Principali teorie

La meccanica quantistica

Le origini

Il continuo classico e discreto quantistico

Il problema del corpo nero

L'effetto fotoelettrico

L'effetto Compton

L'universo quantistico

Il principio di indeterminazione

 
 

La meccanica quantistica

 

Le origini della meccanica quantistica

Si deve a Bohr il primo tentativo di formulare nuove leggi della meccanica valide nel campo dei fenomeni atomici dopo che Planck ed Einstein avevano introdotto il concetto di quanto. Esso e’ un corpuscolo elementare puramente energetico e non ulteriormente divisibile ed affianca altre unita’ fondamentali della fisica come gli elettroni, gli ioni ed infine i nuclei. Altri importantissimi fisici di quel periodo come De Broglie, Heisenberg, Schrodinger, Born e Dirac contribuirono notevolmente alla nascita della meccanica quantistica, che ha rivoluzionato la struttura della materia, ha rifiutato una logica casuale e che è riuscita a spiegare molti fenomeni che la fisica classica non era riuscita a spiegare.

Planck prima ed Einstein poi, posero dunque le basi di questa vera e propria rivoluzione, iniziata con lo studio di due fenomeni: il problema del corpo nero e l’effetto fotoelettrico che contribuirono ad associare al campo elettromagnetico una struttura a quanti. Anche se al giorno d’oggi questa teoria sembra scontata, bisogna riuscire a comprendere che agli inizi del nostro secolo essa non lo era. Questo spiega come mai queste teorie trovarono numerosi ostacoli, creati soprattutto dai fedeli della meccanica classica, che aveva ‘spiegato’ le leggi che regolano il mondo fino all’inizio del nostro secolo.

Nonostante tutto il concetto di quanto non è immediato da concepire. Esso infatti non è visibile ad occhio nudo, ma i risultati sperimentali riguardanti i fenomeni molecolari, atomici e nucleari, nonché molti altri direttamente connessi con le particelle elementari, sono sempre in perfetta corrispondenza con i concetti fondamentali della teoria dei quanti. In conseguenza a questo anche le radiazioni hanno acquistato un aspetto granulare come quello della materia.

Il continuo classico e il discreto quantistico

Per riassumere le differenze tra la teoria classica e quella quantistica si può ricorrere al confronto fra le grandezze che in ognuna delle due teorie si considerano, cioè quelle continue, nella teoria classica, e quelle discrete in quella quantistica.

Si definisce continua una grandezza che non può essere espressa da un numero intero, ma solo da un numero reale. Per esempio è una grandezza continua la distanza fra due punti, infatti tra due punti presi indefinitamente vicini, ci sono sempre infiniti punti e non si può definire un "livello minimo" sotto il quale questa legge perda significato.

Una grandezza discreta invece può essere esperta per mezzo di un numero intero naturale positivo o negativo, come ad esempio il numero degli abitanti di una città che in un giorno nascono o muoiono.
Secondo la fisica classica alcune grandezze come ad esempio l’emissione e l’assorbimento di radiazioni da parte della materia appartenevano al gruppo di quelle continue, mentre, secondo le nuove teorie di Plank e compagni queste grandezze sono caratterizzate da salti a determinati valori, ossia i multipli del quanto elementare di energia; quindi si può dire che con le nuove teorie si è passati da un mondo interpretato solo in modo continuo ad uno interpretato anche in modo discreto.

Secondo la formula di Plank, infatti, il quanto elementare di energia corrisponde a una costante h con valore 6,626 x 10-34 Js.

Il problema del corpo nero

Uno dei fenomeni che misero in crisi le teorie della meccanica classica e che indicò come corrette la teorie che si stavano diffondendo all’epoca riguardanti lo studio dei quanti di energia, fu quello del corpo nero, cioè un sistema capace di assorbire tutte le radiazioni che lo colpiscono qualunque sia la loro frequenza, e rispetto al quale, fissata una data frequenza e una data temperatura, il rapporto fra il potere emissivo e quello assorbente di qualsiasi corpo corrisponde al potere emissivo del corpo nero stesso (per la formula en /an = f(n )=cost), esso, se riscaldato ad una temperatura sufficientemente elevata, emette delle radiazioni la cui curva di distribuzione spettrale non dipende più dalla sua forma, dalla sua natura, né da altre proprietà specifiche del corpo, ma solo dalla sua temperatura assoluta.
Secondo la legge di Stefan-Boltzman l’energia irradiata da un corpo nero nell’unità di tempo per l’unità di superficie è uguale a: E=s T4, con s costante con valore 5,67 x 10-8 W/mk4.

Come si può notare dal grafico sperimentale la radianza spettrale inizialmente aumenta coll’aumentare della frequenza, poi, una volta raggiunto un massimo corrispondente ad un certo valore n m, comincia a decrescere a causa delle alte frequenze presenti nello spettro.

Interpretando l’esperienza secondo le leggi dell’elettromagnetismo classico, come hanno fatto i due fisici inglesi Rayleigh e Jeans, si ottiene un grafico come quello della figura, che è caratterizzato da un indefinita crescita dell’intensità della radiazione all’aumentare della frequenza.

Max Plank, illustre fisico e docente all’università di Berlino, per spiegare questo strano fenomeno, suppose che gli atomi riscaldati si comportino come tanti oscillatori che irradiano energia non con continuità, ma a piccoli pacchetti, che lui chiama quanti, e che sono la più piccola quantità di energia che un oscillatore di data frequenza può scambiare con l’ambiente che lo circonda.
Egli introduce così la formula E=hn, dove n è la frequenza dell’oscillatore e h è una costante che prende il nome di costante di Plank e ha valore 6,626 x 10-34 Js.

L'effetto fotoelettrico

La scoperta da parte di Planck riguardante i famosi quanti si trasformò in una scoperta seria, per i fisici classici, solo quando Albert Einstein tramite lo studio del fenomeno dell’effetto fotoelettrico riuscì a formulare delle opportune generalizzazioni. Il quanto venne difatti riconosciuto solo cinque anni dopo la sua scoperta. Einstein scoprì che attraverso i quanti si riusciva a spiegare non solo l’energia associata alle radiazioni uscenti dal corpo nero, ma la loro discontinuità divenne un concetto fondamentale generalizzato a qualsiasi tipo di radiazione esistente.

Nel 1887 Hertz aveva casualmente scoperto che illuminando una placca di zinco con delle radiazioni ultraviolette il metallo si caricava elettricamente. Solo dopo che gli elettroni furono ufficialmente riconosciuti si capì che questo fenomeno era dovuto all’emissione di elettroni conseguente allo scontro di radiazioni elettromagnetiche di opportuna frequenza con il metallo in questione. Generalizzando: quando una superficie metallica viene colpita da radiazioni di abbastanza alta frequenza essa libera degli elettroni.

La spiegazione a questo fenomeno sta nel fatto che l’energia incidente delle radiazioni si trasforma in energia cinetica degli elettroni colpiti, che in conseguenza si muovono. Non sempre però essi si staccano dalle proprie orbite, in quanto l’energia cinetica deve essere superiore alla forza che tiene legati gli elettroni all’atomo. Questo valore energetico prende il nome di soglia fotoelettrica, e dipende dal tipo di metallo che è stato preso in esame. L’effetto fotoelettrico è un fenomeno che non si verifica soltanto nei metalli, ma in essi è più evidente: si verifica ogni qualvolta che un sistema materiale elementare, atomo o molecola o cristallo, è investito da radiazione elettromagnetica, di energia sufficientemente elevata. Nei gas e nei vapori monoatomici il fenomeno diventa particolarmente più semplice in quanto può essere studiato come se si verificasse separatamente su ogni singolo atomo, che è un sistema molto più semplice, e si riduce alla ionizzazione di quest’ultimo.
Per studiare questo fenomeno si può ricorrere all’uso di una tipica apparecchiatura chiamata CELLA FOTOELETTRICA.

La luce proveniente da un arco voltaico A, ricca di raggi violetti ed ultravioletti, viene convogliata su un prisma che per rifrazione le separa in componenti monocromatiche di diversa lunghezza d’onda. Regolando opportunamente l’inclinazione del prisma si possono ottenere radiazioni di particolare lunghezza d’onda. Attraverso ad una finestra di quarzo (materiale otticamente trasparente alle radiazioni ultraviolette), il pennello di determinata frequenza penetra successivamente in un tubo a vuoto spinto e colpisce una placca P fotoemittente formata da uno strato metallico, caratterizzato da un piccolo potenziale di estrazione. Gli elettroni emessi dalla placca per effetto fotoelettrico, vengono successivamente raccolti dal collettore C e di conseguenza possono originare una corrente misurabile. Al termine di questa apparecchiatura ci sono anche un sistema potenziometrico e un galvanometro.

Gli importanti risultati ottenuti dallo studio di questo fenomeno si possono schematizzare in tre fondamentali punti:

  • Si ha emissione fotoelettrica solo se le frequenza della radiazione incidente è superiore al valore della soglia fotoelettrica precedentemente citata.
  • L’energia cinetica degli elettroni emessi dipende dalla frequenza della radiazione incidente e non dalla sua intensità.
  • Il numero degli elettroni emessi per unità di tempo aumenta all’aumentare dell’intensità della radiazione elettromagnetica incidente.

Einstein riuscì a spiegare questo fenomeno supponendo che l’energia dell’onda fosse concentrata in pacchetti discreti chiamati fotoni. Egli considerò che l’energia cinetica acquistata dagli elettroni doveva essere equivalente all’energia posseduta dai fotoni:

formula1.gif (1097 byte)

w0 rappresenta il lavoro di estrazione; Vmax rappresenta la velocità massima con cui vengono espulsi gli elettroni; n rappresenta la frequenza.
Sviluppando il secondo membro, che deve essere comunque maggiore di zero , e ponendo w0=hn° (che è il lavoro di estrazione) si ottiene che n è maggiore di n°; si deduce che n° rappresenta la frequenza minima, cioè la soglia fotoelettrica, che deve possedere la radiazione per estrarre un elettrone dal metallo.

L’intensità del raggio incidente determina invece il numero degli elettroni destinati ad uscire dall’orbita: più sono i fotoni incidenti più elettroni verranno a contatto con essi.

Numerose sono le applicazioni pratiche dell’effetto fotoelettrico: celle fotoelettriche nel televisore, nel cinema sonoro, nelle macchine fotografiche e anche nel campo sportivo, in tutti i casi cioè in cui si vuole evidenziare, mediante un impulso di corrente, una variazione di un effetto luminoso.

L'effetto Compton

Arthur Compton, nel 1922, mise in luce il problema del cambiamento della lunghezza d’onda di una radiazione monocromatica, ad esempio un fascio di raggi X, in seguito all’attraversamento di una sottile lamina, per esempio di grafite.

Questa situazione sperimentale andava a scontrarsi con la teoria della fisica classica secondo la quale ogni volta che una radiazione elettromagnetica interagisce con una particella carica la radiazione diffusa, qualunque sia la direzone, deve avere la stessa frequenza (e quindi la stesa lunghezza d’onda) della radiazione incidente.

Per spiegare questo fenomeno che risultava strano sulla base delle conoscenze classiche, Compton prese spunto dalle nuove teorie riguardanti l’interpretazione quantistica, cioè molecolare delle radiazioni elettromagnetiche.

Compton, dato che la lunghezza d’onda della radiazione diffusa dalla lamina risultava essere maggiore di quella della radiazione incidente (e quindi si era verificata una diminuzione della frequenza), ipotizzò che la parte dell’energia persa dalla radiazione fosse stata trasmessa agli elettroni più esterni della lamina, permettendo ad essi di "sganciarsi" dalla grafite.

Il collegamento con la teoria dei quanti consiste nel fatto che lo sganciamento degli elettroni atomici richiede un ben determinata quantità di energia (un multiplo del quanto elementare) e quindi si spiega come il fotone, se ha una frequenza abbastanza elevata, può "sganciare" l’elettrone e mantenere una parte dell’energia, inferiore a prima dell’iterazione, che è verificabile per il fatto che ha una minore lunghezza d’onda.
In particolare, se indichiamo con j l’angolo di diffusione del fotone dopo l’urto con l’elettrone e con Dl la differenza tra la lunghezza d’onda del fotone prima e dopo l’urto sappiamo che:

dove c è la velocità della luce (circa 300 000 m/s), h è la costante di Plank (6,626 x 10-34 Js) e m0 è la massa dell’elettrone a riposo (9,108 x 10-31 Kg).

La quantità h/m0 c viene chiamata lunghezza d’onda Compton e ha valore 0,02428 Å per quanto riguarda l’elettrone.

L'universo quantistico

Fino a poco tempo fa la scienza si limitava a descrivere che cosa era successo dopo il Big Bang, l’immane esplosione che 15 miliardi di anni fa diede origine all’intero universo. Oggi le cose sono cambiate. La scienza sta invadendo un campo fino ad ora riservato alla religione: sta cercando di capire che cosa ci fosse prima di quella esplosione, prima cioè della nascita stessa dell’universo. Le ipotesi in discussione sono molte, ma tutte lasciano intravedere la possibilità che prima del nostro ci siano stati molti altri Big Bang. E molti altri universi, ognuno con una realtà fisica diversa: c’è quello dove esiste la materia ma non si può sviluppare la vita, oppure quello dove neanche la materia esiste e tutto è radiazione.

E non è finita qui. Secondo alcuni studiosi di meccanica quantistica, la nostra stessa realtà si sdoppia ogniqualvolta una particella ha la possibilità di comportarsi in modi diversi, dando vita a due universi paralleli: in uno la particella si comporta in un modo, nell’altro nel modo opposto. Di sdoppiamento in sdoppiamento si creano tutte le possibili varianti. Sembra insomma che dopo esserci abituati all’idea che né la Terra né la nostra galassia sono al centro del creato, dovremmo presto accettare anche quella di non appartenere all’unico universo esistente.

Agli scienziati il dubbio era sorto dalla constatazione che le costanti naturali fissate all’epoca del Big Bang, come la carica dell’elettrone o la velocità della luce, sembrano straordinariamente calibrate per favorire la nascita dell’universo in cui si possa sviluppare l’attuale società. Se la gravità fosse stata leggermente più forte, le stelle avrebbero bruciato il loro combustibile nucleare in meno di un anno. Se invece la forza che tiene uniti gli atomi fosse stata più debole, gli astri non sarebbero neanche esistiti. Insomma la vita sulla Terra è il risultato di circostanze così specifiche e di condizione così restrittive da essere considerato un evento di per se altamente improbabile.

C’è però un modo per spiegare una serie tanto impressionante di coincidenze: ammettere che si formino di continuo interi universi, ognuno con caratteristiche del tutto casuali. Ciò aumenterebbe la probabilità statistica che, tra i tanti, possa nascere un universo con le condizioni giuste per generare l’uomo così come è. Questa è l’idea del MULTIVERSO, che tanto successo sta riscuotendo tra i cosmologi.

Lee Smolin, docente di fisica all’università di Pennsylvania addirittura ha azzardato una teoria sull’origine e l’evoluzione degli universi in termini di selezione naturale. Secondo la sua teoria, ogniqualvolta che da un universo ne nasce un altro le leggi fisiche si modificano un po’, come avviene per gli esseri viventi. Così ci sono universi che nascono con leggi ostili e finiscono per estinguersi.
Questa idea originale è basata su una constatazione della meccanica quantistica che ci sono fenomeni microscopici in cui una particella si comporta come se interferisse con una ‘controparte’, invisibile ma reale. Se queste piccole particelle hanno tutte una controparte, ne deriva che anche oggetti più grossi hanno a loro volta una ‘controparte’. E per i sostenitori di questa teoria queste due realtà non sono alternative, ma si verificano entrambe. Essi affermano infatti che anche il minimo cambiamento nello stato di una particella subatomica crei una biforcazione nella storia dell’universo, generando una rete pressoché infinita di mondi, tutti dotati di una propria concretezza.

Un fisico teorico dell’università di Oxford, è convinto che l’interpretazione a molti universi della meccanica quantistica sarà verificata sperimentalmente, nonostante l’inosservabilità degli altri universi.

Può darsi che esistano infiniti altri universi, e che fra gli altri mondi ed il nostro avvengano scambi, separazioni ed intersezioni che forse un giorno riusciremo a rivelare. Ma per ora è solo una suggestiva ipotesi.