle cose degli esseri animati e si sente dotato di poteri su di esse. Il fanciullo (colui che sa parlare) lascia questo mondo per dirigersi verso una modalità di approccio con la realtà più oggettivo, ma capace di conoscere solo le cose concrete, cioè solo la realtà che può vedere, toccare, percorre.
Divenuto più adulto il ragazzo matura un pensiero caratterizzato da una spiccata progettualità, sostenuta dalla capacità che ha maturato di staccarsi dal concreto per navigare anche sul possibile. Per poter progettare occorre sapere analizzare col solo pensiero tutte le possibilità che un problema o una situazione presentano.
Da adulto l’uomo passa poi alla fase della realizzazione dei suoi progetti.
La caratteristica del pensiero anziano è invece la narratività, quasi sempre autobiografica, cioè la tendenza a raccontare il passato. L’adulto cioè cessa di norma di progettare e di realizzare il suo progetti per per adagiarsi in una situazione inerte dal punto di vista realizzativo.
Questa è la condizione degli adulti che hanno perso la carica giovanile. È una evoluzione che va combattuta, cercando di mantenere l’anziano il più a lungo possibile nella capacità di progettare e di realizzare.

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Il cavaliere e il contratto tradito
È la  fissazio­ne di Berlusconi, ovunque vada e ovunque parli: dimostrare che il governo sta attuando il programma, anzi è in anticipo sui tempi previsti. . Ma, checché ne dica,  il premier non sta affatto onorando i suoi impegni. Al contrario: è in grave e irrimediabile ritardo sulla sua tabella di marcia.
Nel cosid­detto Contratto con gli italiani, firmato 1'8 maggio 2001 a Porta a porta sotto lo sguardo complico di Bruno Vespa, Berlusconi fece cinque promesse.
1.      
Prima promessa. Il premier pro­mise l'esenzione totale dei red­diti fino a 11 mila euro annui e il passaggio a due sole aliquote IRPEF, 23 e 33 per cento. Se il piano promesso diventasse mai operativo, esso farebbe crollare le entrate fiscali di 15-17 miliardi d'euro; per colmare questa voragine bisognerebbe infliggere alla spesa pubblica un taglio mostruoso, con conseguente taglio della spesa sanitaria, di quella per l’istruzione in primo luogo e poi, visto che la scorta dei condoni si è ormai esaurita, ci vorrebbe una riforma delle pensioni da scatenare un’autentica rivoluzione di piazza.
2.       Seconda promessa: Difesa dei cittadini e prevenzione dei crimini. Per questo punto Berlusconi, furbescamente si è ben guardato dal fissare dei  riferimenti a numeri precisi, per cui ogni risultato può essere considerato come obiettivo raggiunto. I cittadini hanno la sensazione che la criminalità sia diminuita? Ad ogni modo, il tanto declamato poliziotto di quartiere, chi lo ha visto in giro?
3.       Terza promessa. Aumento delle pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese. Fatto? Berlusconi non ha detto agli italiani il beneficio avrebbe riguardato soltanto una piccola percentua­le degli interessati. Purtroppo per lui e per tanti anziani, invece, è andata proprio cosi: a chi aveva meno di 71 anni o un reddito di coppia d'oltre 6.800 euro all'an­no non è stato dato un solo cen-tesimo. Alla fine del 2002 c'erano ben 8 milioni di pensioni inferiori a 500 euro al mese Per portarle tutte al famoso milione, ci vorrebbero ben 8 mi­liardi d'euro, circa un punto e mezzo del Pil,  una cifra spropo­sitata che neppure l'immaginifi­co Giulio Tremonti saprebbe raggranellare da qui al 2006. Il programma dunque è rimasto sulla carta, e li morirà
4.       Quarta promessa. Dimez­zamento dell'attuale tasso di disoccupazione. Il dimezzamento del tasso di disoccupazione significava un calo dal 9,6% nel maggio 2001 al 4,8 del 2006. Ma una simile performance è da escludere, posto che nel luglio scorso si era ancora inchiodati all'8,3. Anche le previsioni governative per il 2004 parlano -d'un tasso superiore all'8%..
5.       Quinta promessa. Il paino decennale delle grandi opere. Anche qui furbescamente Berlusconi  non diceva che alludeva a una semplice posa di prime pietre e non a un completamento delle ope­re.
Nonostante i trucchetti, però, adesso Berlusconi è nei guai. Da­vanti al notaio egli mise nero su bianco quanto segue: "Nel caso in cui al termine dei 5 anni di go­verno almeno 4 di questi 5 tra­guardi non fossero stati raggiun­ti, Berlusconi s'impegna formal-mente a non ripresentare la pro­pria candidatura alle successive elezioni politiche". Ebbene, gli obiettivi dei punti 1,3 e 4 sono or­mai fuori della sua portata.
II nostro presidente del Consiglio ha bisogno d'un nuovo contrat­to". A fine settembre anche Ferrara ha chiesto di voltare pagina: "Perché siamo ancora fermi a Vespa, alle promesse e alla scri­vania di ciliegio su cui furono vergate?".
Per Berlusconi però c'è un problema urgente e dram­matico, impedire che il fallimen­to del Contratto 2001 venga cer­tificato ufficialmente. In quel ca­so l'inadempiente dovrebbe riti­rarsi a vita privata tra i fischi del­la gente. Ma come scongiurare la maledetta ipotesi? Truccare i da­ti dell'INPS o dell'ISTAT non è faci­le nemmeno per lui. La sua mi­gliore via d'uscita, gira e rigira, si chiama elezioni anticipate. Sol­tanto se la legislatura finisse pri­ma della scadenza del Contratto, primavera 2006, il premier po­trebbe dichiararsi non colpevole di alcuna violazione.
È da tempo oltretutto che si augura lo scioglimento delle Camere. Per prevenire il ritorno in Italia di Romano Prodi; per ridisegnare i rapporti di forza nel centrode­stra punendo gli alleati infidi; per tuffarsi a corpo morto nell'unica attività in cui eccelle, la propa­ganda violenta.

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…e i due saranno una carne sola
All'inizio della creazione Dio li «    creò maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola». {Marco 10,6-7). Purtroppo questo essere "una carne so­la" nell'atto sessuale, sì, ma soprattutto nella donazione delle due vite e del pro­prio amore, è stato spesso deformato in un gesto di violenza brutale. Già nella Genesi, dopo il peccato, quel rapporto è letto in tutt'altra forma: «Verso il tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà» (3,16).
L'amore ma anche la violen­za sono un po' il filo condutto­re della storia di una giovane donna, la cui vicenda amara è narrata nel capitolo 34 della Genesi. Il suo nome era Dina ed era la figlia che il patriarca Giacobbe aveva avuto dalla prima moglie Lia. Il clan ebrai­co si era accampato nei pressi di Sichem, una città posta nel­la regione centrale della Terra santa, la futura Samaria. La ra­gazza aveva voluto recarsi in città per incontrare e conosce­re qualche coetanea e divertir­si con lei.
La notò, forse proprio perché straniera, il figlio del principe della città, il cui nome era lo stesso di quello della città, Sichem. Fu un colpo di fulmine:
si innamorò, la corteggiò e riu­scì a conquistarla. Ma, anche dopo l'atto sessuale, il suo desi­derio era quello di sposarla. Giacobbe e i fratelli di Dina, sa­puta la notizia, s'indignarono
per quella che essi consideravano una violenza e una violazione delle norme procedurali matrimoniali dell'antico Vi­cino Oriente.
Nonostante la buona volontà
del pa­dre di Sichem, che aveva subito aperto il procedimento per legalizzare l'unio­ne di suo figlio con Dina, avviando una trattativa con Giacobbe, i fratelli di Di­na covavano in cuor loro il desiderio di vendicare quello che consideravano un affronto. Così escogitarono un tranello. Imposero come condizione che Sichem
e tutti i maggiorenti della città si circon­cidessero per avere, così, un'omogenei­tà culturale e religiosa con loro. Il princi­pe Sichem accolse questa proposta, con­vinse «quanti avevano accesso alla por­ta della sua città» - cioè i notabili e i guerrieri perché la "porta" era il nostro municipio o palazzo comunale e di go­verno - a circoncidersi.
È a questo punto che scatta la bruta­le vendetta dei fratelli di Dina. Ascol­tiamo il racconto biblico: «Al terzo giorno, quando i Sichemiti erano più sofferenti (per il taglio della circonci­sione), due figli di Giacobbe e fratelli di Dina, Simeone e Le­vi, presero ciascuno una spa­da, entrarono senza difficoltà in città e uccisero tutti i ma­schi. Passarono a fil di spada Sichem e suo padre, portaro­no via Dina e si allontanaro­no. Gli altri fratelli si buttaro­no sui cadaveri e saccheggia­rono la città» (34,25-27).
Giacobbe reagì a questa stra­ge, consapevole che sarebbe scattata la ritorsione da parte delle tribù collegate ai Sichemiti e fu costretto a trasferirsi col suo clan altrove. Anche in pun­to di morte ricorderà con asprezza la violenza di Simeone e Levi: «Strumenti di violenza sono i loro coltelli... Maledetta la loro ira, perché violenta, la lo­ro collera perché crudele!» {Gè-nesi 49,5-7). È curioso notare che Dina non dice una parola, lei che pure era innamorata di Sichem: è questo il segno di quei tempi (ma non solo!), in cui il maschio imperava e la donna era solo una suddita si­lenziosa e obbediente.
Ravasi Gianfranco, Famiglia Cristiana del 5 ottobre 2003

 

 

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