BATTAGLIA DELLE MARIANNE

(SECONDA BATTAGLIA DEL MAR DELLE FILIPPINE)

(NAVAL BATTLES OF MARIANNE'S ISLANDS)

19-20 GIUGNO 1944

(LA PIU' GRANDE BATTAGLIA TRA PORTAEREI DELLA STORIA)

                    


RIUYO

TAIHO

JUNYO

SHOKAKU

HIYO

ZUIKAKU

WASP (CV18) ENTERPRISE (CV6)
LEXINGTON (CV16) ESSEX (CV9)
HORNET (CV12) YORKTOWN (CV10)

La Battaglia delle Marianne fu indubbiamente la più grande e spettacolare battaglia tra portaerei della Seconda Guerra Mondiale e quindi della storia stessa delle battaglie navali. Si fronteggiarono da un lato l'invincibile armada americana, composta da un numero impressionante di portaerei, corazzate e incrociatori, dall'altro l'intera Marina Imperiale giapponese, pronta al sacrificio estremo. Analizzando meccanicamente il numero delle forze in campo verrebbe subito da pensare che gli americani avessero fin dall'inizio il favore del pronostico (erano infatti superiori per il numero di navi e di aerei imbarcati). I giapponesi potevano però contare sul "fattore campo", cioè sul fatto che "giocavano in casa". Avevano infatti a disposizione un impressionante quantitativo di aerei di base sulle isole dell'arcipelago delle Marianne, pronti a colpire mortalmente le portaerei americane. La situazione tattica all'inizio della battaglia non era quindi nettamente a favore degli americani, ma in stallo. Sembra paradossale, ma la più grande battaglia tra portaerei fu risolta a favore degli americani dalla più infida arma navale, il sommergibile. Fu infatti il sommergibile americano "Cavalla" ad affondare in rapida successione le due più grandi ed importanti portaerei giapponesi, la nuovissima Taiho e la gloriosa Shokaku, privando la flotta giapponese di un numero considerevole di aerei e facendo praticamente vincere la Seconda Guerra Mondiale agli americani stessi. E' indubbio che stavolta, al contrario delle Midway, furono i giapponesi ad avere in mano la situazione. I giapponesi infatti scoprirono subito la flotta americana e gli scagliarono contro quattro attacchi in rapida successione. Gli americani scoprirono solo a fine battaglia la flotta giapponese e poterono compiere solo un estremo e difficoltoso attacco. Non è blasfemo affermare che se fossimo stati all'epoca delle Midway i giapponesi avrebbero distrutto l'armata americana cogliendo una strepitosa vittoria, purtroppo due anni dopo l'aviazione americana surclassava ormai quella giapponese e tutti gli attacchi aerei nipponici si risolsero in una ecatombe di aerei (il famoso "Tiro al Piccione delle Marianne"). La sconfitta giapponese è da addebitarsi non certo all'eccellente condotta tattica di Ozawa, ma all'inesperienza dei piloti e al fatto che gli aerei giapponesi erano ormai inferiori a quelli americani (gli Hellcat erano ormai il terrore degli Zero). Il fior fiore dei piloti del Sol Levante era ormai andato in cielo dopo la disfatta delle Midway e la vittoria costosissima di Santa Cruz. (Shinano)


PREMESSA

La battaglia delle Marianne fu combattuta dai giapponesi per tentare a tutti i costi di impedire la conquista americana di questo importantissimo e strategico arcipelago del Pacifico Occidentale.  L'arcipelago delle Marianne doveva infatti essere conquistato a tutti i costi dagli americani perché a causa della sua posizione strategicamente fondamentale avrebbe permesso ai nuovi super bombardieri B-29 di bombardare direttamente il suolo giapponese e contemporaneamente le isole di Saipan e Guam sarebbero state basi ideali per permettere il successivo balzo verso le Filippine.

Il primo attacco alle Marianne avvenne il 23 febbraio del 1944 e fu operato dalla poderosa Task Force dell'ammiraglio Mitscher.

L'impresa non fu facile perché la flotta americana venne intercettata da un bimotore da ricognizione giapponese e prima che le portaerei fossero pronte a far decollare gli aerei, numerosi apparecchi nipponici attaccarono con accanimento la Task Force 58.

Per quattro ore gli aerei giapponesi cercarono di colpire le navi americane e poco mancò che non ottenessero risultati.

Le portaerei Essex, Yorktown e Belleau Wood furono prese particolarmente di mira e i rispettivi comandanti evitarono una catastrofe eseguendo audaci e brutali manovre che sviarono gli assalitori.

Alcuni aviatori giapponesi, visti fallire gli attacchi classici, ripeterono il gesto disperato di gettarsi in una fatale picchiata sull'obiettivo.

Il pilota di un bimotore Nick sganciò una bomba sulla Yorktown, ma essendosi reso conto che l'ordigno non avrebbe colpito la portaerei americana, piombò diritto sul ponte della nave, in quel momento ingombro di aerei pronti alla partenza.

Gli artiglieri americani lo polverizzarono appena poche centinaia di metri sopra la portaerei.

Due apparecchi nipponici Betty della marina tentarono attacchi dello stesso genere (kamikaze poi saranno chiamati) ma fecero la stessa fine prima di schiantarsi.

Gli aerei americani decollarono e attaccarono con vigore le isole principali (Saipan, Tinian, Rota e Guam) causando gravi danni e distruggendo un gran numero di aerei giapponesi negli aeroporti nemici.  La Task Force 58 continuò la sua azione distruttiva nelle Caroline (furono abbattuti 150 aerei giapponesi contro 35 americani) e contro la potente base navale di Palau (furono distrutte le installazioni e affondato naviglio di scorta e petroliere per 100,000 tonnellate, oltre che 2 cacciatorpediniere).

Prima e dopo di questi attacchi la Task Force 58 si concentrò e praticamente distrusse la più grande base giapponese del Pacifico, quella di Truk.

Il primo attacco, portato il 17 febbraio, rase al suolo le strutture della base e distrusse 296 aerei giapponesi contro solo 25 aerei americani.

Gli americani si videro danneggiata una sola portaerei la Intrepid.

Il secondo attacco, datato 25 aprile del 1944, rase nuovamente al suolo le strutture appena ricostruite e causò l'affondamento di tutte le navi presenti della rada oltre che la perdita di 104 aerei giapponesi contro solo 27 americani.  Il cerchio sulle isole Marianne si stringeva sempre più.  


IL PIANO A-GO

Il 3 maggio del 1944 l'ammiraglio Soemu Toyoda fu nominato comandante in capo delle forze aeronavali giapponesi, ma tale nomina divenne ufficiale solo il 5 maggio quando divenne ufficiale la morte dell'ammiraglio Koga (caduto con il suo aereo sulla spiaggia di Mindanao, nelle Filippine a causa di un violentissimo uragano).

Non appena nominato Toyoda decise di riorganizzare la flotta imperiale e la articolò in modo molto simile a quello adottato per le task Force americane.

Il piano A-Go fu preparato per difendere fino allo stremo l'arcipelago delle Mariane, di importanza vitale per la difesa del Giappone e molto vicino fisicamente ale basi giapponesi e quindi in grado di permettere una grande sortita alla flotta senza eccessivo consumo di carburante.

Non dimentichiamo infatti che dopo la battaglia di Santa Cruz (26 ottobre 1942) la flotta imperiale non aveva più impegnato combattimento con gli americani a causa della gravissima mancanza di combustibile utilizzabile, causata dai continui affondamenti di petroliere giapponesi da parte dei sommergibili americani.

Il piano A-Go era semplicissimo e si basava sul seguente postulato: attirare la flotta americana nel settore marittimo del triangolo Marianne - Palu - Caroline occidentali, dove l'azione congiunta della marina  e dell'aviazione con base a terra avrebbe annientato le Task Forces nemiche e avrebbe impedito, contemporaneamente, l'invasione americana.

La nuova organizzazione navale giapponese aveva assunto il nome di "prima forza mobile" e comprendeva la quasi totalità della flotta imperiale, posta agli ordini del vice ammiraglio Ozawa.

A somiglianza dell'organizzazione americana la prima forza mobile giapponese era centrata su una squadra di 9 portaerei (3 portaerei pesanti: Shokaku, Zuikaku e la nuovissima Taiho; 6 portaerei leggere), circondate e protette da una poderosa scorta di corazzate, di incrociatori e cacciatorpediniere.

Questa flotta si riunì il 16 maggio per rifornirsi di carburante nella rada di Tawi Tawi nelle isole Sulu, le più meridionali delle Filippine.

Però le navi non furono rifornite con nafta raffinata ma con petrolio grezzo proveniente dal Borneo (data la cronica scarsità di nafta per le navi giapponesi si optò per questo surrogato pericoloso perchè oltre ad incrostare le caldaie aumentava notevolmente il pericolo di incendi).

Ad aiuto della prima forza mobile venne creata la prima flotta aerea (composta da ben 540 apparecchi), suddivisi però su un numero troppo elevato e diversivo di isole (primo errore grave tattico dei giapponesi).

Per difendere le isole delle Marianne dall'invasione americana furono sbarcarti ben 30.000 uomini, comandati dal luogotenente generale Saito.

Comandate delle forze terrestri della marina (6.900 uomini) e dell'aviazione con base a terra (22° flottiglia) era il vice ammiraglio Nagumo, eroe di Pearl Harbor ma anche il principale colpevole della disfatta di Midway.  Per la cronaca Nagumo e Saito non si potevano sopportare perchè l'anziano e vigorosa Saito rimproverava a Nagumo di non riuscire ad impedire agli americani di attaccare continuamente i suoi trasporti di truppe.

In conclusione possiamo dire che il Giappone aveva adottato provvedimenti vigorosi per mantenere ad ogni costo il possesso dell'arcipelago delle Marianne.

Il punto fondamentale del piano A-Go rimaneva concentrato sull'azione delle forze aeree con base a terra, dalle quali ci si aspettava molto, addirittura assai di più di quanto ci si aspettasse dall'aviazione imbarcata, sull'efficacia della quale molti comandanti della marina nutrivano fondati dubbi.

I gruppi aerei delle portaerei giapponesi erano stati ricostruiti (dopo le ecatombe di aerei subite a Midway e a Santa Cruz) con grande fatica ed i piloti, appena usciti da corsi accelerati, non possedevano abilità ed esperienza, avendo potuto effettuare ben poche esercitazioni a causa della cronica mancanza di carburante.


LE FASI PREPARATORIE


Il piano americano per la conquista delle Marianne prevedeva innanzitutto lo sbarco e la conquista dell'isola di Saipan, punto chiave  per la difesa dell'arcipelago. Conquistata Saipan l'attenzione americana si sarebbe rivolta su Guam e Tinian, per poi costruire gli aeroporti necessari per bombardare il Giappone. Questa grande operazione aeronavale venne battezzata "operazione Forager".

La flotta americana, proveniente da tutto il Pacifico, si concentrò l'8 giugno nell'atollo di Eniwetok. Questa grande "armada" poteva contare su non meno di 735 unità, escluse naturalmente le imbarcazioni leggere da sbarco, aveva come effettivi 250.000 marinai e trasportava truppe da sbarco composte circa 100.000 unità.

L'8 giugno la Task Force 58 partì da Enitewok in direzione delle Marianne. Domenica 11 giugno 200 aerei da caccia partirono dalle portaerei della Task Force 58 e si diressero su Saipan.

I giapponesi reagirono prontamente e fecero partire tutti gli aerei presenti su Saipan e nelle isole vicine. La battaglia aerea che seguì fu gigantesca e spaventosa. Ancora una volta i piloti americani dimostrarono la loro superiorità e fecero strage di aerei giapponesi. Al termine dello scontro aereo i giapponesi avevano perduto 124 apparecchi contro i soli 11 persi dagli americani. Questa ecatombe liberava da una grave preoccupazione lo stato maggiore americano e distruggeva, allo stesso tempo, gran parte del dispositivo di difesa giapponese (il piano A-Go).

Il mattino del 12 giugno i bombardieri e gli aerosiluranti della Task Force 58 bombardarono Saipan, senza trovare più alcuna resistenza da parte dei caccia giapponesi. Le devastazioni provocate furono molto gravi ma non intaccarono molto il sistema dispositivo giapponese.

Il mattino del 13 giugno la flotta giapponese partiva da Tawi -Tawi in direzione dell'arcipelago delle Marianne. Il viaggio di avvicinamento all'arcipelago fu funestato da una serie di seri incidenti che portarono alla perdita di una petroliera, di un cacciatorpediniere e di sette aerei della Taiho. Il 15 giugno, alle ore 9.00, l'ammiraglio Toyoda invio a Ozawa il celebre messaggio che ricordava quello dell'ammiraglio Togo prima della battaglia di Tsushima: "Le sorti dell'Impero dipendono da questa battaglia. Ognuno dovrà dare il meglio di sè".


LO SBARCO A SAIPAN


Nella notte dal 14 giugno al 15 giugno 1944 la Task Force 58 si avvicinò a Saipan e raggiunse le posizioni previste dal piano Forager.  Dalle 5.30 alle 8.00 l'isola fu sconvolta dai grandi calibri delle corazzate e dalle bombe degli aerei. Nella battaglia che aveva inizio si fronteggiavano gli uomini del generale giapponese Saito e il Quarto Marines del generale americano Holland Smith. Lo sbarco americano e la successiva avanzata nell'interno, furono assai penosi e tribolati a causa del preciso e violentissimo fuoco di artiglieria fatto dai cannoni del generale Saito, posizionati all'interno dell'isola. Oltretutto la corazzata Tennesse fu messa fuori combattimento da una postazione costiera.

Durante il  primo ed il secondo giorno di combattimenti gli americani dovettero pagare caro ogni metro di Saipan conquistato. La notte del terzo giorno fu testimone di una rabbiosa controffensiva giapponese che schierò tutti i carri armati disponibili, decisa a ricacciare a mare gli americani. Al termine di una furiosa battaglia notturna i giapponesi avevano perso ben settecento uomini e ventinove carri armati, uno smacco enorme e preoccupante per il generale Saito. Il mattino del quarto giorno la Task Force 58 si allontanò dall'isola, pronta a dar battaglia alla flotta di Ozawa. Approfittando di questa assenza i giapponesi sferrarono un forte attacca aereo contro le posizioni americane a Saipan, causando l'affondamento di un trasporto di carri armati e il danneggiamento della portaerei di scorta Fashion Bay, perdendo però ben 19 aerei. Per la sera del 18 giugno, dopo penosi e furiosi combattimenti gli americani potevano dire di aver conquistato almeno la parte sud di Saipan.


LA BATTAGLIA HA INIZIO

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Il 16 giugno, alle 16.5°, la squadra di corazzate dell'ammiraglio Ugaki si congiunse con quella di Ozawa e la flotta mobile, terminato il rifornimento il 17 giugno alle 20, fece rotta direttamente sulle Marianne. Le navi rifornimento avevano ricevuto l'ordine di aspettare di nuovo la flotta in un punto situato 14° 40' nord e 134° 20' est. L'ammiraglio Ozawa era stato informato di tutti i movimenti americani e sapeva in particolare che le isole di Iwo lima e di Chichi lima erano state attaccate il 15 e il 16 giugno. Non ignorando che la Task Force 58 era al corrente dei suoi movimenti, Ozawa sperava che essa sarebbe rimasta nelle vicinanze di Saipan per coprire lo sbarco e che non si sarebbe spinta al largo cercando il combattimento. Un rapido esame degli effettivi impegnati da una parte e dall'altra dimostrava che gli americani avevano più navi e più aerei di lui, ma egli godeva di un certo numero di vantaggi dai quali faceva conto di trarre profitto. In primo luogo, avrebbe agito a breve distanza dalle basi e l'azione combinata dell'aviazione delle portaerei e di quella con basi a terra (Guam, Rota e Yap) sarebbe stata più efficace e avrebbe diminuito i tempi di volo. In secondo luogo, sapeva che i suoi aerei, più leggeri e meno protetti di quelli americani, avevano in compenso una ben più grande autonomia e potevano individuare la flotta americana prima di essere a loro volta scorti. In ultimo, i venti da est, predominanti, gli avrebbero permesso di far partire e di far appontare i suoi aerei senza praticamente cambiare rotta, e di avvicinarsi in tal modo senza perdere tempo.
D'altro canto, il piano delle operazioni tattiche aeree di Ozawa prevedeva che gli aerei imbarcati partissero dalle portaerei nipponiche per attaccare la flotta americana, continuassero fino agli aeroporti di Guam, Rota e Yap, vi facessero il pieno di benzina e di bombe, e riprendessero il volo per un secondo attacco prima di raggiungere di nuovo le portaerei.
Questa tattica presentava quindi due ulteriori grandi vantaggi: innanzi tutto quello di paralizzare per il più breve tempo possibile le portaerei, sempre vulnerabilissime durante le operazioni di in volo e di appontaggio degli apparecchi, e poi quello di risparmiare percorsi inutili, cosa che avrebbe aumentato sensibilmente l'efficacia dell'aviazione. Nonostante
la sua inferiorità, che, tradotta in cifre, ammontava a 55 navi e 473 aerei contro le 112 navi e i 956 aerei degli americani, l'ammiraglio Ozawa si accingeva ad affrontare questa battaglia con un ottimismo giustificato
dai vantaggi appena enumerati.
Ciononostante, l'ammiraglio giapponese stava per essere tratto in inganno. Infatti, agli aerei con base a terra era stato assegnato il compito di distruggere almeno un terzo del potenziale americano prima dell'ìmminente battaglia navale, con lo scopo di ridurre la sproporzione delle forze che stavano per affrontarsi. Ma l'aviazione terrestre nipponica aveva su-
bito perdite terribili in seguito alle incursioni preliminari americane e i suoi modesti contrattacchi, mal coordinati, erano rimasti in pratica senza effetto. L'ammiraglio Kakuta, che la comandava, nel tentativo di salvare la faccia, aveva comunicato che le perdite subite dalle forze aeree giapponesi erano state minime e che, al contrario, le forze aeronavali
americane dovevano lamentare gravissimi danni. Ozawa ricevette questa informazione e, trovandosi nell'impossibilità di verificarla, come logico, l'accettò.
Il piano A-Go sembrava svolgersi come previsto e Ozawa naturalmente convinto che comunicò a Kakuta, nella notte dal 18 al 19 giugno, la posizione presunta in cui contava di affrontare la flotta americana, affinchè l'aviazione basata a terra potesse agire in conformità al piano. In realtà, questa parte essenziale del piano A-Go non pote divenire effettiva perche
l'aviazione nipponica a terra fu decimata a tal punto dai molteplici bombardamenti preparatori dell'aviazione americana da non entrare neppure in scena, essendo stata in pratica annientata tanto al suolo quanto in volo.
L'ammiraglio Spruance, come abbiamo già visto, aveva messo a punto un programma di esplorazione per mezzo di sommergibili e aerei che dovevano segnalargli l'avvicinarsi della flotta nipponica. Le maglie di questa rete erano tanto strette da rendere inconcepibile che il nemico potesse passare inosservato.
Già dal 15 giugno Spruance era stato informato, verso la fine del pomeriggio, dal sommergibile Flying-Fish, che Ozawa stava uscendo dallo stretto di San Bernardino e faceva rotta sulle Marianne. Questa notizia, confermata dal messaggio del sommergibile Seahorse, il 16 giugno, fece si che Spruance spostasse di due giorni 10 sbarco a Guam e calcolasse
che l'incontro avrebbe potuto determinarsi soltanto il 19 O il 20 giugno 1944.
Il sommergibile Cavalla segnalò, il17 giugno alle 5.10, di aver individuato un gruppo di petroliere giapponesi scortate da tre caccia torpediniere.
All'ammiraglio Lockwood, comandante in capo della flotta sottomarina americana, questa informazione confermava tutte le precedenti e cioè: che la flotta nipponica stava procedendo verso est e che stava organizzando un nuovo punto di rifornimento. Lockwood ordinò al Cavalla di seguire cautamente questo gruppo nemico, ma il Cavalla ebbe delle avarie alle macchine e non poté adempiere la missione. Spruance, subito informato, decise di far partire degli apparecchi da ricognizione a largo raggio, sia di notte, sia di giorno, e inviò la Task Force 58, 180 miglia a ovest delle Marianne, sul parallelo di Tinian. Nel frattempo, dalla base di Eniwetok, i nuovi idrovolanti Martin Mariner, equipaggiati con radar, iniziarono le loro ronde marittime alternandosi senza interruzione sopra i previsti settori di esplorazione.
Nella serata del 17 giugno il sommergibile Cavalla scorse una quindicina di grosse navi giapponesi, ma ancora una volta avarie meccaniche non gli consentirono di mantenere il contatto. La notizia era però importano te, poi che dimostrava a Spruance che la flotta nipponica si stava avvicinando perlomeno in due gruppi, il che rientrava nella prassi della mari-
na imperiale, ma soprattutto che sarebbe arrivata secondo l'orario da lui
previsto.
Le ricognizioni aeree americane del 18 giugno non diedero alcun risultato, mentre invece 2 dei 7 aerei giapponesi partiti dalle portaerei nipponiche il 18, verso mezzogiorno, segnalarono a Ozawa, nel pomeriggio, una parte della Task Force 58; Ozawa ordinò di invertire la rotta per mantenersi a una distanza di 400 miglia dagli americani, vale a dire al
di fuori del raggio d'azione dei loro apparecchi.
Alle 21, la flotta mobile si divise in due gruppi. Ozawa, con la la e la 2a divisione di portaerei, si diresse a sud-sud-ovest, mentre la flotta di corazzate di Ugaki e la 3a divisione di portaerei di Ozawa viravano a est per occupare le previste posizioni di avanguardia. Alle 3 i due gruppi accostarono a 5°0, cioè a nord-est, sulla linea prevista dalle disposizioni di combattimento del piano di Ozawa. Alle 4.15 le forze navali nipponiche avevano raggiunto i punti stabiliti per mettersi in assetto di combattimento e per preparare il decollo di oltre 300 aerei. I giapponesi erano quindi pronti a colpire, mentre gli americani non li avevano ancora individuati e non sapevano che fossero tanto vicini.
In quel momento, la Task Force 58 stava portandosi a ovest delle isole Marianne, lungo un asse nord-sud. Era divisa in 5 Task Croups che si proteggevano a vicenda: il T.C. 58-1 dell'ammiraglio Clark, il T.C. 58-2 dell'ammiraglio Montgomery, il T.C. 58-3 dell'ammiraglio Reeves, il T .C. 58-4 dell'ammiraglio Harrill e, per finire, il T .C. 58-5 dell'ammiraglio Lee.
La sorveglianza sottomarina e aerea americana continuava e il 18, alle 20.10, il sommergibile Finback scorse bagliori di proiettori, ma il messaggio inviato dal Finback giunse a Spruance soltanto il 19, all'1. Nel frattempo, la Task Force 58 aveva accostato a ovest durante la giornata e aveva invertito la rotta per la notte allo scopo di non essere superata dal nemico. Prima del mattino del 19 giugno, non pervenne alcuna altra informazione e Spruance mantenne inalterato il suo dispositivo. Nella notte dal 18 al 19 giugno un aereo giapponese sorvolò la Task Force 58 e lanciò un razzo illuminante. Mitscher fece decollare dalla portaerei Enterprise 15 Avenger dotati di radar, in missione esplorativa di un settore di 75° su 325 miglia. Questa ricognizione notturna non diede maggiori risultati di quella normale all'alba. Spruance era esasperato perchè intuiva la vicinanza del nemico, senza poterlo però situare. Il 19 giugno 1944, verso le 5.20, un altro aereo giapponese apparve ed ebbe la fortuna di sfuggire alle pattuglie della caccia. Un altro ancora se ne presentò poco prima delle 6, ma, 37 miglia a sud-sud-ovest della flotta americana, precipitò sotto i colpi di un caccia Hellcat.


LA GIORNATA DECISIVA DEL 19 GIUGNO 1944

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


 

Sorse l'alba del 19 giugno e, verso le 6, il levare del sole lasciò presagire una splendida giornata, senza nubi e con moderati alisei che soffiavano da est. La Task Force 58 dirigeva sempre a est, in pratica contro vento e, alle 6.19, Spruance ordinò un'inversione di rotta per avvicinarsi al nemico. Sfortunatamente, le continue manovre per il decollo e l'appontaggio degli aerei di pattuglia e di ricognizione costrinsero tutti i gruppi a navigare verso est per qualche tempo; questo fece sì che la Task Force 58 percorresse soltanto qualche miglio verso ovest. Spruance annunciò a questo punto che, qualora non avesse ricevuto informazioni precise sulla flotta giapponese, avrebbe fatto eseguire una nuova incursione di bombardieri per neutralizzare gli aeroporti nipponici delle isole Marianne. Questa notizia costernò Mitscher, il quale, dal canto suo, intuiva l'imminenza dello scontro navale senza per altro disporre di alcuna prova.

Dovevano determinarsi avvenimenti che avrebbero dimostrato la fondatezza della decisione di Spruance. Infatti, verso le 5.3°, i radar segnalarono contatti al di sopra delle Marianne, lontane in quel momento un centinaio di miglia. Le pattuglie della caccia americana si diressero verso quel punto e abbatterono un aereo nipponico, mentre i cacciatorpediniere del Task Group 58-7 distruggevano un bombardiere VaI, giunto sopra di essi. Numerosi apparecchi giapponesi si avvicinarono alla flotta americana, ma vennero per la maggior parte abbattuti dalla difesa contraerea e dalla caccia di protezione, prima di essere riusciti a entrare in azione.
Quando gli Hellcat della portaerei Belleau Wood giunsero sopra Guam, alle 7.20, si trovarono di fronte a un vero carosello aereo di apparecchi giapponesi che decollavano dall'aeroporto di Orote. I giapponesi avevano evidentemente fatto l'impossibile per radunare laggiù il maggior numero di apparecchi, nella speranza di causare alla Task Force 58 danni gravissimi. Gruppi di caccia americani provenienti da altre portaerei giunsero in rinforzo, ma abbatterono soltanto una parte degli apparecchi nemici; gli altri si erano affrettati ad atterrare e a mimetizzarsi abilmente al suolo. Poco dopo le 8, i radar segnalarono alcuni « bogeys » 1 a sud-ovest di Guam, alla distanza di 81 miglia. Si trattava di tutto ciò che
l'ammiraglio Kakuta aveva potuto racimolare a Truk e a Yap per aiutare le isole Marianne. Gli Hellcat si gettarono sul punto segnalato e impegnarono un grande combattimento aereo durante il quale 35 aerei giapponesi furono abbattuti in fiamme. Altri aerei nipponici sfuggirono al massacro e riuscirono a nascondersi a Orote. Erano quasi le 10 quando i radar della flotta americana intercettarono una moltitudine di « bogeys » provenienti da ovest. Non c'erano più dubbi: Ozawa passava all'attacco.

Tutti gli aerei americani in quel momento in volo furono richiamati d'urgenza e, alle 10.23, tutte le portaerei americane accostarono per mettersi contro vento. Pochi minuti di ritardo avrebbero potuto decidere l'esito dello scontro. Infatti, se gli americani avessero avuto il tempo di sgomberare i ponti di tutti i bombardieri, avrebbero potuto tutelarsi in tal modo assai meglio contro i pericoli di incendio in caso di attacco e, soprattutto, facilitare i movimenti dei caccia. Gli equipaggi, avvezzi a queste manovre, fecero miracoli sgombrando i ponti in un tempo da primato. I caccia poterono appontare per rifornirsi, mentre altri decollavano per intercettare l'incursione giapponese segnalata.
Nel campo nemico, Ozawa aveva fatto decollare, sin dalle 4.45, 16 idrovolanti da ricognizione, ma aveva dovuto aspettare a lungo prima di ricevere precise informazioni. Alle 7.3° uno degli idrovolanti gli segnalò la presenza di una forza americana importante, che altro non era se non i Task Groups 58-4 e 58-7.
Alle 5.15 14 apparecchi nipponici decollarono dalle portaerei e individuarono solamente i cacciatorpediniere di testa dell'ammiraglio Lee, ma vennero intercettati e 7 di essi non tornarono alla base. Ozawa decise i1 termine che designava ogni contatto radar allora di attaccare e, alle 8.3°, fece partire 69 apparecchi verso il primo punto di contatto segnalato dagli idrovolanti. La formazione aerea giapponese comprendeva 16 caccia Zero, 45 apparecchi Zero identici ai primi,
ma equipaggiati con bombe, e 8 aerosiluranti Jill. Furono questi gli aerei intercettati dai radar della Task Force 58 alle 10 e fecero sì che venisse decisa la partenza di tutta la caccia americana disponibile.
I contatti radar situarono l'incursione nipponica a 15° miglia dalla Task Force 58: ciò lasciava pochissimo tempo per eseguire le indispensabili manovre di sicurezza, ma gli apparecchi giapponesi, giunti a 7° miglia dagli obiettivi, incominciarono a girare in tondo a 6000 metri di quota per raggrupparsi prima dell'attacco. Questa tregua miracolosa consentì agli americani di adottare le necessarie misure.


IL TIRO AL PICCIONE DELLE MARIANNE HA INIZIO

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Gli Hellcat si portarono ad alta quota subito dopo il decollo e si raggrupparono, in un tempo record, tra i 5000 e i 7°00 metri di altezza allo scopo di avere una visione generale dell'attacco nemico. Alle 1°.36, i primi gruppi americani si tuffarono nella direzione delle squadriglie nipponiche, che nel frattempo avevano effettuato il loro raggruppa-
mento e si stavano dirigendo verso le portaerei americane. I bombardieri giapponesi volavano in formazione chiusa, fiancheggiati dai gruppi di caccia di scorta che si tenevano sopra e sotto di essi.
Lo scontro degenerò subito in una mischia generale nella quale si trovarono impegnati nuovi gruppi di aerei di una parte e dell'altra. I piloti americani beneficiavano di una eccellente esperienza e di un addestramento ottimo e dimostrarono ben presto la loro superiorità, tanto più che molti dei caccia giapponesi, muniti di bombe, avevano perduto in tal modo il vantaggio delle qualità che erano loro peculiari.
Nel corso di questo primo combattimento furono abbattuti 25 apparecchi nipponici. Quelli che vennero risparmiati non poterono ugualmente portare a termine la propria missione perchè furono presi di mira da un secondo gruppo di Hellcat che ne abbatte altri 16.
I caccia americani del primo intercettamento ritornarono alle proprie portaerei: ne mancava uno solo. Gli aerei giapponesi superstiti incontrarono i cacciatorpediniere americani Yarnall e Stockham, che si trovavano in avanscoperta davanti alla flotta, e che avevano già creato una vera muraglia di fuoco con la contraerea. Alcuni apparecchi nipponici li
attaccarono, senza successo, e di nuovo parecchi di essi precipitarono.
Soltanto con l'esiguo numero di 3 o 4 apparecchi l'attacco nipponico riuscì a raggiungere il punto previsto. Invece di trovarvi le portaerei, come riteneva Ozawa, gli aerei capitarono sopra le corazzate dell'ammiraglio Lee e la loro formidabile contraerea. Il gruppo di Lee aveva precedentemente adottato la formazione circolare con l'Indiana, nave
ammiraglia, al centro, e accolse gli aerei nipponici con un tiro contraereo di una intensità mai vista. Ciò nonostante, uno degli apparecchi giapponesi, un bombardiere, riuscì a penetrare il muro di fuoco e a piazzare la propria bomba sulla corazzata South Dakota. Vi furono 27 morti e 23 feriti, ma la nave di linea non risentì affatto il colpo e rimase al suo posto nella formazione, mantenendo tutta la sua capacità combattiva.


IL SECONDO ATTACCO GIAPPONESE 

-LA FINE DELLA SHOKAKU E DELLA TAIHO-

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Stabilendo il piano di attacco in funzione dei risultati delle precedenti ricognizioni aeree, l'ammiraglio Ozawa fece partire, alle 8.56, una seconda ondata d'assalto verso il punto di contatto situato a nord-ovest di Guam.

Era la seconda zona nella quale avrebbe dovuto trovarsi la flotta americana. Questa seconda ondata, di notevolissima importanza, contava 128 apparecchi, che comprendevano 48 caccia Zero, 27 aerosiluranti Jill e 53 bombardieri in picchiata Judy, 9 aerei ebbero noie meccaniche e dovettero fare ritorno alle proprie basi galleggianti.

I rimanenti 119 si portarono ad alta quota e sorvolarono poco dopo la squadra di avanguardia dell'ammiraglio Kurita; i cannonieri giapponesi, sovreccitati, spararono furiosamente su di essi, avendoli scambiati per americani.

Questo deplorevolissimo equivoco causò la perdita di due aerei e il danneggiamento di altri 8, che ritornarono sulle portaerei giapponesi. Rimanevano ormai soltanto 109 apparecchi; continuarono la propria missione volando in formazione chiusa.
Il sommergibile americano Albacore, di pattuglia sulla presunta rotta della flotta dell'ammiraglio Ozawa, scorse, il 19 giugno, alle 8.16, un importante gruppo di navi nemiche. Il comandante dell'Albacore ordinò all'equipaggio di portarsi ai posti di combattimento e fece rotta sulle navi nipponiche.
Le unità giapponesi divenivano di mano in mano più grandi nell'oculare del periscopio e, a 8000 metri, egli decise di lanciare i siluri, ma la presenza di un caccia torpediniere nipponico gli impedì di agire.
Il comandante si avvicinò maggiormente a una grossa portaerei e, alle 9.06, venne a trovarsi a 4800 metri dal bersaglio. Era il preciso momento in cui la seconda ondata d'attacco nipponica prendeva il volo.
Alle 9.09 un fascio di siluri venne lanciato, ma soltanto due di essi si diressero verso il bersaglio.
Uno dei due ordigni colpì la portaerei Taiho qualche minuto dopo. Il siluro esplose di prora a dritta, all'altezza dei depositi di benzina degli aerei e bloccò I'elevatore di prua, il fondo della cui gabbia si riempì subito di un miscuglio di acqua, nafta e benzina. La velocità della portaerei diminuì soltanto di un nodo e il ponte non subì alcun
danno. La Taiho aveva incassato. questo brutto colpo con la stessa resistenza di un pugile professionista. La Taiho era infatti nuovissima e discendeva dalla serie delle Shokaku, delle quali aveva ereditato la forma delle chiglia e la loro straordinaria resistenza ai colpi. Sarebbe stata l'ultima nave di questo tipo ad aver beneficiato di una concezione e di
una costruzione così perfette.

Le portaerei impostate dopo di essa nei cantieri non furono altro che trasformazioni di altri tipi di navi: navi rifornimento, cargo, piroscafi e petroliere, la cui solidità rimase molto discutibile.
Poco dopo, un altro sommergibile americano, il Cavalla, pattugliò, senza saperlo, sulla rotta della squadra nipponica e, alle 11.52, il comandante scorse una grande portaerei giapponese accompagnata da 2 incrociatori e da un cacciatorpediniere. Si avvicinò fino a 800 metri e fece approntare un fascio di 6 siluri. Il caccia torpediniere nipponico intervenne, ma il Cavalla lanciò gli ordigni, immergendosi poi in profondità. Qualche minuto dopo, il mare trasmise una serie di violente onde d'urto, rivelando che tre dei siluri avevano colpito il nemico.
Il comandante del Cavalla guardò l'orologio; erano le 12.20.
Un istante dopo, la portaerei presa di mira, la Shokaku, uscì dalla formazione nipponica e tentò, con l'aiuto del cacciatorpediniere Urakaze, di domare i numerosi incendi che già la devastavano. Le squadre di sicurezza della Shokaku realizzarono un vero e proprio tour de torce  riuscendo a spegnere la maggior parte dei focolai e, verso le la portaerei sembrava salva. Ciononostante, notevoli quantità di vapori di benzina continuavano a diffondersi in tutta la nave, mentre piccoli incendi ribelli tenevano sempre in scacco le squadre di sicurezza. Tutto si sarebbe certo accomodato se una bomba d'aereo, venutasi a trovare vicino a uno di questi focolai, non fosse d'improvviso esplosa poco dopo le 15. Avendo evidentemente raggiunta la temperatura critica, scoppiò spontaneamente, con il risultato di incendiare tutto il gas surriscaldato.
L'immane esplosione spaccò in due la nave. Una serie di scoppi si determinò allora e la grande portaerei ne fu dilaniata con rombi di tuono prima di affondare.

A bordo della Taiho, se a prima vista la situazione sembrava normale, poichè quasi tutto continuava a funzionare, i vapori di benzina e quelli del petrolio grezzo volatile di Tarakan, andavano diffondendosi nei vari compartimenti. Un ufficiale del servizio di sicurezza della nave, ritenendo di approfittare al massimo della grande velocità della Taiho
contro vento, fece aprire del tutto le grandi prese d'aria per scacciare questi vapori. L 'effetto fu disastroso, perche, invece di sfuggire, i vapori si diffusero in tutta la nave rendendo la situazione particolarmente pericolosa. La Taiho rimase allora alla merce della più piccola fiammella, della più minuscola scintilla. E fu appunto quello che avvenne alle 15.32, senza che mai se ne sia saputa la causa. Una spaventosa esplosione scosse la portaerei, il ponte di volo blindato si sollevò come un foglio di carta spiegazzato, nuvole di gas in fiamme giunsero fino ai locali macchine, uccidendo centinaia di uomini al loro passaggio. La Taiho sbandò subito fortemente e cominciò ad affondare. L'ammiraglio Ozawa lasciò la nave giusto in tempo e prese posto in una scialuppa, con i membri del suo stato maggiore e il sacrosanto ritratto dell'imperatore. Si imbarcò sul cacciatorpediniere Wakutsuki, poi sull'incrociatore Haguro.
L'ammiraglio Ozawa e il suo seguito erano appena saliti a bordo dell'incrociatore pesante Haguro quando un'ultima e violentissima esplosione pose termine alla breve carriera della Taiho. Sui 2150 uomini di equipaggio, se ne poterono salvare soltanto 500.
La flotta dei sommergibili americani aveva riportato due magnifiche vittorie che dovevano molto pesare nel bilancio generale della battaglia delle Marianne, ancora in corso.
Mentre questi avvenimenti si svolgevano in campo giapponese, le operazioni aeree continuavano ad essere effettuate secondo gli ordini di Ozawa. Gli aerei della seconda ondata di attacco giapponese si erano diretti a est con rotta a 800 e, verso le 11.3°, i comandanti delle squadriglie si stupirono di non scorgere la flotta americana come avevano
previsto i loro calcoli.
Nel frattempo, infatti, la Task Force 58 aveva accostato alle 10.23, ed era stata costretta a navigare con la prua a 105° (est-sud-est) allo scopo di poter far decollare e appontare gli aerei contro vento. Questa rotta la allontanava dal nemico. Le pattuglie della caccia americana, dirette dai radar, furono guidate di fronte agli assalitori nipponici e, alle 11.39,
ebbe luogo il secondo grande combattimento aereo della giornata. Gli Hellcat, sfruttando il vantaggio dell'alta quota, discesero in picchiata sugli aerei nipponici e ne abbatterono un gran numero. Circa 7° apparecchi giapponesi precipitarono in questo secondo combattimento aereo.
Quelli che furono risparmiati continuarono la missione e giunsero in vicinanza della flotta di corazzate americane, che scatenò contro di essi un fuoco d'artiglieria di una incredibile intensità.
Verso le 11-45, una ventina di apparecchi nipponici tentò attacchi mal coordinati e prese di mira le corazzate South Dakota, Alabama e Indiana.
Su quest 'ultima piombò un aereo giapponese, in un attacco disperato, e si fracassò contro la linea di galleggiamento dell'unità americana, senza causarle, d'altronde, alcun danno mortale. Era il primo attacco di questo genere della giornata.
Uno stormo di 16 Hellcat decollati dalla portaerei Yorktown  giunse a questo punto e decimò i velivoli nipponici. Continuando con ostinazione e con grande coraggio la missione, alcuni apparecchi giapponesi giunsero fino alle portaerei della Task Force 58 e sferrarono attacchi con siluri e con bombe. 6 Judy scesero in picchiata sulla Wasp, ma nessuna delle loro bombe colpi la nave. Una di esse esplose cosi vicino allo scafo che le schegge uccisero un marinaio e ne ferirono altri 12. Due Judy attaccarono la Bunker Hill, causandole soltanto danni insignificanti.
Dei 128 apparecchi partiti per questa azione nipponica, 97 furono abbattuti e si ritiene che soltanto una dozzina fossero riusciti ad atterrare a Guam e a Rota, come prevedeva il piano operativo giapponese.


LA TERZA INCURSIONE GIAPPONESE 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Senza aspettare l'esito delle due prime incursioni, Ozawa aveva fatto partire, tra le 10 e le 10.15, una terza ondata di aerei che doveva, come le precedenti, distruggere la flotta americana. Questi 47 apparecchi (25 bombardieri Zero, 7 aerosiluranti Jill e 12 Zero da caccia) vennero inviati sul punto del contatto, denominato 7 Ri, che le ricognizioni mat-
tutine nipponiche avevano stabilito con la flotta americana.
Poco dopo il decollo, gli aerei giapponesi ricevettero l'ordine di fare rotta a nord-est e dirigersi verso un nuovo punto di contatto denominato 3 Ri, poco più a nord, che aerei da ricognizione avevano rilevato alle 10 e che sembrava confermare le informazioni giunte in precedenza allo stato maggiore di Ozawa. Sfortunatamente, questo cambiamento di rotta non fu effettuato dalla totalità degli apparecchi, e 27 di essi, avendo mantenuto la direzione su 7 Ri, non scoprirono nulla e rientrarono alle proprie portaerei. Gli altri 20, che si erano diretti su 3 Ri, avvistarono, verso le 12-45, due corazzate americane e continuarono le ricerche nella speranza di intercettare le portaerei dell'ammiraglio Mitscher. Non trovando nulla, ritornarono alle 12.55 sulle corazzate scorte in precedenza.
I radar americani li stavano seguendo già da qualche tempo e l'ultima eco chiarissima, 99 miglia a nord, scatenò la reazione aerea americana.
Una formazione di 4° Hellcat, provenienti da diverse portaerei, intercettò gli assali tori e ne abbatte 7 in pochi minuti. Questa terza incursione nipponica poteva essere considerata un mezzo successo, poichè, per quanto non potesse vantare nessun colpo messo a segno, 40 dei 47 apparecchi erano rientrati alla base.
Subito dopo la fine di questo terzo combattimento aereo, Mitscher fece partire un nuovo gruppo di apparecchi da ricognizione con la speranza di localizzare finalmente il nemico, ma nessuno di questi velivoli stabili il contatto con la flotta mobile di Ozawa. D'altro canto, per tutta questa giornata campale del 19 giugno 1944, le ricognizioni aeree si rivelarono, dalla prima all'ultima, infruttuose e scoraggianti, dimostrando che esisteva in questo campo una grave lacuna.
I giapponesi avevano invece dimostrato, sin dall'inizio della guerra, eccellenti doti nelle ricerche e nell'esplorazione, in quanto soltanto di rado non erano riusciti a localizzare ben presto il nemico. Questa inferiorità americana, dalle enormi conseguenze, fece perdere a Mitscher l'occasione di colpire subito e duramente la flotta di Ozawa in condizioni spesso assai favorevoli.


LA QUARTA ED ULTIMA  INCURSIONE GIAPPONESE 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Applicando sistematicamente il proprio piano di attacco, Ozawa fece decollare, tra le 11 e le 11.3°, una quarta ondata di apparecchi. Dalle portaerei Zuikaku, Ryuho, Junyo e Hiyo decollarono 82 aerei (27 bombardieri VaI, 10 bombardieri Zero, 9 bombardieri Judy, 6 aerosiluranti Jill e 3° Zero da caccia) che si diressero verso il punto di contatto 15 Ri, 
stabilito, a sud-ovest di Guam, da alcuni aerei da ricognizione giapponesi alle 945. 
Questa importante formazione costituita da numerosi gruppi che volavano a quote diverse, e talvolta lontani gli uni dagli altri parecchie decine di miglia, non coordinò la navigazione e, una volta giunta al punto di contatto 15 Ri, ognuno dei gruppi dovette risolvere i propri problemi di ricerca, poichè nulla appariva sulla superficie del mare.
Uno di essi fece dietro front, dirigendosi verso le portaerei nipponiche, mentre le maggior parte degli altri faceva rotta a nord-est, nella direzione di Guam e di Rota, con l'intenzione di atterrarvi e di rifare il pieno.
Un piccolo gruppo di 6 bombardieri in picchiata Judy passò, alle 14.23, nelle vicinanze del Task Group dell'ammiraglio Montgomery e scatenò l'attacco. Lanciandosi coraggiosamente tra una moltitudine di esplosioni di proiettili della contraerea, i sei apparecchi nipponici piombarono sulla Wasp e sulla Bunker Hill. Le due portaerei americane evi-
tarono con destrezza le bombe e uscirono da questo attacco senza gravi danni. Per contro, 5 dei 6 Judy furono abbattuti dalla contraerea. Un altro gruppo di 18 apparecchi giapponesi si scontrò con la caccia americana e perdette 9 dei suoi velivoli.
Frattanto, 49 apparecchi giapponesi avevano proseguito il volo verso Guam, e, essendosi liberati delle proprie bombe, tornarono, alle 14.50, a volteggiare sopra l'aeroporto di Orote in attesa che giungesse  il loro turno di atterrare. I radar americani li individuarono e numerose pattuglie di caccia americani conversero verso questo punto. In  pochi minuti 27 Hellcat si trovarono sul posto e iniziarono una violenta battaglia aerea durante la quale 30 dei 49 velivoli giapponesi furono abbattuti. Gli altri riuscirono ad atterrare, ma vennero assaliti al suolo mentre ancora rullavano. La quarta incursione nipponica aveva visto distrutti 73 dei suoi 82 apparecchi. Questo attacco doveva essere l'ultimo in quanto Ozawa non era più in grado di lanciarne altri, avendo quasi esaurito le proprie forze aeree.
Se si tiene conto degli apparecchi da ricognizione, partiti in esplorazione all'inizio della giornata, Ozawa aveva lanciato 373 velivoli e ne aveva visti rientrare soltanto 130. A queste perdite bisognava aggiungere quelli che erano stati distrutti al suolo a Guam, quelli affondati con la Taiho e la Shokaku e infine quelli che, in avaria o danneggiati, erano andati
perduti all'atterraggio. Le perdite aeree nipponiche erano quindi enormi  e oscIllavano tra i 310 e i 320 apparecchi distrutti in  una sola giornata.
Si trattava di un vero e completo dissanguamento, e gli americani  potevano a ragione parlare di un " tiro al piccione delle Marianne » .


IL BILANCIO DEL 19 GIUGNO 1944 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Gli americani sapevano che il piano giapponese poggiava sull'impiego contemporaneo dell'aviazione imbarcata e di quella con base a terra; di conseguenza sorvegliavano attentamente gli aeroporti giapponesi delle isole Marianne. 
Durante tutta la giornata del 19 giugno, stormi di caccia americani sorvolarono in permanenza Guam e Rota, impedendo ogni movimento aereo del nemico e abbattendo i velivoli nipponici che tentavano di atterrare odi prendere il volo. Alle 10.40 un gruppo di 17 Helldiver e di 7 Avenger della portaerei Hornet decollò per andare a bombardare l'aeroporto di Orote e fu seguito, alle 13, da uno stormo di Dauntless della Lexington.
Alle 14 una formazione di II Helldiver dell'Essex compi un'incursione su Orote senza incontrare la più piccola resistenza da parte giapponese.
Il numero degli aerei nemici distrutti fu relativamente basso, ma le devastazioni causate alle piste ebbero conseguenze più serie, poichè provocarono numerosissimi incidenti all'atterraggio, quando i pochi aerei superstiti della quarta incursione nipponica tentarono di atterrare.
Nel corso di questa giornata del 19 giugno nella quale, da una parte e dall'altra, un gran numero di aerei aveva decollato, gli americani lamentarono la perdita di 23 apparecchi, abbattuti per la maggior parte dalla contraerea nipponica di Guam, e di altri 6, precipitati per cause accidentali, che fecero salire a 27 il numero degli aviatori uccisi. 

La flotta americana ebbe soltanto 31 morti a bordo di 3 navi leggermente danneggiate dall'aviazione giapponese. In quanto alle rispettive perdite, sia di aerei sia di navi, la giornata del 19 giugno si chiudeva con una
incontestabile vittoria americana. 

Gli americani avevano distrutto il grosso degli aerei imbarcati di Ozawa, affondato 2 grandi portaerei e annientato l'aviazione giapponese con base a terra, che costituiva il principale atout del piano di difesa giapponese, a un prezzo estremamente basso.


L'IMPRESA RISCHIOSA DI MITSCHER 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Eppure, nonostante l'indiscutibile successo riportato dalle forze aeree e dai sommergibili americani, l'ammiraglio Mitscher continuava ad essere preoccupato. Infatti, se notizie incoraggianti gli erano pervenute in continuazione per tutta quella giornata, era rimasto condizionato dai movimenti dell'aviazione e non aveva potuto applicare il suo piano
d'attacco.
Costretta a navigare contro vento, a est-sud-est, a causa dei continui decolli degli aerei, la Task Force 58 si era allontanata dal nemico per gran parte della giornata e Mitscher aveva a poco a poco perduto la speranza di poter raggiungere la flotta nipponica. 

D'altro canto, le ricognizioni aeree americane erano rimaste tutte infruttuose e Mitscher continuava a ignorare la posizione della flotta di Ozawa. Sapeva che l'ammiraglio giapponese aveva perduto in pratica tutta la sua aviazione
e che, essendo così disarmato, Ozawa avrebbe cercato di fuggire e di mettersi al riparo, e questo toglieva a Mitscher la possibilità di riportare una grande e decisiva vittoria.
L'ammiraglio Spruance, messo al corrente della situazione, ordinò alla Task Force 58 di dirigere di nuovo a ovest, non appena gli ultimi aerei avessero appontato.

Alle 20 del 19 giugno la flotta americana accostò e Mitscher distaccò il Task Group T.G. 58-4 dell'ammiraglio Harrill
per continuare le operazioni di rastrellamento nei cieli delle Marianne.
Il gruppo di Harrill incrociò quindi intorno a Guam e a Rota e mantenne un certo numero di aerei di pattuglia per impedire ai giapponesi ogni attacco alle spalle della flotta americana.
Durante questa stessa notte non giunse a Mitscher nessuna informazione sulla posizione di Ozawa e ci si potrebbe chiedere come mai l'ammiraglio non lanciò i suoi apparecchi muniti di radar alla ricerca notturna della flotta nipponica. Alcuni di questi aerei, forniti di serbatoi supplementari, avrebbero potuto raggiungere la zona in cui si trovava Ozawa,
consentendo cosi a Mitscher di sorprenderlo sin dall'alba.

Mitscher ritenne, certo, che la perdita di tempo causata dalla necessaria inversione di rotta contro vento, per permettere l'involo degli apparecchi, avrebbe fatto perdere troppe miglia nell'inseguimento della flotta giapponese che andava cercando. D'altra parte, i caccia notturni imbarcati erano di recente impiego e Mitscher ancora non attribuiva loro molta importanza. In ogni caso, non venne effettuata alcuna ricognizione aerea notturna americana.
Dal canto suo, l'ammiraglio Ozawa aveva ordinato alle navi di dirigere a nord-ovest, allo scopo di rifornirsi di nafta, durante una parte della giornata del 20 giugno, e in seguito di riprendere l'offensiva con l'aiuto dell'aviazione con base a terra, della quale ignorava la quasi completa distruzione. 

D'altronde, era convinto che un gran numero degli aerei imbarcati avesse raggiunto Guam e Rota dopo aver condotto a termine le incursioni e fosse in grado di riprendere gli attacchi aerei sin dall'alba del 20 giugno. Contrariamente a quanto pensava Mitscher, i giapponesi non avevano perduto la loro aggressività e quando, alle 5.30, le prime luci dell'alba del 20 giugno arrossarono la linea dell'orizzonte, 9 idrovolanti da ricognizione partirono dagli incrociatori giapponesi.
La loro esplorazione non diede frutto e 3 di essi non rientrarono alla base. Alle 6.13 decollarono altri 6 apparecchi e, quella volta, uno di essi incontrò, alle 7.13, 2 aerei imbarcati americani. Ciò dimostrava la presenza di portaerei nemiche nelle vicinanze, ma Ozawa non diede peso all'informazione e ordinò di effettuare il rifornimento come previsto.

Alle 12.30 la riunione delle petroliere divenne effettivo e la flotta mobile avanzò a piccola velocità verso nord-ovest cominciando a fare il pieno di combustibile.
Alle 13 le portaerei Chitose e Zuiho fecero decollare 3 aerosiluranti allo scopo di coprire la flotta e di proteggerla da una sorpresa sempre possibile. Alla stessa ora, informazioni ritrasmesse da Tokio giunsero a Ozawa avvertendolo che la flotta americana si stava avvicinando. Ozawa fece sospendere immediatamente le operazioni di rifornimento, che in
pratica non erano ancora incominciate. 

Ozawa, che si era imbarcato sull'incrociatore Haguro, dopo il naufragio della Taiho, passò sulla portaerei Zuikaku alle 13, allo scopo di disporre di mezzi di telecomunicazione più potenti. Soltanto in quel momento fu informato della
vastità del disastro subìto dalla sua aviazione imbarcata. Disponendo ormai solamente di un centinaio di aerei, ma facendo sempre conto su quelli con base a terra, decise di riprendere l'offensiva il 21 giugno, non appena le navi avessero fatto rifornimento.
Dal canto suo, Mitscher aveva inviato numerosi aerei ad esplorare un vasto settore e uno di essi, un Avenger partito dall'Enterprise alle 13.30, scoprì la flotta di Ozawa alle 154°. Due minuti dopo, Mitscher ricevette la notizia, ma l'incrociatore giapponese Atago intercettò il messaggio, lo tradusse e lo ritrasmise a Ozawa alle 16.15.
Ciononostante, il messaggio del ricognitore americano era stato talmente disturbato che riusciva quasi impossibile trarne dati sufficientemente chiari. 

Mitscher sentì confusamente che gli si presentava l'occasione di assestare un colpo fatale alla flotta nipponica. Alle 15.57 un nuovo messaggio del pilota contrariò l'ammiraglio perche la posizione accertata per il gruppo nemico più vicino si trovava a una distanza di 275 miglia (510 chilometri), che, tenendo conto del cammino da percorrere per
raggiungere gli altri gruppi nemici, e delle evoluzioni indispensabili nel corso dell'attacco, avrebbe fatto impiegare gli aerei americani all'estremo limite del loro raggio d'azione.

D'altra parte, l'ora ormai tarda avrebbe implicato necessariamente il rientro notturno degli apparecchi, per la maggior parte a corto di carburante. Gli equipaggi avevano effettuato qualche appontaggio di notte, ma non erano molto ben addestrati a questo difficilissimo esercizio, e tanto meno con apparecchi che potevano essere più o meno danneggiati dopo una lunga ed estenuante missione. 

Mitscher si trovava di fronte a un angoscioso dilemma: da un lato intuiva che l'occasione era forse unica, ma dall'altro non poteva non tener conto dei rischi enormi che un tale attacco avrebbe presentato per i suoi aviatori. Alle 16.10 Mitscher prese la pericolosa decisione di attaccare.


MISSIONE AL CREPUSCOLO 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Alle 16.21, la Task Force 58 virò a est, contro vento, e, nell'intervallo di tempo straordinariamente breve di dieci minuti, 216 apparecchi decollarono dai ponti di 11 portaerei ( Si trattava delle portaerei: Lexington, Enterprise, Cabot, Belleau Wood, Bataan, Was,Bunker Hill. Hornet, Yorktown, San ]acinto e Monterey). Alle 16.36, la flotta americana aveva già ripreso la rotta a nord-ovest. Gli apparecchi americani avevano caricato tutto il carburante possibile, per poter raggiungere la flotta di Ozawa e fare ritorno. Gli 85 caccia Hellcat e i 77 bombardieri in picchiata erano dotati di serbatoi sganciabili, mentre i 54 aerosiluranti Avenger potevano contare sulla loro autonomia normale, che era maggiore, per condurre a termine questa missione particolarmente lunga.
Alle 18.25 gli americani scorsero alcuni aerei giapponesi e poco dopo avvistarono i gruppi navali nemici. Il sole era già basso sull'orizzonte e una leggera penombra cominciava a stendersi sulla superficie del mare.
L'ammiraglio Ozawa, avvertito di questo attacco, aveva fatto decollare 75 velivoli delle proprie portaerei perchè si portassero di fronte agli attaccanti americani. La battaglia aerea durò una ventina di minuti, durante i quali la difesa contraerea delle navi nipponiche si scatenò furiosamente. 

Nella mezza luce del crepuscolo, le esplosioni dei proiettili della contraerea tracciavano nel cielo una moltitudine di lampi colorati, tra i quali si insinuavano gli aerei americani.
Un gruppo di bombardieri in picchiata si accani contro le petroliere nipponiche, avvistate per prime e situate in coda alla flotta mobile che avanzava a tutta forza. 2 petroliere, la Genyo Maru e la Seiyo Maru, vennero cosi gravemente colpite che i loro equipaggi le affondarono alcune ore dopo.
Frattanto, gli aerosiluranti avevano assunto la formazione di attacco e in picchiata verso la Zuikaku e la Hiyo. Quest'ultima fu ripetutamente colpita e uscì dalla formazione scortata dalla corazzata Nagato e dall'incrociatore Mogami. I giapponesi tentarono l'impossibile per soffocare gli incendi e per tamponare le falle, ma la Hiyo incominciò a bruciare da prora a poppa e ad affondare di prua. Scossa da formidabili esplosioni interne, scivolò negli abissi, lasciando scorgere le eliche per qualche attimo.

Un gruppo di 5 Avenger dell'Enterprise si accinse ad attaccare la portaerei nipponica Ryuho e, nonostante unutritissimo tiro della contraerea, riuscì a portarsi in posizione di sgancio. La Ryuho proseguì la rotta senza apparenti danni.
Venne allora presa di mira la portaerei Zuikaku, che incassò parecchie bombe, una delle quali provocò un vasto incendio. Le squadre di sicurezza della grande portaerei giapponese riuscirono a domare il fuoco e l'ordine di abbandono nave, impartito pochi momenti prima, venne annullato. La Zuikaku riprese velocità e raggiunse l'arsenale di Krue con i propri mezzi.
Altri stormi di aerei americani attaccarono il gruppo dell'ammiraglio Kurita; la portaerei Chiyoda, la corazzata Haruna e l'incrociatore pesante Maya furono colpiti ciascuno da una bomba che fece divampare incendi senza però provocare danni mortali.
Mentre bombardieri e aerosiluranti si accanivano contro le navi di Ozawa, i caccia americani lottavano contro gli aerei giapponesi levatisi in volo subito prima dell'attacco. I piloti nipponici tentarono di intercettare gli attaccanti, ma furono quasi tutti sopraffatti dagli Hellcat scatenati e molti di essi precipitarono. Durante l'attacco americano vennero abbattuti 20 soli apparecchi americani, i cui equipaggi, per la maggior parte, furono in seguito salvati.
Attanagliati dall'angosciosa incertezza del ritorno, gli aviatori americani interruppero l'attacco verso le 19 e cominciarono a raggrupparsi per iniziare il difficile rientro alle portaerei.
Ciononostante, l'ammiraglio Ozawa non si riteneva battuto e, per quanto si rendesse conto che sul piano aereo era ormai paralizzato, decise di eseguire un contrattacco navale notturno.

Una parte del gruppo Kurita si lanciò verso est, alla ricerca della flotta americana, ma, due ore dopo, Ozawa richiamò" le unità non avendo potuto determinare la posizione della Task Force 58.

 Cosa del resto ragionevole, perche Kurita avrebbe faticato non poco per raggiungere Mitscher, che si trovava in quel momento a 23° miglia da lui, e per di più si sarebbe scontrato verosimilmente con il gruppo di corazzate veloci dell'ammiraglio Lee, le quali non gli avrebbero lasciato alcuna via di scampo.
La battaglia delle Marianne, detta anche la prima battaglia del Mare delle Filippine, era giunta al termine e si concludeva con una grave disfatta giapponese. Non soltanto le forze americane non erano state distrutte, e lo sbarco a Saipan non era stato impedito, ma le forze giapponesi avevano subito un cocente scacco con la perdita di tre portaerei e di quasi 400 apparecchi. Le perdite nipponiche in navi sarebbero potute essere assai più disastrose se gli americani non avessero commesso un incomprensibile errore, armando la maggior parte dei monomotori Avenger con bombe invece che con gli abituali siluri.

Qualcuna di queste bombe colpì il bersaglio, ma se questi Avenger avessero avuto un siluro di certo le perdite giapponesi sarebbero state ben più pesanti, perchè le navi nipponiche non avrebbero potuto evitare tutti gli ordigni e i colpi giunti a segno avrebbero causato danni irreparabili. Gli americani si erano senza dubbio ricordati della battaglia di Midway, nella quale le bombe avevano avuto effetti determinanti egli aerosiluranti erano stati invece decimati prima di poter entrare efficacemente in azione, ma i tempi erano mutati e i pesanti aerosiluranti non dovevano più temere di essere abbattuti dalla caccia nipponica come a Midway.
La battaglia delle Marianne, comunque, era una grande vittoria americana e segnava la definitiva distruzione dell'aviazione imbarcata giapponese.


LO SPAVENTOSO RIENTRO NOTTURNO 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Gli aerei americani facevano rotta a est, verso la flotta, e tutti gli animi erano tesi verso un solo scopo: tornare. Per taluni si trattava di un'ossessione che faceva dimenticare ogni altra considerazione; per altri era il perseguimento di un sogno impossibile. Il lungo cammino da percorrere, l'oscurità, le scorte di benzina, diventavano nemici ben più temibili di
tutti i caccia giapponesi incontrati fino a quel momento.


Quando gli aviatori americani avevano invertito la rotta per rientrare alla base, gli ultimi bagliori rossastri del sole al tramonto andavano spegnendosi a ovest, e a est, davanti a loro, l'oscurità si infittiva di minuto in minuto. Era la prima volta che una ingente formazione di aerei rientrava di notte. Tutti gli animi tendevano a questo scopo, tutti gli occhi
erano fissi sull'indicatore di livello della benzina ogni cui spostamento appena percettibile sul quadrante faceva scorrere sudori gelidi sulla schiena dei piloti e mozzava il fiato, quasi che il loro cuore battesse all'unisono con il motore degli aerei. Mai i piloti erano stati consapevoli, come in quel giorno, di essere un tutto unico con i propri apparecchi, mai avevano sentito con tanta intensità questa stretta e affettuosa comunione tra l'uomo e la macchina.

La loro prima preoccupazione, da quando avevano iniziato il lungo volo di ritorno, era stata quella di regolare fino all'estremo limite l'alimentazione dei motori, facendovi arrivare soltanto il più esiguo flusso di benzina indispensabile al funzionamento.

Il problema era angoscioso, perchè la maggior parte degli aerei aveva iniziato il ritorno con meno della metà di quanto potevano contenere i serbatoi e l'economia, anche di un solo litro di benzina, significava la certezza di percorrere qualche miglio in più. Ad alcuni apparecchi non funzionavano le luci di posizione e gli altri dovevano riferirsi ai rari
bagliori dello scappamento dei motori, bagliori tanto meno frequenti in quanto la velocità era al minimo.
Appariva chiaro, in quel momento, quale grave responsabilità si fosse assunta il vice ammiraglio Mitscher ordinando l'incursione al crepuscolo ed era stato necessario il rischio che non si presentasse mai più una simile occasione di colpire la flotta giapponese, perché egli prendesse una decisione tanto gravida di conseguenze per i suoi equipaggi, ai quali era legato da un affetto tutto particolare. Mitscher, a quell'ora. occupava la sedia divenuta leggendaria, nell'ala di plancia della Lexington, e ogni suo pensiero andava ai piloti.

L 'ammiraglio aveva infatti rifiutato di riposarsi, nonostante i consigli dello stato maggiore. La sua faccia scavata, da vecchio capo sioux, era tesa verso coloro che, nell'etere oscuro, lottavano disperatamente per tornare.
A bordo dei velivoli, i mitraglieri e i radiotelegrafisti dei bombardieri domandavano continuamente ai piloti quanta benzina rimanesse.
Tutti i piloti tentavano di dissimulare la paura e la stanchezza, ma inesorabilmente il loro sguardo era attirato dall'ossessionante lancetta dell'indicatore di livello.
Il tempo passava e, a uno a uno, alcuni apparecchi si inabissarono nei flutti con i serbatoi completamente vuoti. Poi nacque un barlume di speranza: il pilota di un Dauntless captò il radiofaro della flotta, segnale che dava automaticamente la direzione e insieme la distanza.
Per qualcuno fu la speranza assurda di poter finalmente tornare con gli ultimi litri di benzina rimasti. Per altri la buona notizia coincise purtroppo con gli ultimi tossicchiamenti del motore, che precedono l'arresto completo della combustione e la caduta finale.
Erano le 20.30, e gli aviatori più vicini al punto segnalato scorsero un raggio di luce all'orizzonte. Si trattava del pennello luminoso di un proiettore della flotta puntato verticalmente.

Sulla plancia della Lexington, Mitscher era già alle prese con un altro problema, altrettanto angoscioso.
Che cosa bisognava fare? Conservare il normale dispositivo, e cioè mantenere quell'unico proiettore puntato verso il cielo che indicava il centro della flotta, oppure illuminare in pieno tutti i ponti delle portaerei per facilitare I'appontaggio degli apparecchi a corto di benzina e degli equipaggi giunti al limite della più estrema stanchezza? Non apportare mu-
tamenti nel dispositivo adottato significava moltiplicare gli incidenti e le inevitabili perdite, ma illuminare a giorno avrebbe comportato un rischio enorme, esponendo la flotta ai colpi degli aerei e dei sommergibili nemici che si aggiravano nei paraggi. 

Mitscher pensò ai pericoli che la sua decisione di attaccare la flotta nemica aveva fatto correre ai valorosi aviatori e decise di far illuminare i ponti di ogni portaerei nel momento in cui i primi velivoli si fossero presentati. L'ammiraglio non trovò il coraggio di imporre agli aviatori questo supplemento di tensione nervosa e di pericolo. Se i piloti avevano accettato il loro destino, bisognava che anche la flotta accettasse la propria parte di rischio. Mitscher rivelò una volta di più di essere un comandante umano e sempre pronto alla comprensione nei confronti degli uomini ai suoi ordini.
Nel cielo nero era già percepibile il ronzio dei motori e i primi apparecchi si stavano portando in posizione di avvicinamento. Gli aerei più vicini alla flotta avevano già abbassato i carrelli, gli alettoni e il gancio di appontaggio e avevano iniziato la ronda circolare intorno a ognuna delle portaerei. Anche se i ponti erano bene illuminati, la manovra rimaneva pur sempre pericolosa, perché, vista dall'alto, ogni nave appariva come una piccolissima scatola di cerini luminosa ove sembrava una follia voler fare scendere degli aerei, alcuni dei quali con il motore tossicchiante perché riceveva, ormai, le ultime gocce di benzina soltanto a intervalli allarmanti.
Alle 20.50, il primo apparecchio, un Avenger, si posò sulla Lexington e gli addetti al ponte compirono meraviglie sgomberando il più in fretta possibile la pista allo scopo di permettere la massima accelerazione nel ritmo degli appontaggi. Apparve subito evidente che i piloti erano incapaci di raggiungere le rispettive portaerei e, alle 20.52, fu diramato l'ordine di accordare la libertà di appontaggio su qualsiasi base galleggiante. Era infatti disumano costringere questi aviatori a consumare gli ultimi litri di carburante nella ricerca, certo vana, della propria portaerei. .E una spaventosa anarchia regnava intorno alle piattaforme, perché la maggior parte degli aviatori cercava di assicurarsi con la forza il primo posto nel circuito di avvicinamento, con il rischio di provocare drammatici incidenti e trascurando le più elementari norme di sicurezza. Nonostante l'abilità dei « batmen » (Ufficiali di ponte, di solito piloti anziani che guidano, per mezzo di palette tenute in mano e agitate secondo movimenti convenzionali, gli aerei al momento dell'ultima fase dell'appontaggio, quando l'apparecchio si trova al limite del sostentamento), molti piloti si vedevano rifiutare la pista, ma taluni ignoravano i segnali e si gettavano letteralmente sui ponti. Gli incidenti furono numerosi, e mentre alcuni apparecchi riuscivano a posarsi, altri sprofondavano in mare, non avendo più carburante. Frattanto, le squadre dei ponti sgombravano dalle piste gli aerei danneggiati
Le navi di scorta fecero miracoli per trarre in salvo gli aviatori precipitati in acqua.
Verso le 22.50, apparve chiaro che nessun altro aereo americano sarebbe rientrato e che tutti i mancanti erano stati abbattuti al momento dell'attacco o erano caduti in mare per mancanza di carburante.

Il bilancio di questa missione dimostrò che 100 apparecchi erano andati perduti, di cui soltanto 20 nel corso dell'attacco, mentre le perdite in effettivi ammontavano a 200 uomini. Di questi, 160 vennero tratti in salvo quel giorno stesso o nei giorni successivi e, in definitiva, furono soltanto 49 i caduti in quell'incursione, la più terribile nell'esperienza degli aviatori della marina americana.
L'ammiraglio Spruance non tentò di raggiungere la flotta giapponese e, se diede l'ordine di dirigere a nord-ovest, lo fece per salvare il maggior numero possibile di aviatori caduti in mare e per affondare ipotetiche navi giapponesi in avaria. La flotta nipponica era più veloce e la distanza aumentò rapidamente. 

L'indomani, 21 giugno, Spruance fece dirigere di nuovo su Saipan. L'episodio si era concluso, e, nonostante il coraggio e i rischi corsi dagli aviatori americani, i maggiori successi erano stati registrati il 19 giugno, dai sommergibili americani, quando avevano affondato, quasi una dopo l'altra, le portaerei nipponiche Taiho e Shokaku.
Questa grande battaglia aeronavale del 19 e del 20 giugno 1944 è passata alla storia con il nome di prima battaglia delle Filippine e riteniamo che, per quanto si sia in effetti svolta nel Mare delle Filippine, il suo nome possa dar luogo a qualche equivoco. Tale denominazione, infatti, può lasciar supporre al lettore non specializzato che la posta in gioco di questo vasto scontro, fosse il possesso dell'arcipelago delle Filippine. Abbiamo usato di proposito, per caratterizzarla, il nome di battaglia delle Marianne perché essa fu, dal punto di vista tattico e strategico, in stretta correlazione con la conquista americana dell'arcipelago delle Marianne.


LA CONQUISTA DEFINITIVA DI SAIPAN 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


IL MONTE TAPOTCHAU A SAIPAN

Nel frattempo, a Saipan, le forze americane avevano consolidato le proprie conquiste nel sud dell'isola e cominciavano a spiegarsi su un fronte notevolmente obliquo, da nord-ovest a sud-est, che incominciava nei dintorni di Garapan e andava verso il centro della baia della Magicienne.
Dietro questa linea i giapponesi tenevano duro appoggiandosi alle pendici del monte Tapotchau.
Verso mezzogiorno, il 21 giugno, gli americani avevano avanzato di due chilometri, ma vennero fermati dai numerosi nidi di mitragliatrice celati nelle grotte e nelle anfrattuosità delle rocce.
Gli americani continuarono l'avanzata e si inoltrarono, sin dal mattino del giorno successivo, in una vallata apparentemente indifesa. Ma quando il grosso del battaglione venne a trovarsi nella depressione, i giapponesi
scatenarono un fuoco terribile di mitragliatrici dai versanti laterali. Gli americani rimasero inchiodati al suolo e si dovette ricorrere ai carri Sherman per disimpegnarli. Poi l'avanzata riprese e furono raggiunti i fianchi del monte Tapotchau.
La seconda divisione, dal canto suo, si era impadronita, il 22 giugno, del monte Tipo Pale, venendo di conseguenza a trovarsi ugualmente vicina al monte Tapotchau. Al sud, la 27& divisione dell'esercito, che i Marines accusavano di lentezza, aveva iniziato l'allestimento dell'aeroporto di Aslito e il 105° reggimento di fanteria che ne faceva parte si accingeva a ridurre la sacca giapponese di Punta Nafutan.
Il 22 giugno venne annunciato l'arrivo di un gruppo di caccia bombardieri P. 47 Thunderbolt, la cui base era Aslito. Questi velivoli avrebbero efficacemente appoggiato le truppe impegnate.
Gran parte della 27° divisione fu ritirata dal sud e spostata sul fronte nord, ove, il mattino del 23 giugno, tutte le forze americane sferrarono un'offensiva generale.

 La 2° e la 4° divisione dei Marines, sulle ali, sfondarono lo schieramento nipponico, ma i GI della 27a, al centro, vennero fermati da una feroce resistenza giapponese. Per non lasciare una troppa profonda sacca nemica al centro delle loro linee i Marines interruppero l'avanzata e si attestarono.
La notte fu caratterizzata da un violento contrattacco di carri armati nipponici che lasciò sul terreno 7 mezzi corazzati, senza intaccare i trinceramenti americani.
Il 24 giugno l'attacco ricominciò, ma i GI, al centro, non riugcirono ancora a superare una depressione chiamata « Valle della morte, secondo taluni e« Valle dell'inferno. secondo altri. Il nome ci dice comunque molto chiaramente quali dovettero essere le difficoltà incontrate dai GI.
Il generale Ralph Smith fu esonerato dal comando e sostituito dal generale Sanderford Jarman. Anche se l'esercito stentò molto a ricuperare il ritardo al centro del fronte, il monte Tapotchau venne raggiunto dai Marines il 24 giugno verso le 11. Duri combattimenti si stavano ancora svolgendo sui pendii, ma sembrava che le cose avessero preso finalmente una buona piega.


L'INCURSIONE "JOCKO"

Il vice ammiraglio Joseph Clark, Jocko per gli amici, Sospettava che le isole di IWO Jima e di Chichi Jima dovessero servire da punti d'appoggio nel dispositivo strategico giapponese. Di sua iniziativa, si diresse con il proprio gruppo navale, la sera del 23 giugno, verso nord e, il 24 giugno alle 6, venne a trovarsi 235 miglia a sud-est di IWO lima. L'ammiraglio Clark aveva pensato, infatti, che se i giapponesi avessero voluto radunare l'aviazione per appoggiare la resistenza delle truppe a Saipan, avrebbero
potUto farlo soltanto là. Questa intuizione doveva essere confermata dai fatti che seguirono.
Poco prima delle 6 un aereo da ricognizione giapponese di pattuglia scorse il Task Group di Clark e diede l'allarme a IWO Jima. L'ammiraglio Sadaichi Matsunaga, capo della 27° flottiglia aerea basata su quest'isola, fece decollare d'urgenza la maggior parte dei suoi aerei e li mandò all'attacco delle navi americane.
A partire dalle 6, le portaerei Hornet, Yorktown e Bataan lanciarono 51 caccia Hellcat, armati con bombe da 227 chilogrammi, nella direzione dell'isola giapponese. 

Alle 8.15, giunti a metà strada, gli apparecchi americani incontrarono i giapponesi e, liberatisi dalle bombe, si impegnarono
in una accanita battaglia aerea. Si combatte una lotta serrata, nel corso della quale 29 aerei nipponici vennero abbattuti, contro 6 soltanto da parte americana.
Quattro Hellcat che non si erano sbarazza ti delle bombe andarono a sganciarle sugli aeroporti di IWO lima. Ma l'ammiraglio Matsunaga non si riteneva battuto e lanciò due ondate d'assalto con gli apparecchi che ancora gli restavano. La prima si scontrò con gli Hellcat di pattuglia e tutti i 20 aerosiluranti che la componevano furono abbattuti in fiamme.
La seconda, comprendente 9 bombardieri Judi, 9 aerosiluranti lill e 23 Zeke da caccia, fu intercettata dagli Hellcat di protezione e il combattimento che ne derivò si svolse lontanissimo dalle navi americane. La seconda formazione giapponese venne respinta e perdette 10 caccia Zeke e 7 aerosiluranti lill.
Aerei nipponici isolati continuarono a molestare gli americani, senza però riuscire a giungere a portata delle navi. Alle 18.3°, quando gli attacchi aerei giapponesi cessarono, l'ammiraglio Clark aveva distrutto 66 apparecchi nemici, senza contare quelli fracassati o danneggiati a Iwo Jima. Mitscher si felicitò con Clark per la proficua iniziativa e insistette sul fatto che la distruzione di questi aerei nemici avrebbe di certo faciitato la conquista di Saipan.
Il 25 giugno, giorno della definitiva conquista di monte Tapotchau, un'altra incursione aeronavale americana provocò ingenti danni e distrusse un gran numero di aerei nipponici negli aeroporti di Guam e di Rota.


LA SACCA GIAPPONESE DI PUNTA NAFUTAN

Sempre accerchiati nella sacca di punta Nafutan, i 600 soldati giapponesi avevano esaurito le riserve di riso e di acqua potabile. Il loro comandante decise di tentare una sortita, di distruggere, passando, l'aeroporto di Isely Field, e di raggiungere quota 500, ove supponeva si trovasse il posto di comando della brigata. I feriti e gli invalidi furono abbandonati e invitati » al suicidio.
Nella notte del 26 giugno, verso le 24, i soldati giapponesi si insinuarono tra gli avamposti americani senza essere scoperti e avanzarono in direzione nord-ovest. Molti giapponesi avevano indossato le uniformi americane e poterono in tal modo passare facilmente tra le unità della 21° divisione.
Alle 6 del mattino, i giapponesi piombarono su un comando dell'esercito americano e si diedero a un massacro in piena regola, combattendo corpo a corpo. 24 CI rimasero uccisi e 27 giapponesi fecero la stessa fine. L'episodio si era svolto con la massima rapidità e i giapponesi scomparvero nella notte come erano venuti.
Alle 2.30, raggiunsero il limite dell'aeroporto e riuscirono a incendiare un aereo P. 47 e a danneggiarne molti altri. Risalirono poi a nord, nella direzione di quota 500, conquistata dai Marines il 20 giugno. 
Attacchi e contrattacchi si susseguirono fino alla mattinata e si conclusero con lo annientamento di 143 giapponesi. I Marines avevano perduto 33 uomini.


L'OFFENSIVA A SAIPAN ED I SUICIDI DI NAGUMO E SAITO

Mentre i GI, nella parte meridionale dell'isola, riuscivano a rastrellare finalmente Punta Nafutan, i Marines della 4° divisione occuparono la penisola di Kagman, a est. Al centro, la 27a divisione dell'esercito, il cui comando era stato affidato al generale Ceorge Criner, riuscì ad allinearsi, il l0 luglio, con le posizioni laterali più avanzate dei Marines. Quel giorno, il 2° Marines passò all'offensiva nella direzione del centro abitato di Carapan, che venne rapidamente occupato.
Riprendendo la difficile avanzata, i Marines si lasciarono indietro alcune unità nipponiche a nord di Carapan e giunsero, la sera del 3 luglio, nella grande base àeronavale di Tanapag. Scoprirono i resti calcinati di 8 grossi idrovolanti Wawanishi e, avanzando, si portarono sulla costa nord-ovest di Saipan.
La costa nord-est fu raggiunta soltanto il 4 luglio, giorno in cui cade l'anniversario dell'indipendenza americana, dalle truppe del 2° Marines e della 27° divisione, discendendo i pendii del monte Tapotchau. La resistenza nipponica andava indebolendosi e i difensori erano ormai padroni, in pratica, soltanto della parte nord di Saipan. Il campo d'aviazione di Marpi Point, che i giapponesi non avevano avuto il tempo di completare, era stato devastato dall'artiglieria pesante americana.
All'alba del 6 luglio, il generale Saito riunì gli ufficiali e parlò loro per l'ultima volta, esortandoli al supremo sacrificio e facendo loro promettere di non cadere mai nelle mani del nemico. Saito aveva trasmesso, alcuni giorni prima, un messaggio a Tokio; si addossava tutti i torti e tutte le responsabilità e riconosceva di essere stato incapace di opporsi alla  marea dell'invasione di quei diavoli di americani » .Questa confessione, in forma di autocritica in perfetto stile giapponese, precedette un succulento pasto rituale e, alle 10, dopo aver parlato ai suoi uomini, Saito sali su una collinetta, la liberò dai sassi evi sedette voltato verso est.
Poi si affondò la spada nel petto. Il suo seguito, con le lacrime agli occhi, era rimasto silenzioso durante il  Seppuku » (1) del comandante.
1 Il .Seppuku .è il suicidio tradizionale, ispirato al codice d'onore Buscido; esso è noto con il nome improprio di Kara Kiri.

L'ordinanza, un maresciallo, sparò un colpo di rivoltella alla nuca del ferito, secondo il desiderio espresso dal vecchio generale.
In una grotta di Saipan, non lontano di lì, l'ammiraglio Nagumo compi, quasi nel medesimo istante, un identico gesto rituale. Gli ufficiali e i soldati giapponesi superstiti avevano ricevuto, prima della morte dei comandanti, gli ultimi ordini che intimavano di sferrare un estremo assalto Banzai per salvare l'onore del Giappone.


L'ULTIMO ASSALTO BANZAI ED I SUICIDI DI MASSA

Nelle prime ore del 7 luglio fu dato il segnale e una marea di uomini urlanti si precipitò a sud. I giapponesi isolarono molto rapidamente il I e il III battaglione americano. Plotone dopo plotone, i GI dovettero liberarsi battendosi come forsennati.
Nonostante l'appoggio dell'artiglieria, gli americani non riuscirono a contenere questa ondata fanatica, che approfittava del terreno aperto della pianura di Tanapag per avanzare in ranghi serrati. Le avanguardie nipponiche giunsero fino agli accantonamenti dell 1O° Marines, in quel momento di riserva. I combattimenti furono accaniti e l'artiglieria americana venne a trovarsi non di rado nell'impossibilità di far fuoco a causa della così breve distanza. I corpo a corpo, assai frequenti, furono tanto selvaggi quanto sanguinosi.
Al suono dell'inno guerriero Umi Yukaba, i giapponesi avanzarono fino al momento in cui, verso la fine della mattinata, un contrattacco americano li fermò e li respinse. I Marines e i GI sfondarono le file giapponesi e risalirono a nord, massacrando i soldati nipponici che si trovavano ancora allo scoperto nella piana costiera di Tanapag.
Molti americani erano ancora in preda alla sorpresa e alla paura causata da quella carica selvaggia che aveva ucciso 668 loro uomini ed era costata più di 4200 morti ai giapponesi; ma lo smarrimento divenne ancora più grande quando si trovarono di fronte a uno spettacolo più orribile di tutto ciò che avevano veduto fino a quel momento. Infatti, una parte della popolazione civile di Saipan era rifluita con le truppe nipponiche verso il nord. Quando i soldati giapponesi vennero a trovarsi senza via d'uscita nella zona di Marpi Point, vi era concentrato un ingente numero di civili. Caddero anch'essi all'improvviso in preda a una follia patriottica, o subirono forse la suggestione dell'esempio dei soldati? Nessuno lo sa, e ancora oggi numerosi americani tentano di trovare una spiegazione.
Tutto ebbe inizio nel pomeriggio dell'8 luglio. Una squadra di GI, mentre avanzava verso nord, scorse gruppi di civili impazziti che fuggivano verso l'orlo della scogliera e si gettavano nel vuoto per sfracellarsi, 70 metri più in basso, su mucchi di rocce. I GI non credettero ai loro occhi, ma quando giunsero sull'orlo della scogliera scorsero centinaia di cadaveri insanguinati e smembrati.
Altri plotoni americani assistettero a scene orribili. Videro uomini Sgozzare O strangolare i propri figli e poi gettarsi nel vuoto. Videro donne e vecchi correre, tenendosi per mano, fino al limite del precipizio, poi sparire con un ultimo balzo. Soldati nipponici riunivano gruppi di civili e si suicidavano dinanzi ad essi. Allora, posseduti da un isterismo collettivo, i civili si sgozzavano o si sventravano a vicenda finche l'ultimo si gettava nel vuoto o riceveva un colpo di rivoltella nella nuca per mano
di un soldato.
Le parole non bastano a descrivere queste scene d'incubo. Alcuni americani cercarono di intervenire, ma giunsero troppo tardi.
Nonostante gli inviti alla calma e le esortazioni diffuse dagli altoparlanti, gli americani non riuscirono a fermare questa follia autodistruttiva che continuò fino alla sera del 9 luglio. In quel momento le rocce ai piedi delle scogliere di Marpi Point erano coperte da centinaia di cadaveri e di resti umani.
Gli americani riuscirono a salvare soltanto pochi bambini in tenera età e li circondarono della più paterna sollecitudine.
Il 10 luglio tutto era finito e si poteva procedere al bilancio del1'operazione.

La conquista di Saipan era costata parecchio poiche gli americani vi avevano perduto 14.021 uomini, 3674 dei quali soldati dell'esercito e 10.347 Marines.

Le unità che avevano partecipato all'azione dovettero essere ritirate dal fronte e ricostituite. I giapponesi pagarono, com'è naturale, un tributo maggiore, poi che 30.000 difensori erano morti. Cìononostante un migliaio circa di uomini, per la maggior parte feriti, erano stati fatti prigionieri.

La caduta di Saipan e la sconfitta aeronavale del 19 e 20 giugno rivestivano un'importanza particolarmente grave per il Giappone. Sul piano strategico significavano una porta aperta sulle Filippine e l'abbandono agli americani di basi aeronavali che ponevano il Giappone entro il raggio d'azione dei bombardieri pesanti B. 29.


LA RICONQUISTA DI GUAM 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


L'isola di Guam aveva già subito un'intensa preparazione contemporaneamente a quella effettuata su Saipan, ma, a partire dal 7 luglio, i bombardamenti navali e aerei si intensificarono e si protrassero per quattordici giorni consecutivi. Fu certamente la più lunga e la più violenta fase preparatoria in vista di uno sbarco. Nella notte dal 20 al 21 luglio, il corpo di spedizione americano si avvicinò da nord-est all'isola.
Le navi lanciarazzi si unirono all'artiglieria navale nel bombardamento e, non appena venne segnalato, alle 8.33, che tutte le truppe della prima ondata avevano preso terra, le artiglierie allungarono il tiro. I Marines della 3a divisione erano sbarcati tra Punta Adelup e Punta Asan, ai piedi della scogliera di Chonito. Il 22° reggimento dei Marines, invece, sbarcò più a sud, verso Agat, a sud della penisola di Orote.

Nell'una e nell'altra testa di ponte i primi contatti con il nemico furono sanguinosi e le perdite in vite umane divennero ben presto ingenti. A sud, gli uomini avanzarono nella direzione del Monte Alifan, mentre altre unità attaccavano verso il villaggio di Agat Intorno a mezzogiorno, la testa di ponte di Agat si era consolidata e ciò consenti al 305° reggimento dell'armata di sbarcare insieme ad alcune unità di artiglieria munite di cannoni da 105 mm.
A nord, i Marines avevano dovuto scalare le ripide scogliere di Chonito per raggiungere l'orlo dell'altopiano che domina il mare e le spiagge dello sbarco. Il caldo, il terreno difficile, e i franchi tiratori giapponesi isolati avevano costituito ?1trettanti penosi ostacoli, talvolta mortali.
Furono necessari quattro giorni per consolidare la testa di ponte della zona nord.
Al centro, i difensori giapponesi si erano ritirati verso l'interno, senza dar luogo a combattimenti accaniti perché il generale Takashima intendeva attenersi a un piano che era il più aderente alle forme tradizionali.
Infatti, egli aveva previsto di consentire agli americani di attestarsi, per poi passare al contrattacco quando gli invasori avessero sbarcato molti uomini e ingenti quantità di rifornimenti e di armi; questo per rendere la loro disfatta più spettacolare e più definitiva.
La testa di ponte americana al nord aveva, in quel momento, soltanto una profondità di 15 metri per una lunghezza di 6 chilometri. Si trattava di una stretta fascia costiera ancora molto vulnerabile. Takashima ritenne giunto il momento opportuno e radunò le proprie truppe sul Pianoro Fonte. Infatti i suoi uomini non erano combattenti comuni, ma piuttosto soldati suicidi, vere bombe umane. Ognuno portava granate e tubi di esplosivo appesi alla cintola e aveva il compito preciso di distruggere
tutti i veicoli americani con i quali si fosse incontrato, saltando in aria insieme ad essi.
Gli speciali soldati nipponici cominciarono a infiltrarsi, verso le 22, nelle linee dei Marines e penetrarono nel loro schieramento.
Circa 5000 soldati giapponesi attaccarono il 25 luglio. Per ben sette volte la X L VIII brigata si slanciò sulle posizioni, ancora assai precarie, dei Marines, e per sette volte venne respinta.
Il generale Takashima si dovette arrendere all'evidenza: il suo attacco Banzai era stato un fiasco e gli aveva fatto perdere 3500 uomini, morti o gravemente feriti. Più a sud, nella regione di Agat, i giapponesi avevano sferrato un attacco analogo. Per la maggior parte ubriachi, i soldati giapponesi si misero a urlare mentre stavano per giungere sugli avamposti americani, ma i Marines tennero duro, respingendo addirittura i giapponesi verso le paludi della penisola di Orote. 
Gli americani avanzarono nella direzione della penisola di Orote e sterminarono i pochi giapponesi rimastivi.
Il 26 luglio, alle 7, le forze americane si gettarono all'assalto del monte Tenjo, ove si sospettava che i giapponesi si fossero trincerati. Alle 12.45 gli obiettivi vennero raggiunti e si iniziò il rastrellamento. Il 28 il generale Takashima fu ucciso; lo sostituì il generale di corpo d'armata Obata, mentre i Marines si impadronivano delle vecchie installazioni americane di Guam  e del grande aeroporto.
Il 31 luglio, la maggior parte dei numerosi fortini giapponesi era stata distrutta, grazie all'azione combinata dell'artiglieria e dei carri armati, che tiravano a distanza ravvicinata nelle feritoie delle opere fortificate.
Quello che rimaneva delle forze nipponiche di Guam ripiegò verso nord, nella direzione del monte Santa Rosa. Quello stesso 31 luglio le forze americane attaccarono in numerose direzioni contemporaneamente; si impadronirono della cittadina di Agana, l'antica capitale, e continua.
La conquista americana non si svolse senza perdite perchè era necessario affrontare numerosi franchi tiratori. Il 10 agosto le truppe dei Marines e dell'esercito raggiunsero la costa nord, vicino a Punta Ritidian. 

Guam poteva considerarsi conquistata, sebbene restassero numerosi giapponesi vaganti sulle montagne dell'interno dell'isola. L'impresa era costata 7800 morti o feriti, di cui 6716 Marines, 245 marinai e 839 GI.


LA CONQUISTA DI TINIAN

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)



Ultima per importanza delle tre principali isole dell'arcipelago delle Marianne, Tinian rientrava logicamente nei piani di conquista americani. Considerata come facente parte di una trilogia inseparabile, che si completava vicendevolmente, Tinian si affiancava di conseguenza a Guam e a Saipan nei progetti strategici dell'ammiraglio Nimitz.
Situata a 5 chilometri soltanto a sud di Sapian, l'isola di Tinian ricevette ben presto la visita molto discreta dei sommozzatori militari americani, che dovevano individuare i passaggi più accessibili e stabilire i luoghi più convenienti, del resto molto scarsi, in vista dello sbarco.
Le difese nipponiche sembravano molto solide, tanto sulle spiagge e nelle acque davanti ad esse, come nell'interno, ove vennero scoperte linee successive di fortini e di postazioni di mitragliatrici.
L'attacco di Tinian doveva aver luogo a tre giorni di distanza da quello di Guam, e, approfittando della vicinanza di Saipan, gli americani bombardarono Tinian con gli aerei, le navi e anche per mezzo di 156 pezzi di artiglieria di grosso calibro che sparavano attraverso lo stretto.
Il 24 luglio, dopo un mostruoso bombardamento che distrusse l'essenziale della difesa nipponica, i primi Marines sbarcarono, alle 745. Seguiti in rapida successione dalle altre ondate, gli americani penetrarono per 500 metri verso l'interno senza incontrare una seria resistenza. Alle 10, due reggimenti erano scesi a terra, consentendo al 23° reggimento di sbarcare a sua volta. Alle 10.30 l'artiglieria si attestava, mentre le truppe erano riuscite ad avanzare di 1500 metri, assicurando in tal modo una solida testa di ponte. In verità, questo sbarco era stato largamente facilitato da una diversione effettuata dalla 2. divisione dei Marines più a
sud, davanti alla città di Tinian. L'artiglieria nipponica aveva aperto il fuoco sulla flotta di invasione americana, piazzando colpi fortunati sulla corazzata Colorado e sul cacciatorpediniere Norman Scott.
Bisogna anche dire che davanti al centro abitato di Tinian i mezzi da sbarco americani si erano diretti verso la riva, poi avevano invertito la direzione verso i trasporti, simulando in tal modo l'abbandono dello sbarco di fronte a una troppo accanita resistenza. I giapponesi non sospettarono l'inganno.
Agli ordini del colonnello Ogata, le truppe della marina nipponica difendevano la città di Tinian, a sud-ovest, e le spiagge vicine, mentre l'esercito si era assunta la responsabilità di tutto il resto dell'isola.
Il colonnello Ogata fu tratto in inganno dalla diversione americana e, quando si rese conto della situazione, diede ordine all'artiglieria, posta sulla scogliera di Faibus San Hilo, di distruggere la testa di ponte ame-
ricana a nord.
Durante il pomeriggio, le truppe del colonnello Ogata tentarono di avanzare verso nord, ma subirono gravi perdite causate da bombe al napalm sganciate dagli aerei americani. I giapponesi sembravano particolarmente atterriti da questi proiettili, i quali cadevano dal cielo girando su se stessi come oggetti inanimati ed esplodevano, quando toccavano terra, con un debole rumore, facendo però dilagare all'istante un mare di fiamme arancione che incenerivano tutto al loro passaggio.
Il generale Cates, molto soddisfatto dell'avanzata dei Marines, decise, alle 16.30, di fermarla e di assumere uno schieramento difensivo per la notte.
Di fronte a lui, il colonnello Ogata era deciso a distruggere il nemico sulle spiagge, applicando così un intangibile principio che si dimostrò, in questo caso, una volta di più, superatissimo. I suoi ordini erano già in via di esecuzione, poi che aveva deciso di radunare il grosso delle truppe e di sferrare il contrattacco alle 2 del mattino. 
Come sempre, o quasi, i giapponesi si avvicinarono silenziosamente, poi, giunti a distanza opportuna dalle prime linee americane, si misero a urlare correndo. Alle 2, quindi, 600 giapponesi si stavano precipitando contro l'ala sinistra del 24° reggimento dei Marines e furono annientati da un tiro di armi automatiche della più grande precisione.
Alle 2.3° 200 soldati del Mikado ripartirono all'assalto, ma, questa volta, al centro delle linee americane, nel punto dcongiunzione del 24° con il 25° reggimento. Penetrarono in una falla dello schieramento e avanzarono, ma caddero in una trappola tesa dall'artiglieria americana, che li fece a pezzi. I giapponesi sfuggiti al massacro furono respinti da un potente contrattacco dei Marines.
Alle 3.30 una terza ondata d'urto nipponica, appoggiata da 6 carri, attaccò l'ala destra della testa di ponte, tenuta dal 23° reggimento dei Marines. La lotta fu selvaggia, ma molto rapidamente 5 carri vennero distrutti e i fanti nipponici annientati o dispersi. Quando apparvero le prime luci dell'alba, i Marines avanzarono e contarono 1241 cadaveri nemici.
Ogata, con il resto delle truppe, ripiegò a sud, abbandonando agli americani gli aeroporti numero 1 enumero 3. La 2° divisione dei Marines, appoggiata dalla 4°, sbarcata da pochissimo tempo, si gettò in un lungo inseguimento attraverso le piantagioni di canne da zucchero al centro dell'isola. Per sette giorni i Marines tallonarono, per tutta la larghezza dell'isola, la ritirata di Ogata e, ogni notte, i giapponesi contrattaccarono invano. Il 31 luglio, nel corso dell'attacco notturno, Ogata rimase "ucciso".

La campagna divenne, allora, soltanto un'operazione di rastrellamento, punteggiata qua e là da qualche sporadico combattimento provocato da piccoli gruppi di soldati giapponesi privi di coordinazione. Gli aeroporti numero 2 enumero 4 caddero uno dopo l'altro, e la città di Tinian, ridotta a un cumulo di rovine, fu raggiunta quasi senza combattere. La conquista di Tinian era costata ai Marines 327 morti e 1761 feriti; queste perdite erano relativamente basse, paragonate a quelle subite a Saipan e a Guam.


CONCLUSIONI DELLA CAMPAGNA DELLE MARIANNE 

(TRATTO DA "LA GUERRA DEL PACIFICO" DI B. MILLOT)


Il possesso di Tinian rivestiva un'importanza capitale nel quadro della strategia generale americana, in quanto offriva una eccellente base di partenza per le future operazioni anfibie. Per di più, metteva a disposizione degli americani gli ambiti aeroporti dai quali sarebbero ben presto partiti i super-bombardieri B. 29 per il Giappone. Con I'occupazione di Tinian si completava la conquista dell'arcipelago delle Marianne, essendo le altre piccole isole prive o quasi di difesa. Questa vittoria segnava una importantissima tappa nella riconquista americana. 
Ciononostante, il possesso da parte americana dell'arcipelago delle Marianne ebbe conseguenze ben più gravi e superlargamente il quadro dei contesti tattici e strategici. Infatti, la disfatta aeronavale nipponica del 19 e del 20 giugno e la caduta, imminente in quel periodo, di Saipan ebbero ripercussioni molto importanti in Giappone, ove, dal 15 luglio, vi furono strascichi politici. I comandanti dell'esercito e della marina avevano subito un'umiliazione e il loro prestigio ne risentì profondamente. L'ammiraglio Shimada, ministro della marina e uomo di paglia di Tojo, rassegnò le dimissioni e nessun ammiraglio volle succedergli.
La carica sembrava evidentemente troppo pesante, e appariva come una vera sfida all'impossibile.
La crisi era grave, tanto grave che, il 18 luglio, l'onnipotente generale Tojo si dimise dalla carica. Tutti i bene informati, in Giappone, si aspettavano di vederlo compiere un  "Seppuku" , ma Tojo si ritirò semplicemente dalla scena politica, senza por fine ai suoi giorni. La cosa dispiacque.
Il gabinetto di guerra nominò un sostituto nella persona del vecchio generale a riposo Kuniaki Koiso, e un decreto imperiale gli impose di riprendere in esame l'intera situazione per porre fine alla guerra » .
In occidente, una frase di questo genere avrebbe fatto supporre che fossero state prese in considerazione iniziative di pace, ma in Giappone essa ebbe conseguenze diametralmente opposte. Il nuovo titolare c riprese in esame » la situazione, o, più esattamente, fu il gabinetto intero, composto dal ministro degli esteri Shigemitsu, da molti ministri e dai capi di stato maggiore dell'esercito e della marina, a farlo in sua vece. Questi dignitari conclusero che la politica militare del generale Tojo non era stata attuata con sufficiente energia (sic!) e che bisognava sostenere la difesa in una maniera più feroce e più efficace. 
Questa presa di posizione nipponica derivava dal crollo dell'ultimo baluardo strategico rappresentato dall'arcipelago delle Marianne, ma anche dal fatto che il 15 giugno 1944, 68 super-bombardieri partiti da Chengtu, in Cina, avevano effettuato, su impianti siderurgici dell'isola di Kyushu, il primo bombardamento strategico del Giappone.  Questa incursione provocò una grande costernazione in Giappone e non fu estranea all'irrigidimento della posizione del gabinetto di guerra.


GIUDIZIO DELLO SHINANO 


PREMESSA

La Battaglia delle Marianne fu indubbiamente la più grande e spettacolare battaglia tra portaerei della Seconda Guerra Mondiale e quindi della storia stessa delle battaglie navali.

Si fronteggiarono da un lato l'invincibile armada americana, composta da un numero impressionante di portaerei, corazzate e incrociatori, dall'altro l'intera Marina Imperiale giapponese, pronta al sacrificio estremo.

CHI ERA IL FAVORITO?

Analizzando meccanicamente il numero delle forze in campo verrebbe subito da pensare che gli americani avessero fin dall'inizio il favore del pronostico (erano infatti superiori per il numero di navi e di aerei imbarcati). I giapponesi potevano però contare sul "fattore campo", cioè sul fatto che "giocavano in casa". Avevano infatti a disposizione un impressionante quantitativo di aerei di base sulle isole dell'arcipelago delle Marianne, pronti a colpire mortalmente le portaerei americane. La situazione tattica all'inizio della battaglia non era quindi nettamente a favore degli americani, ma in stallo.

CHI RISOLSE LA BATTAGLIA

Sembra paradossale, ma la più grande battaglia tra portaerei fu risolta a favore degli americani dalla più infida arma navale, il sommergibile. Fu infatti il sommergibile americano "Cavalla" ad affondare in rapida successione le due più grandi ed importanti portaerei giapponesi, la nuovissima Taiho e la gloriosa Shokaku, privando la flotta giapponese di un numero considerevole di aerei e facendo praticamente vincere la Seconda Guerra Mondiale agli americani stessi.

CHI ATTACCO' DI PIU'?

E' indubbio che stavolta, al contrario delle Midway, furono i giapponesi ad avere in mano la situazione. I giapponesi infatti scoprirono subito la flotta americana e gli scagliarono contro quattro attacchi in rapida successione. Gli americani scoprirono solo a fine battaglia la flotta giapponese e poterono compiere solo un estremo e difficoltoso attacco. Non è blasfemo affermare che se fossimo stati all'epoca delle Midway i giapponesi avrebbero distrutto l'armata americana cogliendo una strepitosa vittoria, purtroppo due anni dopo l'aviazione americana surclassava ormai quella giapponese e tutti gli attacchi aerei nipponici si risolsero in una ecatombe di aerei (il famoso "Tiro al Piccione delle Marianne").

CAUSE DELLA SCONFITTA GIAPPONESE

La sconfitta giapponese è da addebitarsi non certo all'eccellente condotta tattica di Ozawa, ma all'inesperienza dei piloti e al fatto che gli aerei giapponesi erano ormai inferiori a quelli americani (gli Hellcat erano ormai il terrore degli Zero). Il fior fiore dei piloti del Sol Levante era ormai andato in cielo dopo la disfatta delle Midway e la vittoria costosissima di Santa Cruz.

IL GIAPPONE AVREBBE POTUTO VINCERE?

Se fossimo stati due anni prima certamente il Giappone avrebbe vinto questa battaglia, ma nel 1944 non penso che in alcun modo i nipponici avrebbero potuto ribaltare le sorti di questo scontro navale. Forse se avessero adottato in maniera massiccia, come nel 1945 durante la battaglia di Okinawa, l'uso dei kamikaze, avrebbero potuto infliggere danni maggiori alle portaerei statunitensi, ma certamente avrebbero perso lo stesso le isole dell'arcipelago delle Marianne.


BATTAGLIA NAVALE  DELLE MARIANNE / NAVAL BATTLES OF MARIANNE ISLANDS


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