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29.10.2004
L'Europa ora ha una
Costituzione.
Quarantasette anni dopo il Trattato di Roma
di Gianni
Marsilli
Il più curioso e sorridente era José Luis Rodriguez Zapatero, proprio
lui che con il cambio di rotta impresso alla Spagna dopo il tragico 11 marzo
ha reso politicamente possibile l’evento che si è celebrato ieri a Roma. Il
più tirato un ingrigito Tony Blair, che ha anche disertato il pranzo al
Quirinale filando dritto a Ciampino, dopo la firma, da dove è subito
decollato per Londra. Il più emozionato era forse Carlo Azeglio Ciampi, che
ha fatto un gran bell’ingresso nella Sala degli Oriazi e Curiazi dello
straordinario Palazzo dei Conservatori, dando inizio alla cerimonia della
firma: sorriso largo, esaudito, quasi paterno. E’ stato lui il vero nume
tutelare della storica giornata. Un po’ per l’autorevolezza che gli viene
dall’età, e molto per quella che gli viene dall’aver costantemente operato
per l’Europa. Presidenti, primi ministri, ministri degli esteri erano lì
tutti in piedi, come scolari all’entrata del maestro. Più di cinquanta
strette di mano, con il capo del cerimoniale che gli presentava vecchie
conoscenze e nuovi, spesso giovani arrivati. Un sorriso d’intesa con Giscard
d’Estaing, un guizzo di cordiale curiosità per un estone debuttante.
Impeccabile cerimonia, si potrebbe dire. Forse un po’ inamidata, cadenzata
come un orologio svizzero. Ma non certo la “sagra paesana” che vi ha visto
Francesco Cossiga, in uno dei suoi momenti di malumore. Evento storico?
Senza alcun dubbio. Simbolico e cerimonioso quanto si vuole, ma senz’altro
storico. Molti anni fa un ministro britannico che voleva portare argomenti
contro l’istituzione del mercato unico aveva detto perentorio: il testo non
sarà mai adottato; se sarà adottato non sarà mai firmato; se sarà firmato,
non sarà mai ratificato. Il corso delle cose pensò a smentirlo
clamorosamente. Così come venerdì la firma della Costituzione ha smentito
molti altri pessimisti di professione. Quasi tutti gli oratori, da Ciampi a
Prodi all’olandese Balkenende non hanno mancato di sottolineare bene in
rosso che la giornata non è stata un punto d’arrivo, ma di partenza. Si
passa adesso alla fase delle ratifiche, che non è certo priva di difficoltà
e rischi. Starà ai capi di Stato e di governo presenti ieri in Campidoglio
creare le condizioni politiche perché quel trattato non finisca alle
ortiche.
Curioso annichilimento delle turbolente dimensioni nazionali, a Roma. A
cominciare dal doppio saluto riservato agli ospiti che arrivavano uno per
uno sul piazzale del Campidoglio. Li riceveva per primo Berlusconi, e pochi
passi più indietro, all’ingresso vero e proprio del palazzo municipale, il
sindaco Walter Veltroni fasciatissimo di tricolore. E’ stato il doppio giogo
bipartisan, che non ha registrato alcun intoppo, sotto il quale sono dovuti
passare tutti: due parole di saluto e via, su per le scalette laterali. Una
volta dentro, sosta d’obbligo sul balconcino che dall’ufficio personale di
Veltroni guarda sui Fori Imperiali: vista mozzafiato, parole di meraviglia,
battute d’invidia. Poi tutti nell’aula di Giulio Cesare ad ascoltare seri e
compunti i discorsi, prima di attraversare il Cortile michelangiolesco per
recarsi nella Sala degli Orazi e Curiazi e firmare il Trattato. Qualche
conciliabolo tra Chirac e Blair, tra Schroeder e Schuessel, tra Prodi e
Giscard. Ma il copione era scritto: non di vertice si trattava, ma di
solenne cerimonia. Che trovava la sua consacrazione sotto le statue
benedicenti di due papi: Innocenzo X e Urbano VIII. Benedicevano, gli
ignari, una Costituzione che non nomina le origini cristiane dell’Europa.
Pesava, eccome, il caso Buttiglione-Barroso. Erano ambedue presenti. Il
primo alquanto tetro, in attesa di recarsi a Palazzo Chigi per il fatidico
colloquio con Silvio Berlusconi. Giovedì aveva incassato gli apprezzamenti
di «arroganza» e «omofobìa» rivoltigli dal primo ministro francese Jean
Pierre Raffarin, peraltro suo compagno nelle file del Partito popolare
europeo. Ieri ha dovuto incassare il falso candido Zapatero, che lapidario
come al solito ha detto pane al pane e vino al vino, riducendo la crisi
istituzionale «ad un solo nome», quello oramai arcinoto nel mondo di Rocco
Buttiglione. Anche Barroso era sulle spine. Gli è toccato persino parlare,
subito dopo Romano Prodi. Ha citato Victor Hugo e il suo invito agli europei
«ad unirsi in un’entità superiore», e Alcide De Gasperi, che auspicava
«molta pazienza ed energica volontà» per la «difficile e complessa»
costruzione europea. Barroso, in questi giorni, deve aver capito che cosa
intendesse il leader italiano con quelle preoccupate parole.
Cammina sulle uova, il presidente della Commissione designato, ma
sostanzialmente sfiduciato dal Parlamento europeo. Entro qualche settimana
dovrà rimaneggiare la sua Commissione. Ben più pimpante Josep Borrell, che
di quel parlamento è il nuovo presidente. Ha potuto legittimamente
rivendicare «il carattere democratico dell’Unione», soprattutto da quando si
regge sulla «doppia legittimità, quella degli Stati e quella dei cittadini»,
cioè quella del Consiglio e quella quella del Parlamento. E’ vero: più che
la giornata di ieri, è stato il caso scoppiato a Strasburgo a inaugurare nei
fatti la nuova stagione europea. Che i rappresentanti scelti dagli elettori
boccino una Commissione contrattata dai governi, è del resto perfettamente
in linea con il nuovo spirito costituzionale.
Roma ha accolto gli ospiti in tutta la sua magnificenza, guidandoli tra le
sue sontuose rovine e le meraviglie di Michelangelo e del Bernini. Tutto
intorno al Campidoglio settemila agenti e duemila vigili urbani avevano
fatto il vuoto. Silenzioso e surreale, tutto il centro attorno a piazza
Venezia era interdetto persino ai pedoni. Nessun incidente ha turbato la
lunga mattinata, salvo un elicottero militare che, proprio nel corso della
cerimonia della firma, si è improvvidamente levato in volo senza avvertire
nessuno, facendo così scattare il dispositivo di allarme antiaereo.
Difficile pensare ad una cornice migliore per il varo della nuova
Costituzione. A dire il vero era una scelta abbastanza obbligata. A Roma si
firmò il Trattato del 1957, e la firma di ieri ne è la figlia storica. Tutti
gli oratori non hanno mancato di riferirsi a quel piovoso giorno di marzo di
quarantasette anni fa. All’epoca c’erano sei bandiere, ieri ce n’erano
venticinque. Nel ‘57 c’era Antonio Segni, ieri c’era Silvio Berlusconi, ma
nessuno è perfetto. Il presidente del Consiglio ha fatto anche lui la sua
brava citazione, scegliendo come al solito il suo caro Erasmo da Rotterdam e
la sua «lungimirante follìa».
Nel suo breve pistolotto Berlusconi è voluto apparire, per l’occasione, tra
i più euroentusiasti. Ha voluto anche annunciare che, non appena finita la
cerimonia, sarebbe corso a Palazzo Chigi per un Consiglio dei ministri
straordinario, perché l’Italia fosse il primo paese a ratificare il prezioso
documento. Sarà anche l’unico governo europeo del quale una fetta essenziale
- nel caso quella rappresentata dalla Lega - vede la Costituzione come fumo
negli occhi, tanto da annunciare battaglia politica per bocciarla.
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