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  Ultimo aggiornamento: 14-11-04

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29.10.2004
L'Europa ora ha una Costituzione.
Quarantasette anni dopo il Trattato di Roma

di Gianni Marsilli
 

 Il più curioso e sorridente era José Luis Rodriguez Zapatero, proprio lui che con il cambio di rotta impresso alla Spagna dopo il tragico 11 marzo ha reso politicamente possibile l’evento che si è celebrato ieri a Roma. Il più tirato un ingrigito Tony Blair, che ha anche disertato il pranzo al Quirinale filando dritto a Ciampino, dopo la firma, da dove è subito decollato per Londra. Il più emozionato era forse Carlo Azeglio Ciampi, che ha fatto un gran bell’ingresso nella Sala degli Oriazi e Curiazi dello straordinario Palazzo dei Conservatori, dando inizio alla cerimonia della firma: sorriso largo, esaudito, quasi paterno. E’ stato lui il vero nume tutelare della storica giornata. Un po’ per l’autorevolezza che gli viene dall’età, e molto per quella che gli viene dall’aver costantemente operato per l’Europa. Presidenti, primi ministri, ministri degli esteri erano lì tutti in piedi, come scolari all’entrata del maestro. Più di cinquanta strette di mano, con il capo del cerimoniale che gli presentava vecchie conoscenze e nuovi, spesso giovani arrivati. Un sorriso d’intesa con Giscard d’Estaing, un guizzo di cordiale curiosità per un estone debuttante.

Impeccabile cerimonia, si potrebbe dire. Forse un po’ inamidata, cadenzata come un orologio svizzero. Ma non certo la “sagra paesana” che vi ha visto Francesco Cossiga, in uno dei suoi momenti di malumore. Evento storico? Senza alcun dubbio. Simbolico e cerimonioso quanto si vuole, ma senz’altro storico. Molti anni fa un ministro britannico che voleva portare argomenti contro l’istituzione del mercato unico aveva detto perentorio: il testo non sarà mai adottato; se sarà adottato non sarà mai firmato; se sarà firmato, non sarà mai ratificato. Il corso delle cose pensò a smentirlo clamorosamente. Così come venerdì la firma della Costituzione ha smentito molti altri pessimisti di professione. Quasi tutti gli oratori, da Ciampi a Prodi all’olandese Balkenende non hanno mancato di sottolineare bene in rosso che la giornata non è stata un punto d’arrivo, ma di partenza. Si passa adesso alla fase delle ratifiche, che non è certo priva di difficoltà e rischi. Starà ai capi di Stato e di governo presenti ieri in Campidoglio creare le condizioni politiche perché quel trattato non finisca alle ortiche.

Curioso annichilimento delle turbolente dimensioni nazionali, a Roma. A cominciare dal doppio saluto riservato agli ospiti che arrivavano uno per uno sul piazzale del Campidoglio. Li riceveva per primo Berlusconi, e pochi passi più indietro, all’ingresso vero e proprio del palazzo municipale, il sindaco Walter Veltroni fasciatissimo di tricolore. E’ stato il doppio giogo bipartisan, che non ha registrato alcun intoppo, sotto il quale sono dovuti passare tutti: due parole di saluto e via, su per le scalette laterali. Una volta dentro, sosta d’obbligo sul balconcino che dall’ufficio personale di Veltroni guarda sui Fori Imperiali: vista mozzafiato, parole di meraviglia, battute d’invidia. Poi tutti nell’aula di Giulio Cesare ad ascoltare seri e compunti i discorsi, prima di attraversare il Cortile michelangiolesco per recarsi nella Sala degli Orazi e Curiazi e firmare il Trattato. Qualche conciliabolo tra Chirac e Blair, tra Schroeder e Schuessel, tra Prodi e Giscard. Ma il copione era scritto: non di vertice si trattava, ma di solenne cerimonia. Che trovava la sua consacrazione sotto le statue benedicenti di due papi: Innocenzo X e Urbano VIII. Benedicevano, gli ignari, una Costituzione che non nomina le origini cristiane dell’Europa.

Pesava, eccome, il caso Buttiglione-Barroso. Erano ambedue presenti. Il primo alquanto tetro, in attesa di recarsi a Palazzo Chigi per il fatidico colloquio con Silvio Berlusconi. Giovedì aveva incassato gli apprezzamenti di «arroganza» e «omofobìa» rivoltigli dal primo ministro francese Jean Pierre Raffarin, peraltro suo compagno nelle file del Partito popolare europeo. Ieri ha dovuto incassare il falso candido Zapatero, che lapidario come al solito ha detto pane al pane e vino al vino, riducendo la crisi istituzionale «ad un solo nome», quello oramai arcinoto nel mondo di Rocco Buttiglione. Anche Barroso era sulle spine. Gli è toccato persino parlare, subito dopo Romano Prodi. Ha citato Victor Hugo e il suo invito agli europei «ad unirsi in un’entità superiore», e Alcide De Gasperi, che auspicava «molta pazienza ed energica volontà» per la «difficile e complessa» costruzione europea. Barroso, in questi giorni, deve aver capito che cosa intendesse il leader italiano con quelle preoccupate parole.

Cammina sulle uova, il presidente della Commissione designato, ma sostanzialmente sfiduciato dal Parlamento europeo. Entro qualche settimana dovrà rimaneggiare la sua Commissione. Ben più pimpante Josep Borrell, che di quel parlamento è il nuovo presidente. Ha potuto legittimamente rivendicare «il carattere democratico dell’Unione», soprattutto da quando si regge sulla «doppia legittimità, quella degli Stati e quella dei cittadini», cioè quella del Consiglio e quella quella del Parlamento. E’ vero: più che la giornata di ieri, è stato il caso scoppiato a Strasburgo a inaugurare nei fatti la nuova stagione europea. Che i rappresentanti scelti dagli elettori boccino una Commissione contrattata dai governi, è del resto perfettamente in linea con il nuovo spirito costituzionale.

Roma ha accolto gli ospiti in tutta la sua magnificenza, guidandoli tra le sue sontuose rovine e le meraviglie di Michelangelo e del Bernini. Tutto intorno al Campidoglio settemila agenti e duemila vigili urbani avevano fatto il vuoto. Silenzioso e surreale, tutto il centro attorno a piazza Venezia era interdetto persino ai pedoni. Nessun incidente ha turbato la lunga mattinata, salvo un elicottero militare che, proprio nel corso della cerimonia della firma, si è improvvidamente levato in volo senza avvertire nessuno, facendo così scattare il dispositivo di allarme antiaereo. Difficile pensare ad una cornice migliore per il varo della nuova Costituzione. A dire il vero era una scelta abbastanza obbligata. A Roma si firmò il Trattato del 1957, e la firma di ieri ne è la figlia storica. Tutti gli oratori non hanno mancato di riferirsi a quel piovoso giorno di marzo di quarantasette anni fa. All’epoca c’erano sei bandiere, ieri ce n’erano venticinque. Nel ‘57 c’era Antonio Segni, ieri c’era Silvio Berlusconi, ma nessuno è perfetto. Il presidente del Consiglio ha fatto anche lui la sua brava citazione, scegliendo come al solito il suo caro Erasmo da Rotterdam e la sua «lungimirante follìa».

Nel suo breve pistolotto Berlusconi è voluto apparire, per l’occasione, tra i più euroentusiasti. Ha voluto anche annunciare che, non appena finita la cerimonia, sarebbe corso a Palazzo Chigi per un Consiglio dei ministri straordinario, perché l’Italia fosse il primo paese a ratificare il prezioso documento. Sarà anche l’unico governo europeo del quale una fetta essenziale - nel caso quella rappresentata dalla Lega - vede la Costituzione come fumo negli occhi, tanto da annunciare battaglia politica per bocciarla.