agosto 2004

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Ritorno a "Io penso che ..."

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Luglio Settembre Ottobre Novembre Dicembre

Sommario

  • La memoria e il ricordo 

  • Un'evoluzione epocale 

  • Se il cavaliere mi avesse dato ascolto

  • Tre punti chiave per il centrosinistra

  • Amori fino a cento anni 

  • C'erano una volta le istituzioni

  • Gli altri mesi 

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    Se il cavaliere mi avesse dato ascolto

    Se mi avesse dato retta... Un po' più di un anno fa avevo consigliato a Silvio Berlusconi, con le buone maniere e a fin di bene, di dare le dimissioni. Nell'interesse suo, dicevo, oltre che nostro. Aveva raggiunto gli obiettivi più urgenti (salvare l'azienda, proteggersi dai processi).
    L'obiettivo ambizioso (salvare l'Italia) era ormai chiaro, d'altra parte, che non lo avrebbe raggiunto mai. Poteva dunque ritirarsi in buon ordine, e trascorrere felicemente gli anni (gliene auguro tantissimi) che gli restano da vivere, godendo una parte infinitesimale della sua immensa ricchezza.
    Meglio stare alle Bahamas, dicevo, che negoziare con Bossi. Ma non mi ha ascoltato. E ormai è troppo tardi.
    Il giocattolo si è rotto. Non so quanto durerà il periodo finale dell'avventura: se qualche mese o un paio d'anni. Non so neanche quale sarà il suo percorso politico, se ci sarà la crisi di governo o lo sfascio della coalizione, lo scioglimento delle Camere o le elezioni fra due anni. Ma ormai è chiaro che l'episodio Berlusconi è chiuso. L'incanto è finito. I commenti dei giornali sono diventati irrispettosi, sarcastici, crudeli; le vignette sono spietate. Quanto a lui, basta vedere la sua espressione tirata, il volto stanco, per capire quanto ne soffra. Rimane

    adesso, dal punto di vista, diremo così, antropologico, un solo interrogativo: resta da vedere come Berlusconi gestirà il periodo finale del suo esperimento.

    Potrebbe chiudere male, fra patteggiamenti, affanni, meschinità, per rimandare di qualche mese la fine: episodi come l'abbandono di Monti a favore di Buttiglione fanno temere il peggio. Lo sappiamo: un leader in crisi può ricorrere a provvedimenti che, utili a lui nell'immediato, infliggono danni incommensurabili al paese. Provvedimenti quali la riduzione delle tasse, la crescita del debito pubblico. Ma non è detto. Si può anche mantenere, quando viene il momento di uscire di scena, la dignità, l'orgoglio. Non voglio ricorrere a paragoni irriverenti: ma nei giorni scorsi l'ex dittatore iracheno, quando ha apostrofato il giudice con tanta fierezza, una certa impressione l'ha fatta. Da Berlusconi non ci si aspetta niente di eroico. Mi auguro soltanto che voglia mostrare rispetto, in questo periodo finale dell'esperienza politica, per il suo personaggio: intendo dire, per se stesso.

    Perché il personaggio, lasciatelo dire a chi certamente non è un suo sostenitore, è fuori del comune. Io sono convinto che al paese abbia fatto più male che bene. Ma chi altro sarebbe stato capace di conseguire, uno dopo l'altro, tanti successi, fino a diventare uno degli uomini più ricchi al mondo; per poi presentarsi di punto in bianco, come ha fatto lui, nell'agone politico, riuscendo a mettersi un paese in tasca, un paese di sessanta milioni di abitanti? Lui c'è riuscito. Si dice di lui che è un venditore: ma in realtà se l'è comperata, questa nostra Italia, e l'ha tenuta in ostaggio per dieci anni. Ha tanti limiti, lo sappiamo. Ha un passato con tanti interrogativi. Eppure, industriali e intellettuali, uomini politici e persone bennate, giornalisti e maitres-à-penser si sono messi in fila, lo hanno seguito. Come ha fatto?

    Gli stranieri ci avevano messo in guardia, è vero: «Quest'uomo non è adatto a governare l'Italia...». Ma gli italiani ci sono caduti; voglio dire che sono caduti in suo potere, per un periodo abbastanza lungo, un decennio, della loro storia. E ora che il fenomeno volge al termine, bisognerà pure cominciare a studiarlo; cominciare a capire come sia stato possibile. Alla fine si scoprirà, probabilmente, una dose rilevante di ingenuità, o di opportunismo, fra chi ci ha creduto; ma si scopriranno anche qualità notevoli in colui che li ha affascinati.

    Nel personaggio, insomma. Saprà finire in bellezza, con una certa dose di magnanimità, con qualche bella trovata? Sarebbe l'ultimo successo.

    Piero Ottone da la Rpubblica del 3-8-04

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    Ed ora parliamo di cose serie

    Tre punti – chiave per il centrosinistra

    Il primo è quello della vivibilità del pianeta, che oltre ad un piano per la salvezza e la salubrità dell'acqua, richiede l'abbandono dei combustibili fossili per produrre energia. Queste non sono fantasie da ambientalisti fanatici. Il giorno ormai prossimo che  tre miliardi di indiani e di cinesi arriveranno a un consumo di energia vicino a quello attuale di settecentocinquanta milioni di americani e di europei sarà difficile capire se il pianeta sarà distrutto prima dalle guerre per il controllo di un petrolio ormai scarso o dai guasti giganteschi nel frattempo prodotti nell'atmosfera. Su tutti gli essere umani, quale che ne sia la figura sociale e il sindacato di appartenenza, incombe questo dilemma. Ed anche l'Italia avrà la sua parte da fare.

    Il secondo nodo riguarda la cura a trecentosessanta gradi che dovremo avere per quello che gli economisti chiamano "capitale umano". In un'Europa e in un'Italia che invecchiano, il capitale umano si assottiglia, ma diventa una risorsa sempre più preziosa, perché il nostro sviluppo sarà sempre più affidato alle nostre conoscenze, alle nostre competenze, alla nostra inventiva. Come far si, allora, che nessun bambino che nasce si perda nel deserto dell'esclusione, come assicurare ad ogni giovane i gradi più alti dell'istruzione, come fare dell'istruzione la palestra della conoscenza e non la fabbrica dei diplomi di carta, come dare vita davvero alla formazione permanente, come costruire un'economia che tutto questo lo valorizzi e non finisca poi per tenerlo ai margini? Ci vorranno le risposte, qui, e non più le sole domande.

    Il terzo nodo è quello del rapporto fra pace e sicurezza, fra lotta al terrorismo e lotta alle cause del terrorismo. È un terreno difficile questo per la si-nistra e forse al suo interno non ci sarà mai un accordo pieno sull'uso pur limitato delle armi. Ma l'accordo potrà essere sugli interventi per sradicare la povertà, su quelli per promuovere i diritti democratici nel mondo, su ciò che va fatto, senza ipocrisie, per uno stato palestinese e uno stato israeliano che si riconoscano a vicenda. E sarà già moltissimo.

    Non è tutto, ma basta a capire ciò che dobbiamo fare: entrare nel futuro guardando al futuro e non a ciò che abbiamo alle spalle. Solo su questa strada troveremo anche un'idea che possa essere semplice senza essere effimera.

    Giuliano Amato, da la Repubblica del 3-8-04

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    Un’evoluzione epocale

    Quello che stiamo vivendo è una fase  di turbolento trapasso da un passato di relativa stabilità a un futuro di cui tutti percepiamo la diversità, ma non sappiamo decifrarne i connotati. Lo so che cose simili le si è dette molto spesso per nulla di più della normale evoluzione della storia. Ma ora nelle nostre società il cambiamento è davvero radicale, forse non come quando crollò l'impero romano, di sicuro però come all'alba dell'industrializzazione. Chi le chiama società del rischio, chi società dell'incertezza e chi parla di disordine mondiale al posto di quello che, a suo modo, fu a lungo -un ordine mondiale. Certo si è che per decenni noi siamo cresciuti entro l'economia, le regole e le istituzioni della società industriale matura in un mondo affidato all'equilibrio bipolare fra Stati Uniti e Unione Sovietica, nel quale il benessere era per noi,  mentre i poveri li si accontentava con l'indipendenza. Oggi nulla di tutto questo è più vero: l'equilibrio bipolare non c'è più e i nuovi conflitti accendono focolai ovunque, anche in casa nostra; nel mercato globale ci sono nuovi paesi che si sviluppano mettendo noi alla frusta; nuove tecnologie entrano a velocità crescente nell'economia, modificando l'organizzazione della produzione e del lavoro e rendendo incerto il domani anche a chi, con gli studi di un tempo, se lo sarebbe assicurato sino alla vecchiaia.

    Giuliano Amato, da la Repubblica del 3-8-04

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    La memoria e il ricordo

    Frequentavo le elementari quando subii il primo inquadramento: i ballila. Con tale qualifica ebbero inizio le prime adunate, le prime parate, i primi doveri. Con l'andare del tempo divenni automaticamente "avanguardista" per poi passare, sempre automaticamente, alla G.I.L. cioè Gioventù Italiana del Littorio, e se non fossero precipitati gli eventi, da adulto, avrei dovuto vestire l'orrido e luttuoso orbace. Da giovane fascista i doveri crebbero, le marce si allungarono, si marciava con portamento marziale, col petto in fuori e l'addome contratto, come ci veniva insegnato dai nostri istruttori, cantando "Giovinezza" nell’allora Piazza Duomo. C'era il discorso del duce radiotrasmesso e diffuso con gli altoparlanti. Si doveva ascoltarlo in sacro silenzio.

    In quel periodo non c'erano ancora i murales, però i muri della città erano costellati di scritte apprensive e inquietanti: "Noi tireremo dritto"; "II nostro destino è sul mare"; "II duce non ha bisogno di consigli"; "Per aspera ad astra"; "Tunisi, Gibuti, Biserta, a noi"; "L'uomo caldo è una forza, l'uomo freddo è una forza, solo l'uomo tiepido vale nulla". E io, povero ragazzo, mi lambiccavo il cervello preoccupato se per caso fossi stato un uomo tiepido. Ogni sabato era d'obbligo recarsi al castello, ove ci veniva insegnato a conoscere il funzionamento del fucile 91: smontare e rimontare l'otturatore, regolare la lunghezza del tiro attraverso l'alzo, e sempre marciare, sempre impettiti.

    Infine, un brutto giorno mi dissero che il mio nemico giurato era l'Inglese, quello dai cinque pasti al giorno — io ne consumavo a stento due. Mi misero in grigio-verde, mi armarono dell'obsoleto 91, con il quale avrei dovuto affrontare il "perfido Albione" dotato del micidiale Sten, mi sbatterono senza indugi in Africa. Questo durò per lunghi anni. Anni di rischio, di indicibili sofferenze e di privazioni inumane. Poi, sempre gli stessi, mi dissero che l'Anglo-Americano non era più il mio nemico, mi era diventato amico, che il vero nemico era quello di sempre, il Teutone, il barbaro e spietato Tedesco.

    Purtroppo in questa tragica altalena, fra amico e nemico, si dissolveva come nebbia al sole la mia giovinezza. Poi il boato dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki. L'immane tragedia era finita. Ed erano anche finiti i miei anni verdi, gli anni dei sogni e dei castelli in aria.

    Ora sono tanto vecchio, non faccio più progetti perché non ho più avvenire, e vivo nell'amaro rimpianto di non aver potuto vivere appieno la giovinezza.

    Lettera a la Repubblica del 3-8-04

    In questa bella lettera è significativo l’ultimo paragrafo, rivelatore di un atteggiamento di rassegnazione piena di rimpianti: il ricordo della giovinezza (minuscolo e senza punto esclamativo).  Ma chi la scrive di avere ancora un ruolo positivo ed attivo: ha trasmesso (in controluce, per contrasto) la memoria di valori, una autentica “tradizione” che ha un ruolo tutt’altro che passivo per i sentimenti e i comportamenti che certamente susciterà nei giovani di oggi, affinché l’umanità mai più debba vivere una giovinezza come quella.

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    Amori fino a cent’anni!

    Aristofane, che univa una certa malizia alle sue osservazioni legate alla gastronomia dei Greci, diceva anche che la pianta era sacra a Venere e precisava che, tra le tante proprietà dell'ortica, vi era certo quella di giovare, negli anni, ai "vetusti amatori"! Sarà per questo motivo che la nostra ortica godette di dubbia fama nel Medio Evo? Cosa si intendeva con la frase "gettare la tonaca alle ortiche", locuzione tipicamente medievale, se non che il santo frate, stanco di eccessiva castità, scegliesse altre vie di santificazione? Avrebbe potuto benissimo gettare la tonaca ai rovi o ad altri arbusti, la scelta delle ortiche era invece molto precisa e motivata! Del resto, per tutto il Medio Evo, l'ortica resta la pianta "delle streghe" durante i Sabba, e non solo da noi, ma anche presso i popoli nordici:

    basti ricordare il racconto della "Principessa dagli undici fratelli" che, per il malefìcio di una strega, dovette confezionare undici maglioni con "lana d'ortica", e per giunta a tempo di record, come ci narra Hans Christian Andersen.

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    C'erano una volta le istituzioni 

    Lui dice di ispirarsi a De Gasperi

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