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PRODI:
IN EUROPA E' MANCATA L'ITALIA...
04-01-2004
Intervista al
presidente della Commissione:
"Sulla mia candidatura c'è un problema di coerenza"
"In Europa è mancata l'Italia"
L'accusa di Prodi sul semestre. "Contro l'euro falsità assolute"
di ANDREA BONANNI
BOLOGNA
- Ha appena finito una telefonata di auguri per il nuovo anno con Gheddafi,
da cui ha ricevuto il ringraziamento per la mediazione che ha consentito di
arrivare all'accordo sulla distruzione delle armi libiche. "Se penso a
quante critiche mi sono dovuto sorbire quando per primo ho ristabilito il
dialogo con Tripoli, mi viene da sorridere", commenta. Da sotto la scrivania
ha tolto il tappetino bruciacchiato dalla bomba incendiaria indirizzata alla
moglie Flavia, che per fortuna non ha fatto altri danni. Ma per Romano
Prodi, nello studio mansardato del suo appartamento di Bologna, questo non è
il tempo della paura.
Tra un pranzo con la famiglia finalmente riunita e le visite dei vecchi
amici bolognesi, la pausa di fine anno segna il momento dei bilanci e dei
progetti. Per l'Europa, certo, che dopo la crisi del 2003 comincia un anno
difficile e decisivo, l'ultimo della sua permanenza a Bruxelles. Ma anche e
soprattutto per il suo programma politico incentrato sulla lista unica
dell'Ulivo alle elezioni europee.
E con questa intervista a Repubblica il presidente della Commissione pone
per la prima volta in modo esplicito alle forze politiche che hanno risposto
al suo appello la questione del suo mandato, che considera importante
completare. "È un problema di coerenza", spiega. Un problema che però non
può e non intende risolvere da solo, avendo contratto con il popolo
dell'Ulivo un impegno morale e politico che non vuole disattendere".
Presidente, cominciamo dall'Europa. La divisione sulla guerra in Iraq, la
crisi del patto di stabilità, il fallimento della conferenza per la nuova
costituzione. Il 2003 si chiude con un bilancio fallimentare. Molti lo hanno
definito l'"annus horribilis" dell'Europa. L'Unione è davvero in crisi?
"Certo è stato un anno difficile. Ma non farei di ogni erba un fascio.
Quella irachena, per esempio, è stata una crisi della non Europa. Se
l'Europa fosse stata presente ed unita, credo che non avremmo avuto la
guerra in Iraq. Credo che saremmo riusciti a trovare una soluzione che
preservasse la pace. Quella sul patto di stabilità, invece, devo riconoscere
che è stata una sconfitta bella e buona: interessi di breve periodo di
Francia e Germania, condivisi dalla presidenza italiana, hanno impedito il
rafforzamento di regole che, pur imperfette, sono indispensabili per il
nostro futuro"
E il disastro del vertice di Bruxelles?
"A Bruxelles il dialogo bilaterale, tra governi, non ha mai lasciato spazio
ad una discussione collettiva. Non c'è stata neppure la possibilità di
contarsi, di obbligare chi non voleva la Costituzione a scoprirsi
esercitando il diritto di veto" .
Un quadro senza luci...
"Non è vero. Il 2003 è stato l'anno dei ripetuti referendum a favore
dell'allargamento e della decisione irreversibile di dare vita ad una grande
Europa che sarà in futuro uno dei protagonisti della politica e
dell'economia mondiali. L'unificazione dell'Europa era la mia missione
quando sono arrivato a Bruxelles ed è stata fin dall'inizio, superando non
poche opposizioni, la priorità della mia Commissione".
Ora però i nuovi paesi entrano senza che l'Europa abbia potuto darsi
nuove regole. I vecchi meccanismi potranno ancora funzionare?
"Ma il problema non è l'allargamento. Anche l'Europa a 15 non avrebbe potuto
funzionare a lungo senza rinnovare le proprie istituzioni, senza una
Costituzione. A 25 o a 15, la questione non cambia".
Dall'Iraq al patto di stabilità allo scacco sulla Costituzione: dietro i
fallimenti europei c'è sempre anche una firma italiana.
"Purtroppo sì, anche se non è la sola. Comunque è chiaro che all'Europa è
mancata l'Italia, come all'Italia è mancata l'Europa. In passato, il
contributo italiano alla costruzione europea è sempre stato decisivo,
soprattutto perché consentiva di superare il piano intergovernativo per
abbracciare un'idea di Europa federale. Nel 2003 questo non è accaduto,
nonostante il serio impegno dei funzionari italiani per raggiungere alcuni
risultati concreti".
Il presidente Ciampi sollecita un'iniziativa dei paesi fondatori.
Berlusconi non è d'accordo. Lei che ne pensa?
"La mia visione dell'Europa mi porta ad insistere, come ho già fatto con la
presidenza irlandese, sulla ripresa del progetto della Convenzione, da
portare avanti a venticinque. Approvare il testo prodotto dalla Convenzione
e dotare l'Europa di una vera Costituzione resta la mia priorità. E' solo
all'interno di un quadro di riferimento come quello definito dalla
Convenzione che qualcuno potrà prendere l'iniziativa di andare più avanti e
più in fretta, senza per questo rompere il tessuto delle regole comuni, come
si è fatto con l'euro" .
E se il nuovo negoziato dovesse fallire?
"E' chiaro che, se la situazione non si sblocca entro il 2004, qualcuno
potrà (e forse dovrà) prendere l'iniziativa di andare avanti. Potrebbero
essere i Paesi fondatori. Oppure, ed è anche più probabile e più
auspicabile, un gruppo eterogeneo di stati membri, vecchi e nuovi, che però
condividono lo stesso ideale europeo. Il treno dell'Unione non può procedere
sempre alla velocità del vagone più lento. Anche perché ho la sensazione che
qualche "vagone" non si voglia proprio muovere, o cerchi addirittura di
tornare indietro" .
Le cancellerie si stanno già interrogando su questo tipo di iniziativa,
che però difficilmente potrebbe restare nel quadro delle istituzioni
attuali. Secondo lei, il rilancio della costruzione europea vale il rischio
di una simile rottura?
"Proprio perché sono consapevole che, alla fine, una rottura istituzionale
potrebbe rivelarsi difficilmente evitabile, mi sto battendo per salvare e
riprendere da subito il progetto della Convenzione".
Tra i punti deboli di questa Europa molti, e in particolare esponenti del
governo italiano, indicano anche l'euro, che avrebbe portato inflazione.
"Dare la colpa all'Euro del disagio economico che l'Italia sta vivendo è
un'assoluta falsità. Occorre ricordare che la moneta unica esiste da quattro
anni. E che da due anni l'euro è in circolazione. In dieci dei dodici paesi
che hanno adottato la moneta europea non c'è stato né l'aumento dei prezzi,
né l'impoverimento della classe media e dei lavoratori a reddito fisso che
si è verificato in Italia, dove invece osservo che già si annunciano aumenti
a raffica di tariffe e di prezzi per l'anno che è appena cominciato. E
allora? E' sempre colpa dell'euro?"
Colpa del governo, dunque?
"L'ho detto e lo ripeto. In Italia è mancato il più elementare controllo
sulla dinamica dei prezzi. Mi chiedo ad esempio dove sia finito l'ufficio
che era stato creato al ministero del Tesoro per verificare che durante la
fase di transizione all'euro non ci fossero abusi, e per impedire che il
paese fosse abbandonato nelle mani dei profittatori".
Nessuna responsabilità della moneta unica, allora?
"Al contrario. Bisognerebbe riflettere su come sarebbe messa l'Italia oggi
senza l'euro: con tassi di interesse doppi o tripli di quelli attuali e con
un'inflazione galoppante. Quanto costerebbero alle nostre famiglie i mutui
sulle case e quanto dovrebbero pagare le nostre imprese per avere credito se
ci fosse ancora la lira? Cosa sarebbe successo in questi giorni con il caso
Parmalat se non fossimo difesi dall'euro?" .
Anche così, comunque, non siamo messi bene.
"E' evidente che, con i prezzi che aumentano e la produttività che ristagna,
c'è una perdita di competitività del Paese anche rispetto agli altri partner
europei. Così non si può andare avanti".
E chi paga il prezzo di questa situazione?
"Lo pagano i redditi fissi, soprattutto quelli medio-bassi. E lo pagano i
giovani, che entrano nel mercato del lavoro prevalentemente attraverso forme
precarie di occupazione, senza prospettive di carriera e con salari
estremamente bassi. Il dualismo del Paese si accentua e le differenze di
reddito aumentano".
Il governo però vanta una diminuzione della disoccupazione.
"In un quadro in cui la crescita è minima e la produttività si abbassa, un
minimo di aumento dell'occupazione non basta a dare una prospettiva al
Paese".
Contro questo stato di cose, lei propone ai partiti italiani del centro
sinistra una "ricetta europea". In che cosa consiste?
"La ricetta, che sto cercando di applicare anche alle nuove prospettive di
bilancio dell'Unione, è contenuta in una proposta molto semplice:
concentrare ogni sforzo sullo sviluppo delle risorse umane. Questo vuol dire
scuola, ricerca, innovazione nei settori produttivi, maggiore competitività
nei servizi che non hanno ancora compiuto la "rivoluzione europea". Di
fronte ad un mondo che cambia ci sono due strade. O inseguiamo la chimera di
nuove dogane e nuovi protezionismi, facendo così precipitare ulteriormente
il nostro tenore di vita. Oppure raccogliamo l'unica sfida possibile, che è
quella, da un lato, di innovare e, dall'altro, di riscoprire l'attenzione
perduta nei confronti delle classi meno protette e meno privilegiate".
E perché mai questa ricetta dovrebbe abbinarsi ad una lista unica?
"L'idea della lista deriva dalla necessità per l'Italia di riprendere un
ruolo di avanguardia nell'Unione mettendo insieme tutti coloro che credono
che solo in Europa e con l'Europa si possano garantire sviluppo e sicurezza.
Gli stati nazionali, da soli, non sono più sufficienti neppure nella
politica".
Sì, però la lista unica è diventata subito oggetto di veti, di polemiche, di
risse politiche.
"Io non posso che ripetere quanto ho già detto. Bisogna che tutte le forze
dell'Ulivo, siano esse partiti o movimenti, che sono determinate a portare
avanti un'idea comune dell'Europa si mettano insieme. E' un esempio di
progettualità collettiva e mi auguro che il 14 e 15 febbraio, alla riunione
dell'Ulivo, questo diventi patrimonio comune di tutti" .
Di tutti? Anche di Di Pietro?
"Lo ripeto: di tutte le forze dell'Ulivo che credono in questo progetto e
che si impegnano a rispettare le regole che insieme si daranno, accettando
di rinunciare a parte della propria autonomia".
Sulla questione della lista unica alle europee pesa però anche
l'incognita della sua candidatura, che ormai sta diventando una telenovela.
Allora, presidente, che fa? Si candida o non si candida?
"Crede davvero che non ci abbia riflettuto? Non sa quante volte, dopo che ho
lanciato l'idea della lista unica, mi sono posto questo problema. Io ho
difeso, e difendo con forza, il diritto del presidente della Commissione di
fare politica e anche quello di sottoporsi al giudizio degli elettori,
rinunciando in quell'eventualità e in quel momento al suo mandato. Ma nel
mio caso specifico, la soluzione del problema non dipende solo da me".
In che senso?
"E' una questione di coerenza e di onestà. Da una parte mi rendo conto che,
lanciando l'idea di una lista unica di ispirazione europeista, mi sono
assunto delle responsabilità nei confronti delle forze politiche che hanno
deciso di condividerla e sostenerla: responsabilità che intendo onorare fino
in fondo. D'altra parte, credo che, proprio perché vogliamo fare dell'Europa
la nostra stella polare, noi tutti, e io per primo, dobbiamo dare l'esempio
di una fedeltà assoluta all'impegno europeo che ho preso quando sono
diventato presidente della Commissione. In un quadro politico che ha sempre
più bisogno di etica, lo ripeto, è un problema di onestà e di coerenza. A
questa questione dovrò rispondere con una scelta condivisa e sostenuta anche
da coloro che hanno deciso, rispondendo al mio appello, di fare propria la
battaglia europea e verso i quali ho contratto un obbligo morale".
Lei pone una questione etica sul dilemma della sua candidatura. Ma allora
cosa dovrebbe fare Berlusconi, che è addirittura presidente del Consiglio?
Neppure lui dovrebbe candidarsi?
"Cosa vuole che le dica? Ognuno ha il suo stile" .
(2 gennaio 2004)
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