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8.10.2004
«Per l’Europa ora si
apre la grande sfida dell’unità politica»
«È adesso che dobbiamo vivere la sfida più grande,
quella dell’unità politica dell’Europa». Giuliano Amato non è uno dei tanti
padri acquisiti della Costituzione che oggi si firma a Roma: in quel testo
c’è parecchio della capacità di elaborazione e mediazione che in Italia gli
hanno valso la nomea di «dottor sottile» della politica e delle istituzioni.
Si è fatta valere anche nel complesso lavoro della Convenzione europea, di
cui è stato vice presidente. Ma, in tutta onestà, non giudica l’approdo
ratificato dai capi di Stato e di governo l’optimum. «Ce lo siamo fatti
tante volte l’elenco delle aspettative, delle proposte non passate, degli
insuccessi nel trasferire i principi all’interno delle norme. Per certi
aspetti siamo davanti a un ibrido. Forse più a un Trattato che a una
Costituzione. Ancora...».
Cosa serve perché diventi vera Costituzione?
«Una battaglia a viso aperto, perché la Costituzione non è un surrogato
delle responsabilità politiche. Ce lo siamo appena detti, tra gli esponenti
della famiglia socialista riuniti a Roma: non chiediamo alla Costituzione
ciò che è giusto fare per l’Europa, chiediamo a noi stessi ciò che è giusto
fare per l’Europa con gli strumenti che la Costituzione offre. E, a onor del
vero, vedo che questa tenzone politico-istituzionale comincia a farsi
strada».
Una strada accidentata, a giudicare dall’empasse della nuova Commissione
europea. L’ombra della contrapposizione parlamentare, che ha indotto José
Manuel Durao Barroso a chiedere il rinvio del voto di fiducia, non s’allunga
sulla solenne cerimonia della firma del Trattato costituente?
«È innegabile la crisi. Ma, attenzione: è crisi di crescita. Non
dimentichiamo che il Parlamento europeo è l’unico organismo dotato di
rappresentanza popolare diretta nell’assetto delle istituzioni europee, ma
paradossalmente risulta il più debole. Era nato come organismo consultivo
dei governi, con una elezione - come si dice - di secondo grado, senza
effettivo potere, né legislativo né politico. Ma, poi, è stato eletto dai
cittadini, e un Parlamento eletto porta dentro di sé l’aspettativa della
rappresentanza legislativa e delle responsabilità politiche. Questi poteri
il Parlamento se li sta conquistando poco alla volta. Era riuscito a crearsi
uno spazio nella possibilità di votare ex post la sfiducia alla commissione
Santer. Aveva provato a testare politicamente lo strumento formale della
fiducia con la commissione Prodi. Questa volta ha cercato di dare sostanza
politica alla forma sulla struttura della Commissione Barroso: se voto di
fiducia deve essere, che voto di fiducia sia».
Vien quasi voglia di aprire una parentesi sulla liquidazione della
fiducia d’investitura al premier assoluto tratteggiato nella revisione della
nostra Costituzione da parte del centrodestra...
«Apriamola e chiudiamola: anche su questo l’Europa offre ampia materia
di riflessione».
Non è chiuso però il pomo della discordia nelle mani di Rocco Buttiglione...
«Quello del commissario designato dall’Italia è il caso più vistoso, ma
dell’occasione hanno in qualche modo fatto parte altri: dalla commissaria
olandese con i suoi ipotizzati conflitti d’interesse ai fini dell’antitrust
a quello ungherese all’energia a cui è stato addebitato di non essere
sufficientemente preparato...».
Verissimo, ma è al caso del cattolicesimo rivendicato da Buttiglione che
si è intrecciata una polemica sulla stessa essenza della Costituzione perché
priva del riferimento ai valori cristiani. C’è questo nesso?
«Infilare di traverso la vicenda Buttiglione per legarla a un presunto
disprezzo dell’Europa per i valori cristiani, di cui la Costituzione sarebbe
testimonianza, è del tutto strumentale al tentativo di far rivivere uno
spirito di minoranza oppressa che la cristianità sicuramente ebbe ai tempi
di san Paolo ma non ha davvero oggi. Se c’è un documento europeo in cui si
riconosce fortemente il ruolo delle religioni e richiama il cuore del
messaggio cristiano, questo è proprio la Costituzione. È nero su bianco:
l’Europa è fondata sulla dignità della persona».
C’è altra fascina sul fuoco delle polemiche di casa nostra: ha visto
manovre punitive per il governo italiano?
«Avrà anche pesato la credibilità di un governo, di cui Buttiglione fa
parte, che rivendica il portafoglio su libertà, giustizia e sicurezza ma è -
lo hanno notato concordemente Romano Prodi e Angelo Panebianco - ancora
inadempiente sul mandato di arresto europeo. Ma questa è, appunto, una
valutazione politica, obbiettivamente non arbitraria da parte di un
Parlamento».
Come ricondurre tutte queste lacerazioni nell’ambito di un corretto
riequilibrio istituzionale?
«A conferma che la questione non nasce oggi, ricordo che fu oggetto di
discussione nella Convenzione. Personalmente avevo proposto che il
presidente formasse la Commissione d’intesa con i governi, ovviamente, ma
anche ascoltando i gruppi parlamentari. È una di quelle ipotesi che poi non
hanno avuto seguito. Di fatto, però, è quel che il Parlamento cerca oggi di
recuperare. Ma proprio la consapevolezza dell’insufficienza del rapporto
politico con i gruppi parlamentari ad aver indotto Barroso a chiedere il
rinvio del voto. Segno che ora la questione è politicamente matura. Ecco
perché parlo di crisi di crescita. Se non è spinta al di là del bersaglio,
mettendo definitivamente in crisi un presidente su cui il Parlamento si è
già pronunciato con un voto, ma produce nuove dinamiche di cooperazione tra
il Parlamento e la Commissione, allora anche questa tenzone avrà contribuito
a rendere sempre meno Trattato e sempre più Costituzione la cornice di
regole dell’Unione europea».
Una volta firmato dai capi di Stato e di governo, il Trattato dovrà
essere ratificato nei Parlamenti o approvato nei referendum popolari nei
diversi paesi d’Europa. Ma già si levano dubbi, riserve e vere e proprie
opposizioni. Lei è proprio sicuro che meriti di essere approvato?
«Sì. E sono arrivato a questa valutazione univoca, scindendo la stessa
domanda in due sotto quesiti. Il primo: se non l’approviamo che cosa
succede? Il secondo: se lo approviamo, possiamo usare questa Costituzione
come piattaforma nel corso del futuro?».
Articoli anche la risposta. Sul primo quesito?
«Il Trattato, pur con tutti i suoi difetti, merita di essere approvato
anzitutto perché è comunque migliore dei Trattati precedenti con cui ci
ritroveremmo. Ma soprattutto perché anche i no più nobili, espressi in nome
di una Costituzione ipoteticamente migliore, finirebbero nello stesso
calderone dei no intrisi da veleni antieuropei».
Valutazione che certo non è ignorata all’interno della famiglia
socialista. Eppure un esponente di primo piano come il francese Laurent
Fabius continua a capeggiare l’avversione al Trattato. Come proverebbe a
convincerlo?
«Gli chiederei, appunto, se ha votato contro i trattati di Maastricht,
Amsterdam e Nizza? Mi risulta di no. Capisco che ci si aspetti che l’Europa
contrasti gli effetti negativi della globalizzazione e abbia una chiara
connotazione sociale. Ma questa Costituzione è quanto di più avanzato
l’Europa abbia finora prodotto in termini di raccordo tra l’economia di
mercato e le azioni volte a promuovere la lotta all’esclusione e
l’affermazione dei diritti sociali. Anche quel poco che siamo riusciti a
infilare nella Costituzione è comunque un di più che ci legittima nel
pretendere che la crescita, la protezione sociale e le opportunità valgano
tanto quanto gli obbiettivi macro economici. Ed è in questa chiave che
dobbiamo leggere una Costituzione che, per la prima volta, assieme ai
tradizionali diritti civili, dà forza legale all’insieme dei diritti
sociali».
Qui si colloca il secondo quesito: come «usare» il Trattato per il vero e
proprio avvio della fase costituente dell’integrazione polita dell’Europa?
«È l’azione politica, e quindi sono le forze politiche, a dover vivere
la sfida che, con l’allargamento, l’Europa si è data, se vogliamo che
l’Europa che ha dato la pace a se stessa contribuisca a dare la pace al
mondo. Potrà farlo solo facendo pesare tutta la sua storia e sentire la voce
di tutti i suoi cittadini, di ieri e di oggi, con l’orgoglio di una unità
fondata sui pilastri fondamentali dei comuni valori».
Ma la nuova Europa è fatta da paesi diversi. Può avanzare, un’Europa così
grande e variegata, e ancor più destinata ad allargarsi e a inglobare altre
diversità, senza un locomotore forte, come quello ipotizzato dalla
cooperazione rafforzata tra i paesi fondatori della Comunità?
«Può essere sicuramente utile il traino di gruppi di avanguardia, ma va
realizzato con intelligenza politica. Il rischio, altrimenti, è di ritirarsi
nel bozzolo della vecchia Europa. Se vogliamo che la cooperazione rafforzata
sia espressiva della capacità di integrare le diversità, allora bisogna
essere capaci di includere anche paesi diversi da quelli fondatori. Due
esempi banali. Il primo investe le frontiere: diciamo agli europei che
l’unione serve al controllo della criminalità e, su un altro piano (che però
sempre di lì passa), dei flussi d’immigrazione; ma quale gestione integrata
delle frontiere è possibile senza includere i paesi nuovi? L’altro può
riguardare un tema classico delle maggiori armonizzazioni, come quello
fiscale: immaginando di essere tra questi paesi, e mi auguro che così sia, è
pensabile una cooperazione rafforzata con la Francia e non, per dire, con la
Slovenia?».
Dica la verità, Amato: è più forte la preoccupazione o la fiducia?
«Se ci chiediamo se abbiamo ancora una dimensione della strategia
europeista, come quella dei padri fondatori, la preoccupazione è più che
legittima. Ma la sfida quella resta: di una grande visione dell’Europa e di
una leadership capace di mobilitare gli europei. E vale la fiducia».
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