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Il Palazzo Abbaziale di Loreto di Mercogliano
La Biblioteca pubblica statale annessa al Monumento nazionale di Montevergine è ubicata all'interno del palazzo abbaziale di Loreto di Mercogliano e la sua storia è legata alla Congregazione monastica verginiana di Montevergine, che ha da sempre abitato il monastero sulla sommità del monte Partenio.
Quest'ordine fu fondato da un giovane pellegrino proveniente dal
Nord Italia, Guglielmo da Vercelli, il quale, di ritorno dal
santuario spagnolo di San Giacomo di Compostela, ridiscendeva la
Penisola italica con l'intenzione di recarsi in Terra Santa,
dove non giunse mai. Si fermò invece a Bari, da dove si spostò
dapprima nel beneventano e infine ad Atripalda. Fu qui che gli
apparve, allora assolutamente impervio e desolato, il monte
Partenio sulla cui cima compì ben presto una prima ascensione,
aiutato dai suoi premurosi ospiti atripaldesi, allo scopo di
verificare l'esistenza di sorgenti di acqua; trovatele,
Guglielmo decise di stabilirsi sul monte, per dedicarsi ad una
vita mistica e di adorazione della Madonna.
Tuttavia, appena iniziati, i lavori di costruzione subirono
un'interruzione a causa di un ricorso presentato dai vicini
paesi di Mercogliano ed Ospedaletto: tra le varie motivazioni
del ricorso vi era anche rappresentato che la nuova fabbrica,
per la cui costruzione si stava disboscando la montagna, era
cosi grande che nei giorni di pioggia l'acqua che scendeva
dall'alto avrebbe incontrato il grosso ostacolo del palazzo e
sarebbe defluita nei campi circostanti, allagandoli. Il vero
motivo del ricorso era però un altro: i paesi si preoccupavano
che i monaci avrebbero utilizzato il vecchio palazzo,
parzialmente distrutto dal terremoto, per farne ostelli e
ristoranti per servire il già numeroso turismo religioso,
togliendo dunque loro opportunità di guadagno. Sia come sia,
quest'interruzione durò circa un decennio, durante il quale
Domenico Antonio Vaccaro lavorò anche presso l'Abbazia
del Goleto di Sant'Angelo dei Lombardi (abbazia femminile,
anch'essa fondata da San Guglielmo, in cui entrare era un
privilegio riservato alle nobil donne dell'aristocrazia
normanna), a quella che è ancora adesso conosciuta come la
Chiesa grande del Vaccaro.
Ancora adesso abitato dalla gloriosa famiglia di monaci
verginiani, che continuano ad osservare la clausura, seppure non
in maniera così rigida come lo fu all'inizio, esso custodisce al
suo interno autentici tesori, a cominciare dalle volte
affrescate da Antonio Vecchione, quelle del portone d'ingresso e
delle due sale dell'Archivio diocesano. Inoltre, gli stucchi e
le decorazioni dei soffitti, opera dei fratelli Conforto di
Calvanico che si possono ammirare nel salone settecentesco al
piano superiore, abbellito da un rivestimento di damasco rosso
del 1957 e da tre arazzi cinquecenteschi di scuola fiamminga
(altri tre adornano il refettorio); una galleria di ritratti di
abati, di cui due (quello dell'abate Grasso e quello dell'abate
Corvaia) furono eseguiti da Vincenzo Volpe, noto esponente
dell'Ottocento pittorico napoletano, ma originario di
Grottaminarda, la cappella con un altare di marmi policromi ed
un dipinto di Paolo De Maio, specializzato in soggetti religiosi
ed allievo del più famoso Francesco Solimena; infine la
farmacia. con i suoi preziosi vasi, ognuno dei quali reca sul
fronte lo stemma dell'abbazia. ospitati in bacheche in noce,
eseguite in ottimo stile settecentesco. I monaci di Montevergine
furono in grado di far funzionare autonomamente la farmacia fino
all'emanazione delle leggi di soppressione delle corporazioni
religiose: nella inevitabile confusione che seguì a questi
provvedimenti, andò irrimediabilmente smarrito quel vasto
patrimonio di conoscenze erboristiche e dunque la farmacia fu
chiusa e mai più riaperta, seppure dopo un breve periodo, tra la
fine dell'800 e i primi decenni del '900 in cui fu affidata a
dei farmacisti esterni. |
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