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Abbazia di Loreto di Mercogliano

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Il Palazzo Abbaziale di Loreto di Mercogliano

 

La Biblioteca pubblica statale annessa al Monumento nazionale di Montevergine è ubicata all'interno del palazzo abbaziale di Loreto di Mercogliano e la sua storia è legata alla Congregazione monastica verginiana di Montevergine, che ha da sempre abitato il monastero sulla sommità del monte Partenio.

 

Quest'ordine fu fondato da un giovane pellegrino proveniente dal Nord Italia, Guglielmo da Vercelli, il quale, di ritorno dal santuario spagnolo di San Giacomo di Compostela, ridiscendeva la Penisola italica con l'intenzione di recarsi in Terra Santa, dove non giunse mai. Si fermò invece a Bari, da dove si spostò dapprima nel beneventano e infine ad Atripalda. Fu qui che gli apparve, allora assolutamente impervio e desolato, il monte Partenio sulla cui cima compì ben presto una prima ascensione, aiutato dai suoi premurosi ospiti atripaldesi, allo scopo di verificare l'esistenza di sorgenti di acqua; trovatele, Guglielmo decise di stabilirsi sul monte, per dedicarsi ad una vita mistica e di adorazione della Madonna.
In brevissimo tempo si propagò ovunque la fama del giovane eremita che viveva su Montevergine in solitudine, così Guglielmo fu raggiunto da molti altri giovani che, come lui, aspiravano ad una vita di puro ascetismo. Essi, animati soltanto da fede incrollabile, iniziarono a costruire una chiesa sul monte, la cui consacrazione avvenne nel maggio del 1126, giorno di Pentecoste: è questa la data da cui si fa principiare anche la gloriosa e plurisecolare vita della Congregazione dei monaci di Montevergine, i quali si ispirarono alla famosa regola benedettina riassunta nel noto adagio ora, lege et labora.
Il clima molto rigido sul monte e la dieta alimentare di tipo quaresimale che osservavano i monaci (dieta che impediva loro di mangiare carne, uova, formaggi), misero a dura prova la loro resistenza fìsica, per cui ben presto essi decisero di costruire una casa più a valle, in una zona in cui il clima fosse stato più mite, soprattutto per andare a trascorrervi i mesi più freddi dell'inverno e per curarsi quando erano malati. E certo che già dal 1195 i monaci avevano costruito questo palazzo che sorgeva sulla strada che conduce a Mercogliano, l'attuale via abate Ramiro Marcone, salendo sulla sinistra, subito dopo l'incrocio con la strada che proviene da Torelli; questo palazzo andò distrutto a causa di un terremoto nel novembre del 1732. Nel capitolo dell'anno successivo i monaci decisero di costruire un nuovo palazzo, più grande, in una zona diversa. Fu individuata l'area nella contrada Croce di Vesta (dove ancora esiste una croce in ferro battuto) e già alla fine del 1733 l'architetto al quale l'abate del tempo Angelo Maria Federici aveva deciso di affidarne il progetto, il noto Domenico Antonio Vaccaro, aveva fatto un sopralluogo approvando la scelta del sito effettuata dal monaci.

Tuttavia, appena iniziati, i lavori di costruzione subirono un'interruzione a causa di un ricorso presentato dai vicini paesi di Mercogliano ed Ospedaletto: tra le varie motivazioni del ricorso vi era anche rappresentato che la nuova fabbrica, per la cui costruzione si stava disboscando la montagna, era cosi grande che nei giorni di pioggia l'acqua che scendeva dall'alto avrebbe incontrato il grosso ostacolo del palazzo e sarebbe defluita nei campi circostanti, allagandoli. Il vero motivo del ricorso era però un altro: i paesi si preoccupavano che i monaci avrebbero utilizzato il vecchio palazzo, parzialmente distrutto dal terremoto, per farne ostelli e ristoranti per servire il già numeroso turismo religioso, togliendo dunque loro opportunità di guadagno. Sia come sia, quest'interruzione durò circa un decennio, durante il quale Domenico Antonio Vaccaro lavorò anche presso l'Abbazia del Goleto di Sant'Angelo dei Lombardi (abbazia femminile, anch'essa fondata da San Guglielmo, in cui entrare era un privilegio riservato alle nobil donne dell'aristocrazia normanna), a quella che è ancora adesso conosciuta come la Chiesa grande del Vaccaro.
Nel frattempo però Vaccaro morì, nel giugno del 1745, e dunque suo naturale sostituto parve ai monaci di Montevergine l'ingegnere napoletano Michelangelo Di Blasio, il quale aveva già visitato la costruenda fabbrica in qualità di funzionario regio per dirimere la questione posta dai paesi di Mercogliano e di Ospedaletto con il ricorso di cui si è già detto. L'intervento di Michelangelo Di Blasio non fu di poco conto: egli infatti demolì una torre, già in avanzata fase di costruzione, che doveva servire, secondo gli intenti di Vaccaro, da residenza dell'abate, e realizzò le due imponenti rampe di scale che ci si trova dinanzi appena varcato il portone d'ingresso. Nonostante i due direttori dei lavori, Vaccaro e Di Blasio, si fossero ispirati a principi architettonici completamente opposti, preferendo il primo la linea curva ed il secondo quella retta, il palazzo ha assunto un carattere di grande originalità, per cui può considerarsi, per lo meno in Campania, unico nel suo genere.

Ancora adesso abitato dalla gloriosa famiglia di monaci verginiani, che continuano ad osservare la clausura, seppure non in maniera così rigida come lo fu all'inizio, esso custodisce al suo interno autentici tesori, a cominciare dalle volte affrescate da Antonio Vecchione, quelle del portone d'ingresso e delle due sale dell'Archivio diocesano. Inoltre, gli stucchi e le decorazioni dei soffitti, opera dei fratelli Conforto di Calvanico che si possono ammirare nel salone settecentesco al piano superiore, abbellito da un rivestimento di damasco rosso del 1957 e da tre arazzi cinquecenteschi di scuola fiamminga (altri tre adornano il refettorio); una galleria di ritratti di abati, di cui due (quello dell'abate Grasso e quello dell'abate Corvaia) furono eseguiti da Vincenzo Volpe, noto esponente dell'Ottocento pittorico napoletano, ma originario di Grottaminarda, la cappella con un altare di marmi policromi ed un dipinto di Paolo De Maio, specializzato in soggetti religiosi ed allievo del più famoso Francesco Solimena; infine la farmacia. con i suoi preziosi vasi, ognuno dei quali reca sul fronte lo stemma dell'abbazia. ospitati in bacheche in noce, eseguite in ottimo stile settecentesco. I monaci di Montevergine furono in grado di far funzionare autonomamente la farmacia fino all'emanazione delle leggi di soppressione delle corporazioni religiose: nella inevitabile confusione che seguì a questi provvedimenti, andò irrimediabilmente smarrito quel vasto patrimonio di conoscenze erboristiche e dunque la farmacia fu chiusa e mai più riaperta, seppure dopo un breve periodo, tra la fine dell'800 e i primi decenni del '900 in cui fu affidata a dei farmacisti esterni.
Quando i lavori del palazzo furono conclusi, intorno al 1750, vi fu trasferita la sezione archivistica del Santuario: la già considerevole produzione dello scrittotorio verginiano, cui aveva dato impulso la regola osservata da San Guglielmo e dai suoi confratelli, si avviava così a configurarsi come futura biblioteca. Con l'Unità d'Italia uno dei primi provvedimenti emanati dal nuovo Stato unitario fu il decreto di soppressione delle corporazioni religiose che, facendo seguito alle analoghe leggi del 1807 emanate dal governo francese nel Regno di Napoli, alimentò una situazione di grande confusione generale, della quale facevano ovviamente le spese anche i monasteri e i diversi ordini religiosi che custodivano tesori di inestimabile valore. Anche la Biblioteca di Montevergine dové fare l'inventario delle tante opere andate smarrite nel corso dei secoli, o pignorate da giudici, o disperse in mare, o ancora "confluite" nei fondi di altre istituzioni bibliotecarie.
Nel 1868 Montevergine venne dichiarato Monumento nazionale ed affidato per la custodia ai vecchi proprietari, i quali tuttavia consideravano lo Stato italiano un ingiusto detentore dei loro beni: soltanto con il Concordato tra la Santa Sede e il Governo italiano, firmato l'11 febbraio 1929, si legalizzò la soppressione delle corporazioni religiose e si consentì ai monaci di prendere coscienza del nuovo assetto giuridico della Biblioteca, divenuta proprietà dello Stato italiano. Infine, con il Regolamento per le biblioteche pubbliche governative approvato nel 1907, fu sancita in via definitiva l'appartenenza allo Stato delle Biblioteche annesse ai Monumenti nazionali e nel nuovo Regolamento delle biblioteche statali (D.P.R. 5/VII/199.5, n. 417) esse vengono elencate, regione per regione, di seguito alle biblioteche nazionali centrali e a quelle nazionali.

 

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